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3.4 La parola ai vinti: canzone popolare ed epopea nazionale ne I Malavoglia

3.4.2 La matrice popolare del romanzo

Molti sono i critici ad aver studiato la matrice popolare de I Malavoglia, ovvero quella forma, «così inerente al soggetto», che è la vera novità del romanzo.89 Particolarmente penetrante è la riflessione di Alberto Mario Cirese, il quale, già nel 1955, rileva come Verga abbia voluto aderire al mondo popolare siciliano, in modo non meramente superficiale.

[Verga] non era certo alla ricerca di un facile tono locale, e cioè d’una cornice di elementi coloristici più o meno appariscenti e curiosi; non mirava neppure a una ricostruzione “scientifica” del mondo che faceva soggetto della sua fantasia: non era soltanto all’inseguimento d’una condizione pura e verginale. C’era in quelle intenzioni qualche cosa di più che la traduzione in chiave rusticana della teoria dei faits divers, e contemporaneamente qualche cosa di più del semplice avvertimento sentimentale della presenza di un mondo morale di “povera gente” da riconoscere e rivalutare: c’era l’intendimento di penetrare quel mondo per una via che anche lo storico potrebbe proporsi: la via della ricostruzione ab intus, che poggia, come deve, sul documento, ma esercita su di esso la penetrazione dell’intelletto.90

87 G. Debenedetti citato in Introduzione, in G. Verga, I Malavoglia, Novara, De Agostini, 1982, p. VI. 88 A parlare di «coro di parlanti popolare semi-reale» è Leo Spitzer. L. Spitzer, L’originalità della narrazione nei Malavoglia, «Belfagor», XI, 1956, pp. 37-53: 45.

89 G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 12.

90 A. M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe: nota su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci, Torino, Einaudi, 1976, p. 10.

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Come Cirese dimostra, l’identificazione con il soggetto osservato avviene in primo luogo tramite il documento. Lo studioso si richiama ad alcune lettere e alcuni cartoni preparatori in cui l’autore si dichiara debitore delle raccolte folkloristiche, nello specifico del volume Usi nunziali di Pitrè e delle raccolte di proverbi siciliani del Pitrè e del Rapisarda.91 Queste fonti risultano di fondamentale importanza per la genesi dell’opera verghiana, non solo perché sono utili all’autore per ricostruire curiosità interessanti per il pubblico continentale, tali che, come il demologo nota, «potremmo sezionare il romanzo, isolare nuclei grezzamente documentari (gli scongiuri, le favole, gli indovinelli, la visita del consolo, i falò dell’ascensione, lo spadino d’argento ecc.) ed additarne come è stato fatto per altre parti dell’opera verghiana, i riscontri etnografici e sociologici»,92 ma anche per il ruolo

strutturante che esse vanno a svolgere nella composizione dei contenuti e dello stile del libro. Infatti «l’essenziale fedeltà del romanzo a certi tipici aspetti del mondo popolare meglio si dimostra nella trasposizione che Verga opera di taluni procedimenti psicologici-stilistici».93 Attraverso uno scavo genealogico alle radici della creatività popolare, Verga si appropria del fondamento filosofico e stilistico che i componimenti folklorici sottendono. In un altro articolo, Cirese, rielaborando le riflessioni di Gramsci, esalta le possibilità del folklore di esprimere una peculiare concezione del mondo popolare, che, per quanto disorganica, è legittimata e validata come sistema di pensiero dall’assunto che «tutti gli uomini sono filosofi».94 Verga dunque, nella scrittura de I Malavoglia, recupera tale sistema e le sue modalità espressive, dando loro una risonanza nazionale. In particolare, Cirese si interessa ai proverbi, un centinaio e mezzo quelli inseriti dall’autore nel romanzo, senza contare le numerose ripetizioni. Essi, nascendo da eventi contingenti – eventi naturali, sociali, storici – ne cristallizzano l’essenza in una formula fissa e immutabile, in una verità apodittica internamente ed esternamente non dialettica. Per cui possono definirsi «espressione di una fissità ideologica che si traduce in fissità di formula: di rime, di cadenze metriche, di numero di sillabe».95 Inoltre, le massime proverbiali inserite nel tessuto del romanzo non solo lo sostengono, ma lo strutturano, nel senso che la loro modalità compositiva, in termini di lessico, sintassi, prosodia, è riecheggiata da tutto l’ordito dell’opera, tanto che non sarebbe

91 A tal proposito vedi anche F. Cecco, Contributo allo studio dei proverbi nei «Malavoglia», in R. Daverio (a cura di), Studi di letteratura italiana offerti a Dante Isella, Napoli, Bibliopolis, 1983, p. 373; R. Zagari Marinzoli, Traduzione e contestualizzazione del proverbio italiano nei Malavoglia, «NEMLA Italian Studies», 20, 1996, pp. 55-68.

