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L’identità ritrovata: tragedia rituale e contro-nazionale

4.4 Così parlò il demone della stirpe: La figlia di Iorio

4.4.3 L’identità ritrovata: tragedia rituale e contro-nazionale

Bisogna a questo punto domandarsi in che misura la rappresentazione dell’Abruzzo che scaturisce da questa inversione identitaria aderisca alla verità periferica e riesca a sottrarsi alla scrittura subordinante del centro. È chiaro che, per quanto gli autori da noi presi in considerazione tentino di dare risonanza alla voce del margine, non sempre la loro comprensione di quest’ultima risulta scevra di filtri, interpretazioni devianti, letture interessate; e non sempre, a prescindere dalle intenzioni dell’autore, il margine riesce a riconoscervisi.

L’Abruzzo dannunziano della Figlia di Iorio, a nostro modo di vedere, è ancora fortemente orientalizzato e caratterizzato secondo gli stereotipi meridionisti, primo fra tutti quello già riscontrato ne I Malavoglia dell’astoricità. Quest’ultimo, però, nell’opera del Pescarese, si complica ulteriormente e si dispiega su diversi livelli che è importante non confondere fra loro: un primo livello da interpretarsi, coerentemente con quanto si è fatto per I Malavoglia, come l’assorbimento dell’immaginario orientalista proiettato sul Meridione, che lo vuole retrocesso nel tempo o più spesso immobile, in contrasto e a riconferma della velocità e del progresso che caratterizza invece il Settentrione. Ciò, come si diceva per Verga, è accettato anche perché trovato concorde con la fissità tramandata dalle raccolte folkloristiche, sulle quali in buona parte si basa la ricostruzione della vita periferica, nonché con l’esperienza diretta del mondo contadino, che attribuisce massima importanza al tempo ciclico della natura e della liturgia, lasciando sullo sfondo il tempo della Storia. Di altro segno è invece l’atemporalità dell’iscrizione «ora e molt’anni», posta in esergo alla tragedia, espressione di un tempo indeterminato, di un passato indefinitamente lontano che significa “oggi e sempre”. La frase pare voler significare che gli avvenimenti al centro del dramma potrebbero essere accaduti in un qualsiasi momento del passato e potrebbero accadere ancora: il suo contenuto è quindi universale, come universale è la verità di quella stirpe che tali contenuti

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tramanda. L’universalizzazione dei valori del margine è sintomo e veicolo di un’identificazione del poeta con esso e di un’elevazione della sua verità a verità assoluta. D’Annunzio, infatti, non sembra pervenire come Verga al ribaltamento identitario tramite il riconoscimento della fallacia dell’immagine proiettata, che nondimeno, nel Catanese, porta con sé una convinta adesione ai valori del margine, sentiti come unica difesa possibile alla dissipazione del progresso. D’Annunzio, come si è anticipato, pare invertire la prospettiva proprio in virtù della sua predilezione per i valori periferici, o meglio, per quelli che presenta come tali in accordo con l’immaginario centrale. Quest’ultimo, infatti, non viene davvero messo in discussione dal poeta, se non limitatamente all’inferiorizzazione che produce del margine: l’opposizione che esso instaura fra i due universi culturali è conservata quasi inalterata, seppur invertita di segno. Così la periferia, ancora stereotipata e orientalizzata, viene ad acquisire un primato morale e una centralità normativa, a fronte di un centro presentato come caotico e marginale. Una simile contrapposizione struttura lo stesso cronotopo del dramma. Al tempo circolare della pianura risponde, infatti, l’accesso ad un’altra temporalità: l’arrivo della straniera determina una rottura della regolarità e l’entrata nella vita della comunità di una parentesi “irregolare”. L’allontanamento di Aligi e Mila nel giorno di San Giovanni, in particolare, causa l’apertura di un vuoto temporale geograficamente localizzato sulla montagna, che Emilio Mariano associa al “tempo del mito”, contrapposto a quello storico,111 sottolineando come esso sia spalancato dalla celebrazione rituale, in accordo con le teorie e le parole di Mircea Eliade:

Ogni festa religiosa, ogni periodo liturgico consistono nella riattualizzazione di un evento sacro avvenuto in un passato mitico, al ‘principio’. Partecipare religiosamente ad una festa significa uscire dalla ‘normale’ durata temporale e reintegrare il Tempo mitico riattualizzato dalla festa stessa. Ne consegue che il Tempo sacro è indefinitamente recuperabile, indefinitamente ripetibile112

