Il Trionfo della morte viene pubblicato nel 1894, ma è già in buona parte uscito a puntate sulla «Tribuna illustrata» di Angelo Conti a partire dal 1890 sotto il titolo di Invincibile. Sul rapporto con Angelo Conti e con la sua Beata Riva avremo modo di dilungarci più avanti, basti per ora dire che il suo pensiero rappresenta un importante fonte di confronto per l’elaborazione filosofica e poetica del nostro, soprattutto per i riflessi riscontrabili nella produzione drammatica. Il romanzo è dedicato all’amico pittore Michetti con il quale d’Annunzio condivide la ricerca artistica ma anche e soprattutto la provenienza abruzzese e l’amore per la poesia popolare, come si legge nella dedicatoria iniziale:
E ti ho anche raccolta in più pagine, o Cenobiarca, l’antichissima poesia di nostra gente: quella poesia che tu primo comprendesti e che per sempre ami. Qui sono le imagini della gioia e del dolore di nostra gente sotto il cielo pregato con selvaggia fede, su la terra lavorata con pazienza secolare. Sente talvolta il morituro passar nell’aria il soffio della primavera sacra; e, aspirando alla Forza, invocando un Intercessore per la Vita, ripensa la colonia votiva composta di fresca gioventù guerriera che un toro prodigioso, di singolar bellezza, condusse all’Adriatico lontano. Ma, come si spensero entro le mura ciclopiche di Alba de’ Marsi il re numida Siface e l’ultimo dei re macedoni Perseo crudele, il tragico erede di Demetrio Aurispa si spegne qui ne’ suoi brandelli di porpora straniero ed esule e prigione. Pace a lui nell’ombra della Montagna, ultimamente! Noi tendiamo l’orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra, o Cenobiarca.29
La storia qui narrata da d’Annunzio è quella di un eroe, discendente di valorosi e nobili sovrani, tutti tragicamente sconfitti sotto la potenza dell’Impero Romano e periti entro le mura di Alba dei Marsi. L’ultimo di questa discendenza è Giorgio Aurispa, erede di Demetrio Aurispa, che trova la morte «nell’ombra della Montagna» appenninica, «ne’ suoi brandelli di porpora», da «straniero ed esule e prigione». È come se d’Annunzio volesse scrivere una storia non cronologica dell’immutabile, forte e vitale popolo abruzzese, che tuttavia è una storia subita perché narrata attraverso il protagonista che ne resta estraneo. Il
28 T. Monicelli in «Avanti!», 26 aprile 1905 ciato in V. Moretti, Il dialetto, cit., p. 86.
29 G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, in Id., Prose di romanzi, Vol I, Milano, Mondadori, 1988, pp. 643- 644.
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romanzo racconta infatti la vita e la morte di un “esule” in patria, la cui identità ha a Roma il suo centro e ha il suo margine, dal quale precipita rovinosamente per sua propria scelta, sulla scogliera di Ortona, in Abruzzo. Nello slancio verso il margine, l’ignoto, il negativo, non trascurabile risulta l’influenza di Friedrich Nietzsche, dichiarata sin dalle pagine iniziali del libro, eppure assente nel nucleo originario del romanzo alla base della prima pubblicazione a puntate. Il pensiero del filosofo tedesco infatti, conosciuto in itinere dal poeta e perciò non ancora pienamente compreso e assorbito, viene inserito nel corpo del testo in maniera discontinua. L’interesse di d’Annunzio è in principio tutto rivolto al problema della colpa: all’ereditarietà, alle conseguenze e all’espiazione del peccato di un’unica, totalizzante «dramatis persona».30 Il pensiero dell’Übermensch va perciò ad innestarsi sulla ricerca dannunziana e a ridefinirne le coordinate, ma anche materialmente la geografia. Esso infatti, come vedremo, contribuisce a riformulare il rapporto di d’Annunzio con l’Abruzzo, rapporto che a quest’altezza cronologica è ancora di effettiva estraneità. Sin dall’inizio infatti Giorgio, alter ego dell’autore, si definisce «forestiero» nella sua regione e, al suo arrivo, stenta a riconoscere la sua stessa casa: «giungendo a Guardiagrele, alla città