92 Ivi, p. 20. 93 Ibidem.

94 A. Gramsci, Quaderno 10 (XXXIII) § (52) citato Ivi, p. 69. 95 A. M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, cit., p. 14.

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errato parlare proprio di “matrici” o di “moduli”. La stessa lingua italiana risulta rimodulata dall’osmosi con le strutture del dialetto siciliano immesse attraverso i detti. Le frasi brevi, seppur non invertite, sembrano ricalcare una precisa cadenza, ripetere un tracciato prosodico regionale che in un certo qual modo disorienta il lettore colto. Secondo Luigi Russo, a differenza delle prime novelle, dove il siciliano è presente nella sua materialità e interrompe un dettato uniformemente toscano, ne I Malavoglia il dialetto si presenta in forma ideale, «platonica», «mitificata». Lo studioso scrive infatti: «non corre mai una parola materialmente dialettale e invece i periodi, pur ritraendo la sintassi del conversare siciliano, filano come la barca della Provvidenza».96 È come se Verga cercasse di mimare e anche di

rendere universale lo stile di pensiero, più che il lessema, siciliano, dando vita a un idioma creato in laboratorio.

Un esperimento linguistico che ricorda da vicino alcuni classici delle letterature “minori” o postcoloniali, basti pensare all’inglese di The Playboy of the Western World di John Millington Synge,97 uno dei drammi più noti e studiati della letteratura coloniale irlandese, autentica espressione del Celtic Revival. L’autore irlandese compie un’operazione che potremmo senza dubbio associare alla “deterritorializzazione” kafkiana studiata da Deleuze e Guattari:98 il lessico impiegato è infatti inglese, con episodiche inserzioni gaeliche, ma la struttura della frase è a tutti gli effetti irlandese. Lo scrittore in sostanza manomette la lingua del colonizzatore attraverso una sua rivisitazione che rispecchi più fedelmente la forma mentis dell’indigeno. Si tratta di una sorta di traduzione letterale, una risposta di compromesso alla “questione della lingua” che al tempo di Synge interessava gli intellettuali raccolti intorno all’Abbey Theatre. Anche sotto il profilo stilistico The Playboy, che letteralmente significa “cantastorie”, presenta delle consonanze con I Malavoglia. L’opera si richiama infatti alla fantasia popolare, che diventa per Synge modello formale e contenutistico. Nella prefazione dell’opera l’autore afferma che in un paese come l’Irlanda, in cui è ancora così vivida e intatta l’immaginazione popolare, sarebbe impossibile per l’artista competere con tale ricchezza e varietà. Il poeta dovrebbe piuttosto provare ad attingervi, come lui stesso ammette di aver fatto tante volte, spiando, attraverso un foro nel pavimento, le conversazioni delle serve nei seminterrati delle cucine; e in queste parole sembra di ravvisare il passaggio delle Storie in cui Violante spia dall’alto del castello i

96 L. Russo, Antologia critica, cit., p. 18.

97 J. M. Synge, The Playboy of the Western World (1907), Beirut, York Press, 1981.

98 Gli autori d’altra parte fanno esplicito riferimento a soluzioni linguistiche analoghe messe in pratica da due scrittori irlandesi: Joyce e Beckett. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., p. 60.

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discorsi dei pescatori. Secondo Synge lo scrittore non deve copiare ma imitare la creatività del popolo: «the new poet did not copy the productions of the peasant but seized by instinct his inner mode of work».99 D’altra parte, gli studiosi rilevano la presenza nell’opera dello scrittore irlandese di precise corrispondenze con i canti popolari, in particolare con la tradizionale saga di Cuchulain, che Synge legge nella versione di Lady Gregory.100 L’autore irlandese – avvalendosi tanto della fonte empirica, quanto, anche lui, di quella libresca – tenta di emulare la poesia popolare, perciò la sua prosa presenta i caratteristici segnali del componimento orale. Tra questi dobbiamo sicuramente menzionare le ripetizioni e gli epiteti, individuati da Cirese anche ne I Malavoglia e definiti come la riproduzione di «certi procedimenti tecnici e stilistici così diffusi nel canto popolare dove tanto spesso le situazioni identiche tornano con identiche parole».101 In un articolo appena successivo a quello di