Tale riflessione potrebbe avvalersi anche del contributo di altri studiosi come ad esempio quello di Furio Jesi. Quest’ultimo, come Eliade, ricollega il problema del mito al «problema del tempo»113 e considera la «rivolta», oltre che la «festa», uno spazio di inversione della temporalità storica vigente (spunto interessante in quanto, come vedremo fra breve, uno spirito contestativo anima le stesse manifestazioni della tradizione contadina). Ancor più pertinente per il nostro discorso è infine la ricerca che Ernesto De Martino conduce nel

111 E. Mariano, Il primo autografo della “Figlia di Iorio”, cit., p. 9.

112 M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno: archetipi e ripetizioni, Roma, Borla, 2010. 113 F. Jesi, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, Macerata, Quodlibet, 1996.

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Meridione d’Italia e a cui dedica una trilogia detta “meridionalista”.114 Ispirato dal

capolavoro di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli e dai Quaderni di Antonio Gramsci, De Martino si reca in Lucania per studiare alcune pratiche religiose arcaiche qui ancora conservate: rituali molto vicini a quelli da lui già riscontrati nelle “culture di resistenza” dei paesi colonizzati e descritti in Mondo magico.115 Si tratta di riti che garantiscono alla società meridionale un regime di esistenza nel quale «la prospettiva negativa è cancellata in virtù di un come mitico». Nella cultura lucana – scrive De Martino in Sud e Magia in accordo con le teorie di Eliade e di Jesi – «la prospettiva infausta è riassorbita nell’orizzonte metastorico, dove non ci sono traversìe e il negativo è sempre cancellabile per la semplice ragione che è stato già cancellato».116 Pur prendendo le mosse dalle ricerche di Levi, dunque, De Martino rifiuta la sua idea (ancora orientalista) di «grande divario», secondo la quale Nord e Sud sarebbero mondi regolati da diverse temporalità: l’uno prodotto della storia e l’altro immutabile residuo di una cultura senza tempo. La destorificazione operata dalla società meridionale, per De Martino, è piuttosto una strategia risolutiva di un conflitto o di una crisi – «crisi della presenza» o «crisi della personalità», come la definisce – che spesso si origina nella storia stessa. Per tale ragione, la categoria di tempo mitico, per come l’abbiamo vista declinata dai suoi massimi teorici, per quanto si adatti bene all’interpretazione del dialogo al centro del dramma dannunziano, non spiega la contrapposizione che qui ha luogo fra tempo della pianura e tempo della montagna. Se da una parte tale categoria ci permette di riflettere sul valore e la funzione del rituale festivo e ci indica quindi la giusta via per comprendere il significato profondo della tragedia, dall’altra ci confonde sulla natura delle due temporalità in gioco. Associando la vita regolata alla storia e qualsivoglia sua smagliatura all’esotismo del mito, la teoria mitica interpreta automaticamente il tempo spalancato dalla liturgia rituale del paese meridionale come l’accesso al “Gran tempo”. Considerando, invece, la realtà periferica per come è presentata da d’Annunzio, cioè in termini orientalisti come una realtà immobile ed immutabile, vediamo spalancarsi nel giorno di San Giovanni, contrapposto al tempo “regolare” della pianura, non il tempo del mito, ma il tempo della Storia. Si tratta dell’immissione del diverso nell’uguale, della temporalità lineare – ovvero di una temporalità altra ed “eccezionale” – nella ciclicità della vita contadina. L’arrivo della

114 E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria (1958), Torino, Einaudi, 2000; Id., Sud e magia (1959), Milano, Feltrinelli, 1987; Id., La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud (1961), Milano, Il Saggiatore, 2013.

115 Id., Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo (1948), Torino, Bollati Boringhieri, 2007. Per un focus sulle continuità tra le teorie demartiniane e il Sud globale vedi R. Dainotto, Tre Sud di Ernesto De Martino, in Nuove frontiere del Sud, cit., pp. 53-64.