natale, alla casa paterna, egli era così estenuato che nell’abbracciare la madre pianse come un fanciullo. E pure né da quell’abbraccio né da quelle lacrime provò conforto. Gli parve d’essere nella sua casa un estraneo».31 Come già in altre opere – Poema paradisiaco e L’innocente – il protagonista fa ritorno alla dimora materna, in campagna, alla ricerca di una rigenerazione dall’inanità e dalla dissolutezza della città; dissolutezza alla quale contribuisce l’estenuazione sensuale. Il rifiuto di quest’ultima, come rifiuto di una fantasia tipicamente borghese, è assimilabile, seppur con le dovute differenze, allo spostamento di interesse idealizzante dalla “donna fatale” alla “terra fatale” che abbiamo osservato in Verga. Ippolita Sanzio, alter ego di Barbara Leoni, è infatti per Giorgio fonte di desiderio e terrore ed è chiamata da lui la «Nemica»:
«Ella è dunque la Nemica», pensò Giorgio. «Finché vivrà, finché potrà esercitare sopra di me il suo impero, ella m’impedirà di porre il piede su la soglia che scorgo. E come ricupererò io la mia sostanza, se una gran parte è nelle mani di costei? Vano è aspirare a un nuovo mondo, a una vita nuova. Finché dura l’amore, l’asse del mondo è stabilito in un solo essere e la vita è chiusa in un cerchio angusto. Per rivivere e per conquistare, bisognerebbe che io mi affrancassi dall’amore, che io mi disfacessi della nemica...». Anche una volta egli la imaginò morta. «Morta, ella diventerebbe materia di pensiero, pura idealità. Da una esistenza precaria e imperfetta ella entrerebbe in una
30 Ivi, p. 640. 31 Ivi, p. 705.
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esistenza completa e definitiva, abbandonando per sempre la sua carne inferma, debole e lussuriosa. - Distruggere per possedere - non ha altro mezzo colui che cerca nell’amore l’Assoluto».32
Il protagonista si dice vittima di un «impero» amoroso da parte della donna, di una subordinazione per cui tutta la sua vita risulta chiusa in «un cerchio angusto»: un possesso mortificante che gli impedisce di immaginare un nuovo mondo, di varcare quella soglia che pure scorge in lontananza come salvifica. Giorgio esprime quindi la volontà di annichilire in pura e inerte idealità la compagna, idealizzarla fino a renderla simbolo inoffensivo e diventare così a sua volta padrone di un ribaltato rapporto di forza. Questo ribaltamento a livello ideale è già operante, Giorgio infatti «pensa: “Quante cose impure fermentano nel suo sangue! Tutti gli istinti ereditarii della sua razza sono in lei, indistruttibili […]. Io non potrò se non sovrapporre alla realità della sua persona le figure mutevoli dei miei sogni…”».33 Sogni e timori sono proiettati sulla donna, la cui essenza impenetrabile – come
il protagonista comprende – è circonfusa di fascino unicamente dalla sua immaginazione. Quello che egli prova in realtà nei suoi confronti è un «istinto cieco»,34 che entra peraltro in
contrasto con la «suprema legge»35 di natura perpetuata dalla società abruzzese: Ippolita
infatti è sterile. Cionondimeno, il desiderio ineluttabile che lo spinge verso di lei appare ad Aurispa come un’altra espressione della «“volontà” della specie»,36 che lo vuole
irrimediabilmente votato all’estinzione e alla morte. Allo stesso modo, Mila di Codra, la figlia di Iorio, anche lei appartenente ad un’altra razza, sarà portatrice di una legge che contrasta con quella della società abruzzese (trasposizione della legge di natura) e che pure risulta altrettanto necessaria e naturale. Inoltre, Mila, come Ippolita, a pochi istanti dalla morte, sembra gioire intensamente e ridere di una risata quasi demoniaca. Non è un caso che fra gli appellativi ingiuriosi con cui viene schernita dalla comunità vi sia anche «Nemica».37 Fra le due opere, separate da dieci anni di ricerca, vi sono invero numerose corrispondenze, ma anche alcune significative differenze: segni di un’evoluzione poetica di d’Annunzio e di un mutamento nel suo rapporto con l’Abruzzo.