Cirese – che il demologo avrebbe poi citato, rammaricandosi dell’occasione mancata – Leo Spitzer accosta tali elementi presenti nel romanzo verghiano a quelli impiegati da Omero (o dalla tradizione autoriale che si cela dietro questo nome) per tramite delle teorie formulate da Parry e Lord sulla poesia orale estemporanea e i suoi supporti mnemonico-ripetitivi.102 Tuttavia, nel romanzo, tali procedimenti formulari, così come i proverbi, secondo il demologo abruzzese, non hanno solo lo scopo di emulare le modalità compositive del popolo, ma anche quello di trasporre artisticamente la «fissità ideologico-stilistica popolare» e di ricreare quella «cristallizzazione di esperienze e l’aura di atemporalità che caratterizza anche obiettivamente certi aspetti del mondo popolare».103

Sull’obiettività del cronotopo malavogliesco torneremo, ma soffermiamoci ora a considerare il ruolo destorificante di queste espressioni poetiche popolari, che Verga desume per lo più dalle raccolte folkloristiche.A ben guardare, nelle culture a oralità primaria, la composizione artistica sviluppa uno stretto rapporto di funzionalità con la realtà.104 I proverbi, le favole, gli indovinelli intervengono a conferire senso ad un avvenimento, a collocarlo in un ordine in cui tutto è già risolto, a eliminare la paura derivante dal presentarsi del nuovo. Essi, rispondendo alla logica del mito, legittimano e sanciscono la realtà collocandola in un eterno presente che già da sempre la contempla e la accoglie. Perciò, in tali creazioni di carattere

99 J. M. Synge, Manuscripts, TCD, MS 4393, f. 17. citato in D. Kiberd, Synge and the Irish language, Dublin, Gill&Macmillan, 1994, p. 36.

100 Ivi, p. 132.

101 A. M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, cit., p. 20.

102 Cfr. L. Spitzer, L’originalità della narrazione nei Malavoglia, cit., p.43; M. Parry e A. B. Lord, Serbocroatian Heroic Songs, Cambridge, Harvard University Press, 1960.

103 A. M. Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, cit., p. 21. 104 W. J. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il mulino, 2004.

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performativo, la storia «vi è, ma nascosta, e ciò che più conta, negata»,105 come nota Cirese citando un detto presente nel romanzo e pronunciato da Padron ‘Ntoni: «il motto degli antichi mai mentì». Dunque, la poesia popolare vive in simbiosi con l’azione storica, non la elimina, anzi, la rende possibile. Ed è quanto lo studioso sembra suggerire anche a proposito del significato profondo del romanzo, quando afferma che lo stesso fulcro dell’opera consiste nell’entrata del tempo cairologico nel tempo mitico. La fuoriuscita di ‘Ntoni dalla comunità e il suo ritorno al villaggio, che danno il via all’azione, fanno irrompere, nell’universo regolato dalla ciclicità della natura, la storia e il suo portato disgregante. Con l’abbandono definitivo della comunità da parte del personaggio, la consuetudine ciclica è ristabilita, è risaldato il circolo nella «via dell’iterazione e della cristallizzazione, che non sono soltanto replica di formule ma chiusura dei convincimenti entro un giro di certezza rituale, affermazione della loro perennità della loro assolutezza temporale».106 Lo studioso del

folklore conclude la sua analisi del romanzo affermando che «la storia è passata, come doveva, come non poteva non passare, […] pur se ancora inavvertita, pur se ancora una volta respinta».107

Seguendo il ragionamento di Cirese, possiamo affermare che non solo il romanzo ha le caratteristiche formali di una composizione popolare e sembra il prodotto poetico del popolo, ma esso ne ripete anche la funzione. L’opera, infatti, narrando l’impatto del progresso sulla vita di un umile villaggio siciliano, dal punto di vista dei suoi abitanti, si pone anche, nel suo complesso, come tentativo di riassorbirne la portata dirompente, secondo le modalità proprie della creatività artistica “presa alla sua sorgente”. Andiamo dunque a vedere in che forma tale sconvolgimento si esplichi nel romanzo verghiano e in che modo venga ad essere elaborato dall’identità periferica, dando luogo a una configurazione che sin d’ora possiamo cominciare ad indicare come “testo culturale” o “quadro del mondo” della periferia meridionale.