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Gabriele d’Annunzio, nativo di Pescara, si allontana giovanissimo dal suo Abruzzo. Già nel 1874, alla tenera età di undici anni, si trasferisce a Prato, per attendere ai suoi studi presso il Liceo Cicognini, seguendo la volontà del padre. Quest’ultimo desidera per il discendente maschio un’educazione di respiro nazionale, una toscanizzazione anche linguistica, che spinge inevitabilmente il futuro poeta a lasciare da un canto la cultura regionale. Tuttavia, Gabriele, sin dalle primissime prove poetiche, manifesta un interesse crescente per la propria terra, che andrà poi ad attraversare sotterraneamente buona parte della sua produzione successiva. Nel 1880 entra nel cenacolo francavillese: una cerchia di intellettuali riunita intorno al convento di Santa Maria di Gesù appartenente al pittore Francesco Paolo Michetti, di cui fanno parte, fra gli altri, il compositore ed esperto di musica popolare Francesco Paolo Tosti, lo scultore Costantino Barbella, il musicista Paolo De Cecco, gli scrittori e giornalisti Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, nonché Basilio Cascella, fondatore nel 1899 della rivista «L’illustrazione abruzzese». Il sodalizio artistico con queste figure è di fondamentale importanza per il giovane poeta e per gli indirizzi presi dalla sua ricerca: egli infatti attingerà a piene mani da quel repertorio regionale di cui i compagni lo rendono partecipe. A loro è rivolta la dedica della seconda edizione di Primo Vere, del 1880, accompagnata, in esergo alla raccolta, da un componimento intitolato Ex imo corde. Al mio fiero Abruzzo,1 in cui già

emergono diversi topoi tipici della rappresentazione orientalista del Meridione poi caratterizzanti la produzione matura dello scrittore. Sempre nel 1880 esce sul «Fanfulla della Domenica» la prima “figurina abruzzese”: un bozzetto intitolato Cincinnato e ispirato in modo evidente a Il matto delle giuncaie di Renato Fucini,2 a sua volta tratto, nei temi e nelle trovate formali, dalle prime novelle verghiane.3 La storia di Cincinnato, come sintetizza l’autore, è la storia «di un amore tradito, di una coltellata, di una fuga…»,4 perfettamente in

linea con il redditizio immaginario “meridionista” che in Cavalleria rusticana ha il suo massimo esempio. Inoltre, una delle tematiche principali della novella è quella già incontrata del reietto: il protagonista è infatti colpito da un morbo che ne causa la regressione mentale

1 G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Milano, Mondadori, 2001, p. 9.

2 Il racconto è del 1876, poi pubblicato in raccolta: R. Fucini, Le veglie di Neri, Firenze, G. Barbera, 1882. 3 Vedi G. Pannunzio, Archetipi di alterità in «Cincinnato» di G. D’Annunzio, in G. Oliva (a cura di), La capanna di bambusa. Codici culturali e livelli interpretativi per «Terra Vergine», Chieti, Solfanelli, 1994, pp. 65-80.

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e il conseguente isolamento. Il suo capo, come si è già notato per i personaggi verghiani, è perennemente chinato: «gli occhi li teneva sempre a terra: si guardava la punta dei piedi scalzi».5 Per descriverlo, d’Annunzio utilizza metafore bestiali, lo paragona a un cane, a un orso, a un uccello. Cincinnato, inoltre, intona «canzonette castellamaresi dalle lunghe cadenze malinconiche»,6 come si è visto fare ai personaggi verghiani. L’autore insiste sulla bontà d’animo del “matto”, resa evidente dal dono di papaveri e spighe offerto al giovane narratore, nonché dal rifiuto della carità monetaria, fattagli più tardi dal narratore stesso, che sembra offenderlo profondamente. Alla domanda sul suo paese di provenienza, risponde descrivendo la sua «casa bianca» con «l’orto grande» dove la «bella Tresa» lo ha tradito, come se lo stesso concetto di appartenenza territoriale gli fosse ignoto.7 Analogamente, in una successiva novella dannunziana intitolata Toto, il personaggio principale, posto di fronte alla medesima richiesta, spalanca la bocca mostrando un «mozzicone nerastro di lingua»:8