Nel romanzo, la fuga dalla vita romana e il ritorno alla regione natale rappresenta, per Giorgio, uno spostamento transitorio, finalizzato ad un rinvigorimento impossibile, che è al contempo il suo e quello della classe aristocratica a cui appartiene. Quest’ultima, infatti, si è
32 Ivi, p. 850. 33 Ivi, p. 915. 34 Ivi, p. 916. 35 Ibidem. 36 Ibidem.
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allontanata dalla terra per condurre una mediocre vita borghese, per influsso del centro o in conseguenza di una prolungata soggezione all’“impero” di Roma, come si può evincere dalla dedicatoria. Il desiderio di fare ritorno al mondo agreste, tuttavia, è parimenti espressione di quell’universo borghese che fa del Meridione una parentesi, una fuga, un momento di rigenerazione. Nell’Abruzzo rurale del Trionfo ritroviamo lo stesso «quadro da repertorio»38
già presente nel Poema e ne L’innocente: un’armonia quasi musicale della vita contadina e della religione familiare in cui emergono la purezza ed il biancore di una donna materna, figura alternativa alla donna sensuale e luciferina. Inoltre, un personaggio si incarica di prefigurare un possibile destino ascetico per il protagonista. Nel primo romanzo si stratta di Federico, il fratello di Tullio Hermill, sobrio lavoratore dalle idee rivoluzionarie, ideatore di una nuova legge agraria, nominato nel romanzo «Gesù della gleba». Nel Trionfo, invece, è Oreste, il «Messia della plebe»: una figura ispirata a un personaggio realmente esistito, Frate Vincenzo da Cappelle, al secolo Oreste De Amicis, che d’Annunzio conosce attraverso un’opera di Antonio De Nino intitolata Il messia d’Abruzzo.39 Oreste nel romanzo è
presentato come un profeta e un santo, capace di stupefacenti miracoli, non ultimo quello di arrestare un treno in corsa attraversando i binari, gli stessi su cui aveva trovato la morte Cincinnato. Si tratta di un gesto altamente simbolico per il suo significato antimoderno, che ben esemplifica come la strada ascetica intrapresa da Oreste sia per Giorgio una sorta di alternativa, la sola ancora possibile, alla decadenza borghese e alla morte: «Egli stesso, fin da principio, aveva posto il dilemma: – o seguire l’esempio di Demetrio, o darsi al Cielo».40 La sua scelta inizialmente ricade sulla seconda possibilità, un ritorno alla «razza» sull’esempio del Messia abruzzese:
Chi era dunque costui che dalla riva d’un fiumicello poteva agitare col suo nome le moltitudini prossime e lontane, indurre le madri ad abbandonare i figli, suscitare visioni e voci d’un altro mondo nelle anime più rozze? E Giorgio evocò di nuovo la figura di Oreste, coperta della tunica rossa, incedente lungo il fiumicelio sinuoso ove sotto il tremolìo innumerevole dei pioppi un filo d’acqua
38 S. Costa, D’Annunzio, p. 106.
39 Di questa figura, vissuta tra 1824 e il 1889, dà notizia, molti anni più tardi, anche Ennio Flaiano in un racconto (E. Flaiano, Il Messia, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1982) e in un articolo (Id., Don Oreste ovvero la vocazione eccessiva in Id., Autobiografia del Blu di Prussia, Milano, Adelphi, 2012). Secondo quanto racconta Flaiano, frate Oreste era creduto un discendente di San Paolo: sin da giovanissimo aveva infatti dimostrato eccezionali doti di predicatore, aveva poi aderito ai liberali ma al concludersi del sogno quarantottino si era dedicato alle opere caritative e aveva preso i voti. Da parroco di Cappelle si era occupato dell’assistenza ai poveri e dell’istruzione dei fanciulli. Aveva accolto l’unità di Italia con giubilio ma ben presto si era inimicato le autorità. Dopo un ritiro in convento, infatti, aveva fatto rientro a Cappelle autoproclamandosi Apostolo d’Italia, poi Apostolo d’Europa, infine Novello Messia. Aveva cominciato un’intensa opera di propaganda, facendo seguaci tra le classi più umili ed ottenendo da loro piena obbedienza. Le autorità, ostili alla sua attività missionaria, avevano cominciato a considerarlo un mentecatto da emarginare, e a vedere nelle sue idee una minaccia per l’ordine pubblico.