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straniera determina infatti l’interruzione del corso naturale delle cose e l’innesto in esso di un tempo evenemenziale o cristologico, il quale viene a sua volta superato e riassorbito proprio grazie alla destorificazione della dinamica rituale. Quest’ultima è sentita a sua volta dal poeta come una costante dell’umanità, universalizzata, liberata dall’“errore del tempo” e così trasfigurata in mito. La comunità responsabile della trasfigurazione è la stessa da cui proviene la voce e la materia della tragedia, la stessa con cui il poeta si identifica aderendo ai suoi valori. Il ribaltamento identitario operato da d’Annunzio a quest’altezza della sua ricerca è visibile nella nuova configurazione delle opposizioni centro/margine e cosmos/caos. Il mondo regolato è infatti collocato dall’autore nella valle, mentre quello della montagna è sentito dalla comunità come il vuoto, l’eccezione, la fuoriuscita dalla legge: dalla legge naturale garantita dalla tradizione, che avrebbe previsto l’unione di Aligi con Vienda, e da quella patriarcale, cui Aligi si sottrae sfidando e uccidendo il padre. Aligi è, come ‘Ntoni Malavoglia, un “evaso” dalla società, ma, al contrario di ‘Ntoni, non si fa solo promotore di una rottura dell’ordine costituito ma anche della difesa di un nuovo ordine. Egli non solo rimuove «la làmpana» della legge, ma ve ne sostituisce un’altra, la quale tuttavia è destinata a spegnersi in fretta. Raffaella Bertazzoli in poche parole condensa efficacemente quanto fin qui si è tentato di illustrare: «La violenza dell’atto di Aligi sui nomoi arriva alla katastrophé, spezzando l’equilibrio atavico grazie al quale è possibile l’eterno ritorno. Per buona parte del dramma infatti Aligi uscirà dal tempo circolare per entrare nel tempo storico, il presente in cui è Mila» e prosegue notando come «Aligi vi giunga in uno stato di alienazione che è in parte mimesi della condizione dell’eroe gestito dal Fato».117 Aligi si deve infatti assimilare

all’eroe tragico che, come vedremo tra breve, non agisce per sua propria volontà ma per incarico di una volontà superiore. D’altra parte, l’oblio che lo assale all’inizio del primo atto, in preda al quale afferma di aver dormito «settecent’anni» e di non riuscire a riconoscere la sua «culla», è anche riconducibile alla sensazione di straniamento propria di chi proviene da un mondo altro, di uno straniero appunto che attraversa il confine. Ne La figlia di Iorio a dividere i due universi culturali è il fiume. Quest’ultimo, separando montagna e pianura, separa due mondi e due tempi: «Io era come un uomo all’altra riva / d’una fiumana che vede le cose / di là da l’acqua e tra mezzo passare / vede l’acqua che passa eternamente».118 È come se il personaggio, scendendo dal monte ed entrando in città, continuasse a conservare un punto di vista da lungi, una prospettiva sopraelevata, un filtro che gli rappresenta la realtà osservata come «acqua» corrente. Questa indicazione ci permette di riconoscere in Aligi il

117 R. Bertazzoli, L’Abruzzo senza tempo, cit., p. 44. 118 G. D’Annunzio, La figlia di Iorio, cit., p. 819.

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d’Annunzio di Laude dell’illaudato, «immerso nello smisurato flutto d’idee, d’imagini, di ispirazioni, di trasfigurazioni, di perversioni, che ferve presso al termine del secolo come l’impeto della piena alla foce di un gran fiume»119 e ci permette anche, di conseguenza, di

identificare l’entità dell’altra riva: si tratta del dominio facente capo a Roma, la capitale d’Italia. Lo spaesamento che assale Aligi nel fare ritorno alla sua «culla», l’Abruzzo, è difatti lo stesso che assale d’Annunzio-Aurispa al suo arrivo a Guardiagrele, città da cui si è da lungo tempo allontanato per vivere nella capitale e nella quale si sente un forestiero. Anche la partenza di Aligi voluta dal padre in giovane età può interpretarsi in chiave biografica come il precoce trasferimento di d’Annunzio a Firenze, per gli studi liceali, quindi a Roma – sempre sotto indicazione paterna – per l’università. Dalla posizione sopraelevata del monte, Aligi progetta inoltre di recarsi a Roma al fine di ottenere dal Papa la dispensa per poter sposare Mila. Il vicario pontificio è quindi eletto ad autorità garante della legge ispirata dall’angelo muto. La contrapposizione che si profila è quella, già riscontrata sempre in Laude dell’illaudato, tra Chiesa romana e Chiesa abruzzese, tra Roma e Abruzzo. D’altra parte, a differenza dei personaggi delle opere precedenti, il protagonista maschile non è sentito come un estraneo dalla comunità, non è oggetto di diffidenza o di odio: Mila lo è, ragion per cui dobbiamo ipotizzare che Aligi e Mila rappresentino una sola identità, quella del poeta, sdoppiata. Significativa in questo senso ci sembra la frase pronunciata da Aligi nel riportare a Cosma gli eventi che lo hanno spinto a tornare sulla montagna:

Ed ecco che la porta da quei cani è percossa con ogni vitupèro. E s’apre contro questa creatura bocca di frode con parole d'odio. E il parentado vuol gittarla al branco. Ed ella trista presso il focolare

chiede pietà, che non ne faccian strazio. Ma io stesso l'afferro e la trascino, per odio e frode: e trascinar mi sembra il mio cuore di quando era fanciullo.120

Mila potrebbe incarnare d’Annunzio fanciullo, isolato ed espulso dalla società «per odio e frode», e incarna sicuramente – forse anche in virtù dell’associazione con il fanciullo divino delle Laudi – il d’Annunzio super-uomo, in grado di ridere nelle fiamme. Tuttavia, nella tragedia, perché il fanciullo lasci posto all’uomo è necessario che sostituisca all’autorità

119 G. D’Annunzio, Il libro ascetico della giovane Italia, cit., p. 429. 120 G. D’Annunzio, La figlia di Iorio, cit., p. 820.

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paterna la propria, perciò Aligi deve uccidere il padre, in una simbologia edipica freudiana che, come vedremo, ha anche un significato politico.

Un’altra interpretazione psicoanalitica particolarmente interessante potrebbe derivare dall’associare il dramma pastorale all’Antigone sofoclea nella lettura che ne dà Jacques Lacan.121 Dramma politico per eccellenza, Antigone presenta il conflitto fra due leggi: la legge della collettività e la legge del singolo, il bene comune e il bene individuale. Antigone, volendo dare degna sepoltura al fratello Polinice, reo di aver portato la guerra nella sua stessa città, vìola le leggi di Creonte e perpetra così la colpa ereditata dal padre Edipo. L’eroina tragica agisce quasi per necessità, in preda ad incoscienza, in balìa di una forza che trascende la sua volontà. Ella è infatti portatrice inconsapevole della legge degli dei, la dìke, opposta allo strapotere delle leggi degli uomini, i nòmoi kthonòs. Antigone mette in crisi l’ordine legiferato su cui si basa la vita sociale ed è quindi costretta a pagare con la vita perché esso sia ristabilito. Creonte la condanna infatti ad essere sepolta in una caverna, ma, poco dopo l’esecuzione della sentenza, si avvede del suo errore di giudizio e prova a liberarla, trovandola però morta impiccata.122 Nel Seminario: libro VII Lacan sostiene che, una volta

ricevuta la condanna, è come se Antigone attraversasse il confine tra la vita e la morte, si ponesse al di là, o meglio, al di qua di qualsiasi legge, nello spazio «fra-le-due-morti», la morte sociale e la morte biologica. La sua legge è il desiderio puro «al di là del principio di piacere», l’«istinto di morte» come distruzione delle leggi che garantiscono la sopravvivenza. Il suicidio di Antigone è paragonato a un sacrificio rituale, ad una morte mistica perpetrata in preda ad una crisi di manìa. Lacan cita a questo proposito Eraclito, il quale sostiene che se non si facessero feste per Ade e Dioniso, entrambi deliranti, si farebbero omaggi a ogni sorta di disonore, come a conferma della necessità per la salute e la salvezza della legge di una parte ribelle interpretata appunto da Antigone, di una porta sul vuoto che coincide con il desiderio e con la morte. Ade e Dioniso non sono forse una sola e medesima cosa, «per il fatto che l’uno e l’altro maìnontai, delirano?»123 si chiede Lacan. Il delirio, nel suo significato etimologico di attraversamento del confine, di sconfinamento, e – secondo la nostra prospettiva – di dialogo con l’alterità, garantisce, oltre alla salute psichica

121 J. Lacan, Il seminario: Libro VII, Torino, Einaudi, 1994.

122 Il re e tutta la comunità comprendono, anche se troppo tardi, l’ingiustizia insita nella pretesa di regolare con i nomoi anche lo spazio vuoto conservato alla giurisdizione degli dei. La legge di Antigone infatti è necessaria perché contrasta e controbilancia la legge della comunità, la morale della «contabilizzazione», la norma di Creonte con cui gli uomini si illudono di dominare la realtà. Anche ne La figlia i due amanti, allontanandosi dalla città, scelgono il desiderio a dispetto del mondo regolato dall’economia (rappresentato dall’offerta di denaro che Lazaro di Roio fa a Mila).