egli non può rispondere perché è muto. Alla significativa difficoltà espressiva caratterizzante lo stesso Cincinnato, fa da contraltare la superiorità del narratore – alter ego dell’autore – con la sua compiaciuta ricercatezza lessicale («mi rammento che lo colpì la parola “diafano”»)9. Lo sguardo del ragazzo è ingenuo, puro e perciò oggetto di curiosità per il

narratore: quando vede un treno avvicinarsi rapidamente, Cincinnato esclama «Va va va lontano lontano, nero, lungo come il drago, e ha il fuoco dentro che ce l’ha messo il demonio, ce l’ha messo!...».10 Siamo in presenza di una forma di immaginazione fantastica dell’altro, di una proiezione, in questo caso particolarmente elementare, che fa apparire tutto ciò che è ignoto attraente e pericoloso, demoniaco. Essa si trova peraltro rispecchiata (sebbene ad un livello più raffinato) e quindi decodificata nel personaggio del narratore, il quale a sua volta si chiede cosa l’altro pensi, cosa passi in quella «povera mente malata»: «vedeva dei lembi di mondi lontani e luminosi, vedeva dei viluppi di colori, qualche cosa di vasto, di sterminato, di misterioso; e la ragione gli si perdeva dietro quei fantasmi vani. Le sue frasi sconnesse, ma quasi sempre pittoresche, lo lasciavano indovinare».11 Cincinnato a un tratto muta di comportamento, crede infatti di riconoscere la sua Tresa in una donna del villaggio, prende a seguirla e diventa violento con chi le si avvicina, pur conservando intatta la sua cristallina purezza. Il narratore ne è profondamente turbato e ammette di essere «stregato»

5 Ibidem. 6 Ivi, p. 20. 7 Ivi, p. 19. 8 Ivi, p. 33. 9 Ivi, p. 19. 10 Ivi, p. 21. 11 Ivi, p. 21.

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da quell’uomo. Cincinnato infine si suicida gettandosi sotto un treno in corsa: «lo trovarono sul binario vicino al ponte, sfracellato che pareva un mucchio di carname sanguinoso».12 La morte volontaria del soggetto osservato, per di più procurata andando fisicamente incontro a uno degli elementi più simbolici della modernità soverchiatrice, chiude il cerchio di una narrativa che in gran parte assorbe, già nelle sue espressioni inaugurali, le suggestioni della prima poetica verghiana e che si pone come copia dell’immagine subordinante coniata dal centro, seppur consapevole e problematica. Come scopriamo da una lettera dell’anno successivo indirizzata al De Cecco,13 il bozzetto doveva essere il primo di una più estesa serie da pubblicare per Treves, con figurine illustrate dal Michetti. Tuttavia, il progetto, altamente coerente con quella che abbiamo visto essere la politica commerciale dell’editore milanese, non si concretizza e la novella viene inserita nel primo libro di racconti del 1882.

Disegni michettiani corredano invece la seconda raccolta poetica dannunziana, che riunisce testi già pubblicati separatamente: Canto novo. Nel libro, dato alle stampe per la prima volta sempre nell’‘82, a prevalere è senza dubbio la celebrazione della natura, che si congiunge strettamente con la sensualità femminile e con i primi presagi del “panismo” dannunziano. Tuttavia, sono presenti anche tematiche sociali: la terza sezione dell’opera, espunta nell’edizione successiva, è interamente dedicata al lavoro operaio. Proprio al De Cecco, il più giovane del cenacolo michettiano e fervente socialista, d’Annunzio si rivolge infatti per primo, per annunciare la prossima uscita di Canto Novo, «con scariche di socialismo feroce».14 A Giselda Zucconi, la «Lalla» dedicataria della raccolta, scrive di voler «combattere per gli oppressi contro gli oppressori».15 Si può quindi intravedere in questa, che è altrimenti considerata un’irrilevante parentesi dell’impegno politico dannunziano, la prima e ancora acerba spinta verso i subalterni e verso una verità di popolo che poi vedremo sviluppata nelle opere successive. All’interno della raccolta, l’autore manifesta anche la volontà di scrivere un poema impegnato ispirato dalla terra natale. Volontà che avrebbe riconfermato qualche anno più tardi, nel 1884, in una lettera a Nencioni, parlando di un romanzo storico dal titolo Pantagruelion:

Voglio fare un romanzo, dirò così, omerico, epico, in cui molti personaggi operino e masse di popolo si muovano; un romanzo con moltissimi fatti e pochissima analisi, un romanzo a fondo storico. L’azione si svolgerà a Pescara tra il ’50 e il ’75. Ho qui una meravigliosa miniera di documenti, ci

12 Ivi, p. 23.

13 Cfr. S. Costa, D’Annunzio, Roma, Salerno, 2012, p. 62.

14 F. Di Tizio, Lettere di D’Annunzio a Paolo De Cecco, «Quaderni del vittoriale», 37, 1983, pp. 57-75. 15 G. D’Annunzio, Lettere a Giselda Zucconi, a cura di I. Ciani, Pescara, Centro Nazionali di Studi Dannunziani, 1985, p. 127.

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entreranno i Borboni, li uomini di Sapri, i cospiratori politici; ci entrerà tutta la vita religiosa, privata e pubblica piena di pettegolezzi, di congiure di odii, intricatissima, tumultuaria, tutta la vita di una città piazza forte dove il militarismo e il clericalesimo imperavano sovrani. Che scene!16

Anche questo progetto non vede la luce, tuttavia l’idea, ancora di scuola verista ma con impianto da saga nazionalista, non è da sottovalutare. Infatti, essa non viene del tutto accantonata dal nostro, ma viene anzi recuperata in altra forma, insieme con la documentazione di cui qui il poeta dice di disporre, per la successiva stesura de La fiaccola sotto il moggio. La continuità fra le due esperienze letterarie, che sembrano afferire a due differenti ed eterogenee ispirazioni poetiche, ci consente anche di avanzare una lettura epico- nazionalista della produzione drammatica dannunziana di argomento abruzzese, di cui La figlia di Iorio rappresenta la vetta più alta.17 Fra le due fasi della produzione meridionale

dell’autore, lo vedremo, si staglia la redazione del Trionfo della morte. L’opera funge da anello di congiunzione fra una prima immagine dell’Abruzzo – terra incontaminata da esplorare, natura selvaggia e paradisiaca abitata da un popolo primitivo, bestiale, sensuale e al contempo misero e naturalmente menomato, dal quale prendere le distanze – e una seconda idea, di luogo allegorico, selva di simboli, nella quale trovare corrispondenze, identificazione e perfino elevazione. Tuttavia, per la formulazione della riflessione confluita nel romanzo, bisogna attendere. Essa, come rileva Ivanos Ciani, non è ancora matura nell’’85 quando il poeta conosce Antonio De Nino, etnologo e folklorista dal quale avrebbe tratto le informazioni sugli usi e i costumi tradizionali abruzzesi, poi sfruttate nella redazione del testo.18 L’incontro avviene durante una visita a Scanno, della quale il poeta racconta alla Zucconi: «Vedessi che costumi strani e splendidi portano le donne! Par d’essere in Oriente: l’illusione è perfetta. Turbanti di seta ricamati d’oro e d’argento, grandi grembiuli fiammanti, maniche larghissime, una ricchezza di pieghe meravigliose».19 Qui il quadro che ne è emerge è ancora quello di un Abruzzo orientale, esotico ed alieno: lo stesso presente nella raccolta

16 Per il carteggio tra d’Annunzio ed Enrico Nencioni si veda R. Forcella (a cura di), Lettere ad Enrico Nencioni (1880-1896), «Nuova Antologia», XVII, 1939, pp. 3-30; G. Fatini (a cura di) D’Annunzio e Nencioni (tredici lettere inedite), «Quaderni dannunziani», XVIII-XIX, 1960, pp. 645-704; A. Brettoni (a cura di), Nove lettere inedite di G. D’Annunzio a E. Nencioni (1889-95), «Studi e problemi di critica testuale», 21, 1980, pp. 195- 207.