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correva su un letto di ghiaie polite. «Non sarà forse» egli pensava «non sarà in questa improvvisa rivelazione la mia salvezza? Non debbo io, per ritrovare tutto me stesso, per riconoscere la mia vera essenza, non debbo io pormi a contatto immediato con la razza da cui sono uscito? Riprofondando le radici del mio essere nel suolo originario, non assorbirò io un succo schietto e possente che varrà ad espellere tutto ciò che è in me fittizio ed eterogeneo, tutto ciò che ho ricevuto consapevole ed inconsapevole per mille contagi? Non io ora cerco la verità, ma sì bene cerco di ricuperare la mia sostanza, di rintracciare in me i caratteri della mia razza per riaffermarli e renderli quanto più potrò intensi. Accordando così la mia anima con l’anima diffusa, io riavrò quell’equilibrio che mi manca. Il segreto dell’equilibrio per l’uomo d’intelletto sta nel saper trasportare gli istinti, i bisogni, le tendenze, i sentimenti fondamentali della propria razza in un ordine superiore».41
Il protagonista dice di voler espellere tutto ciò che ha ricevuto “per contagio”, tutto ciò che ha assorbito lontano dalla sua terra, di voler rintracciare i caratteri autentici della sua razza per intensificarli e trasfigurarli. Egli opera infatti una sorta di sublimazione del mondo abruzzese: è come se scoprisse significati profondi in quelle che sono le manifestazioni della vita periferica e attribuisse loro un posto privilegiato nel suo sistema di pensiero. La terra natale gli parla proprio alla luce del ruolo che lui stesso le conferisce: quello di tramite per un’elevazione e per una salvazione, l’unica possibile in un sicuro destino di rovina. Il discorso intessuto dalla sua gente acquista senso grazie all’artista, al membro di una classe sociale e intellettuale superiore. Quel discorso, dunque, è subordinato ad una selezione, quando non a un vero e proprio ventriloquio, che viene denunciato dal personaggio e quindi dall’autore, come avviene per l’idealizzazione amorosa, ma, a differenza di quest’ultima, non viene dichiarato come mistificante.
Inoltre, la rappresentazione dei luoghi e della gente abruzzese attinge largamente all’immaginario alterizzante del Meridione e il punto di vista adottato è quello “da lungi”, con la costante contrapposizione, anche pronominale, tra il soggetto osservante e quello osservato (“lui-loro”, se a parlare è il narratore, “noi-voi”, “io-voi”, se il discorso è diretto). Ci troviamo di fronte ad una schietta forma di orientalismo, che denota l’appartenenza dell’autore alla società centrale e la natura di copia della rappresentazione periferica. La portata deformante di quest’ultima è ben visibile nelle descrizioni del paesaggio:42 campi rigogliosi offrono spontaneamente i loro frutti come in un eden dove regna la pace e l’armonia. Ma l’Abruzzo non è solo paradiso, è anche inferno: è primitivo, ancestrale, superstizioso, mostruoso, abnorme. La barbarie della regione natia si rileva in numerosi episodi del Trionfo, uno su tutti la celebre descrizione del pellegrinaggio degli infermi al
41 Ivi, pp. 848.
42 Il paesaggio è altresì dipinto come orientale e magnifico: «Ortona biancheggiava come un'ignea città asiatica su un colle della Palestina, intagliata nell'azzurro, tutta in linee parallele, senza i minareti. […] L'aria respirata deliziava come un sorso di elisìre». Ivi, p. 783.
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santuario di Casalbordino, ispirata al corteo cui d’Annunzio assiste in prima persona nel 1887, per il corpus Domini, e che racconta nelle lettere indirizzate a Barbara Leoni. Già nella narrazione epistolare risulta prefigurato il maestoso affresco che nel Trionfo si dilata in un esercizio manieristico fino ad occupare decine di pagine. Dopo l’impressionante descrizione della processione di corpi malati e deformi la cui autoflagellazione comincia sulla strada del santuario, d’Annunzio descrive minuziosamente la supplica della grazia che turba violentemente i due amanti:
- Madonna! Madonna! Madonna! Mille braccia si tendevano verso l’altare, con una frenesia selvaggia. Le femmine si trascinavano su le ginocchia, singhiozzando, strappandosi i capelli, percotendosi le anche, battendo la fronte nella pietra, agitandosi come in convulsioni demoniache. Talune, carponi sul pavimento, sostenendo su i gomiti e su i pollici dei piedi scalzi il peso del corpo orizzontale, avanzavano a poco a poco verso l’altare; strisciavano come rèttili. Si contraevano puntando i pollici, con piccole spinte consecutive; e apparivano fuori della gonna le piante callose e giallastre, i malleoli sporgenti e acuti. Le mani aiutavano di tratto in tratto lo sforzo dei gomiti; tremavano intorno alla bocca che baciava la polvere, presso alla lingua che nella polvere segnava croci con la saliva mista di sangue. E su quelle tracce sanguigne i corpi striscianti passavano senza cancellarle, mentre davanti a ciascuna testa un uomo alzato batteva con la punta di un bastone il pavimento per indicare la via diritta verso l’altare. […] Ciascuno posava la lingua là dove l’altro aveva già lasciato il vestigio umido; ciascuno batteva il mento o la fronte là dove l’altro aveva già lasciato un brano di pelle o una goccia di sangue e il sudore e le lacrime. Improvviso un raggio di luce radente, dalla porta maggiore penetrando per gli interstizii della calca, illuminava le piante dei piedi contratti, incallite su la gleba arida o sul sasso della montagna, difformate, non più umane quasi, ma bestiali; illuminava gli occipiti capelluti o calvi, bianchi di canizie o fulvi o bruni, sostenuti da colli taurini che si gonfiavano nello sforzo, o tentennanti debolmente come il capo verdognolo d’una vecchia testuggine sbucato dal guscio, o simili a un teschio dissotterrato dove ancóra rimanessero tra rosicchiature qualche ciocca grigia e qualche lembo di cuoio rossiccio. Si distendeva talora su i lenti rèttili un’onda d’incenso cerulea lentamente […]. Poi, a grado a grado, si eccitavano sino al furore, sino alla demenza. Pareva che volessero strappare il consenso del prodigio a furia di grida e di gesti folli. Raccoglievano tutte le forze per gittare un urlo più acuto che giungesse all’imo cuore della Vergine.43
Secondo Lucia Re, in questo passaggio si fa evidente l’influenza su d’Annunzio della neonata scuola di antropologia criminale,44 con le sue descrizioni patologiche delle degeneri genti meridionali, discendenti della razza latina.45 La conoscenza delle teorie di tale scuola da parte dello scrittore sarebbe per altro confermata dall’esplicita volontà, chiarita in una lettera a Hèrelle, di compiere nel romanzo uno «studio rigoroso di un caso di mania suicida
43 Ivi, pp. 883-884.
44 Del 1871 è il noto articolo di Cesare Lombroso riguardante la scoperta di una fossetta occipitale nel cranio di Giuseppe Villella (C. Lombroso, Esistenza di una fossa occipitale mediana nel cranio di un delinquente, «Archivio per l’antropologia e l’etnologia», I, 1, 1871, pp. 63-65) e del 1880 la fondazione da parte di Lombroso e Garofalo della rivista «Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali per servire allo studio dell'uomo alienato e delinquente», che sancisce la nascita della scuola di antropologia criminale. 45 L. Re, Italians and the Invention of Race, cit, pp. 12-13.
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ereditaria».46 Il tema dell’ereditarietà della colpa verrebbe quindi per lui a intersecarsi con il determinismo positivista e ad inserirsi in una più generale visione determinista e “razzista” dei popoli italiani, che sarebbe stata di lì a poco ulteriormente sviluppata in senso antimeridionale da antropologi come Alfredo Niceforo. Al di là di una sistematica adesione a delle specifiche teorie,47 quello che si può senz’altro affermare è che l’opera dannunziana risente e partecipa di un immaginario culturale, quello tardo-ottocentesco, permeato dal razzismo scientifico, dalle sue immagini suggestive (caratteristiche umane associate a quelle di animali, in particolare di rettili e volatili), così come dal suo lessico (parole come «razza», «contagio», ecc.).48
Alla lunga sezione del romanzo dedicata all’inquietante visione del pellegrinaggio, segue la descrizione dei cori intonati dalle donne e dai lavoratori nel giorno della mietitura e l’incontro con Favetta, figura angelicata che assolve ai suoi compiti di pastora cantando ariette che commuovono il protagonista. In questo caso, non sembra trovare applicazione la tesi formulata da Nelson Moe per Verga, secondo la quale l’antipittoresco funzionerebbe come strumento di demistificazione del pittoresco: l’esistenza di una fluidità fra le due estetiche, d’altra parte già rilevata da Basile in diversi autori, è dimostrata infatti da tutto il romanzo. Eppure, non si tratta, nel Trionfo, di una fluidità completamente indifferenziata o accidentale: come si comprende dallo stralcio che riportiamo di seguito, d’Annunzio ha piena coscienza di trovarsi di fronte a due diversi aspetti dell’Abruzzo contrastanti e contraddittori, che proprio per la loro contraddittorietà lo rendono il luogo privilegiato per la catarsi del protagonista.
«È questa la stessa gente che pur ieri si trascinava piangendo su la pietra consunta del Santuario e la segnava di croci con la lingua sanguinante?» Egli paragonava i due spettacoli e i due cori che gli