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dell’individuo, il dinamismo della semiosfera, la sussistenza e la rigenerazione della società e dell’identità culturale, come analogamente si è visto per Verga. L’«etica del Bene», la legge della vita comune, l’economia e, potremmo aggiungere, l’apollineo, non devono arrivare ad obliare completamente quello che Lacan definisce «il vuoto della Cosa», il dionisiaco, perciò l’intervento di Antigone, come l’avvento di Mila, appaiono altrettanto necessari alla conservazione sociale. Allo stesso modo l’arte – quella tragica di d’Annunzio ma anche il suo doppione interno alla tragedia, la scultura di Aligi e l’atto creativo con cui accende la nuova lanterna – organizza, contiene e materializza il vuoto, legittimando il pieno. La tragedia adempie nella vita sociale alla stessa funzione cui Antigone adempie nella tragedia: supera e mostra il limite invalicabile dove ogni legge si origina, il vuoto intorno al quale il pieno si struttura. Il ruolo che Lacan attribuisce alla tragedia è quello di istituire o conservare l’ordine sociale, portarlo ad un livello superiore in cui la legge della polis si riconfermi nella consapevolezza della sua precarietà. Per Lacan, infatti, la tragedia greca sorge nell’«epoca dell’elaborazione delle morale della felicità»124 e ne illustra la

sottostruttura. Così il dramma dannunziano illustra la sottostruttura morale della società meridionale, o meglio l’attualizzazione di un’etica, quella della polis greca, in una società ideale che è l’Abruzzo trasfigurato. La legge di quest’ultima ha il suo vuoto, il suo deragliamento e la sua riconferma nella legge collocata sulla montagna, una legge altra che abbiamo identificato con la cultura ufficiale: quella italiana.

A conferma di una simile ipotesi di lettura, basti ricordare che Antigone è fra le tragedie greche più citate da d’Annunzio (compare anche nel Trionfo e nelle Vergini delle rocce) e, come scrive Maria Teresa Imbriani, è presa dal poeta a «modello della perfezione del genere, imitata e tradotta fin dalla Città morta».125 Essa viene inoltre citata nella prefazione di Più che l’amore intitolata Dell’ultima terra lontana e della pietra bianca di Pallade; testo, quest’ultimo, posto da d’Annunzio in apertura all’edizione in volume dell’opera, pubblicata da Treves nel 1907, dopo l’insuccesso della prima in teatro, al fine di decodificarne il significato e di difendersi dalle accuse mossegli dai detrattori. Qui il poeta elabora una sorta di sua teoria della tragedia ed istituisce un parallelo fra Corrado Brando e i vari eroi tragici classici: una reductio ad unum che riconduce le supplici, le baccanti, Oreste, Aiace, Alcesti, Prometeo e appunto Antigone, oltre a tutti i personaggi principali delle sue tragedie, ad un

124 Ivi, p. 282.

125 M. T. Imbriani, La «perfetta» delle tragedie, in G. D’Annunzio, La fiaccola sotto il moggio, Gardone riviera, Il vittoriale degli italiani, 2009, p. XIX. Per un primo richiamo ad Antigone vedi anche E. Paratore, Le due tragedie abruzzesi, in E. Mariano (a cura di) L’arte di Gabriele D’Annunzio, Atti del convegno internazionale di Venezia-Gardone Riviera-Pescara, 7-13 ottobre 1963, Milano, Mondadori, 1968, pp. 283-96: 285.

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solo modello eroico. Sull’Antigone sofoclea l’autore scrive: «O matutina apparizione dell’anima feminea nell’opera giovenile di quel poeta che per la bocca dell’invincibile Antigone rivelò primo al mondo la forza delle leggi “non scritte”! […] arderà perché meglio dal fango mortale si sprigioni nel fuoco lo spirito “infaticabilmente vivo” e continui a operare sul mondo, poi che la più fulgida favilla è già entrata “nel germe ancor cieco del nuovo essere”».126 Il sacrificio di Antigone feconda il mondo, lo fa germogliare di nuova e

rigenerata vita. La stessa figura eroica viene fatta corrispondere dall’autore anche a Ulisse,