17 D’Annunzio stesso, in una lettera del 3 settembre 1903 scrive: «Sabato scorso, al tramonto, terminai la ‘‘Figlia di Iorio’’ che mi sembra la più alta opera da me composta fin qui, profonda e semplice. Ho sentito, scrivendola, le mie radici nella terra natale». B. Palmerio, Con D’Annunzio alla Capponcina (1898- 1910), Firenze, Vallecchi, 1938, p. 148.

18 Cfr. G. D’Annunzio, Lettere a Giselda Zucconi, cit. 19 Ivi, p. 179.

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novellistica dell’82, non a caso intitolata Terra vergine, e non a caso dedicata a Giovanni Chiarini, un esploratore abruzzese morto in Africa.20

Nelle successive raccolte – il Libro delle vergini del 1884, San Pantaleone dell’‘86, e I violenti e Gli idolatri del ’92 – l’autore continua a prediligere i temi abruzzesi, sviluppando mano a mano una nuova attenzione e un nuovo approccio al rapporto con il diverso. Dieci anni più tardi, nel 1902, ormai entrato in una nuova fase della sua poetica che vede la terra natale di nuovo al centro della sua ricerca, lo scrittore pubblica le Novelle della Pescara, una selezione dei migliori racconti sull’argomento regionale, per lo più tratti da San Pantaleone.21 I principali temi sviluppati in queste novelle sono quelli della superstizione, dell’idolatria sfociata nel sangue, della sensualità repressa e della violenza del mondo contadino. Una figura ricorrente è quella della vittima sacrificale che catalizza e decomprime l’aggressività collettiva come nel famoso racconto Il martirio di Gialluca, qui rinominato Il cerusico di mare. Altra novella sicuramente degna di nota è La morte del duca D’Ofena, pubblicata per la prima volta nel 1888. Si tratta di una riscrittura di Libertà di Verga ambientata in Abruzzo nel periodo della mietitura, in cui oggetto del “sacrificio rituale” diventa un nobiluomo di Casauria. Allo scoppio della rivolta popolare, la città è presa d’assalto: la folla, descritta come «un gran serpente di molte spire»,22 stringe in una morsa

il castello nobiliare per poi darlo alle fiamme. Don Luigi, abbandonato dai servitori, tenta la fuga e, non potendo sottrarsi ai suoi aguzzini, «raccoglie tutta l’anima in un atto di scherno indescrivibile. Quindi volta le spalle; e dispare per sempre dove più ruggisce il fuoco».23 Una sorte non diversa toccherà alla figlia di Iorio, in un finale enigmatico che può quindi mettersi in relazione con quello della novella. I racconti più maturi denotano un descrittivismo ormai distante dal bozzettismo di Terra vergine, eppure ancora iscritto e anzi più profondamente radicato in una estetica orientalizzante. L’Abruzzo è un mondo altro,

20 A caratterizzare questa produzione sono la già rilevata impronta veristica verghiana e una ferinità che, secondo Paratore, deve piuttosto attribuirsi ad un’ascendenza naturalista francese, che si fa poi matrice di decadentismo. E. Paratore, Conclusioni, in D’Annunzio giovane e il verismo. Atti del I Convegno internazionale di studi dannunziani, Pescara 21-23 settembre 1979, Pescara, CNSD, 1981, pp. 247-253. A notare la diversa valenza della ferinità in Verga e d’Annunzio, dove nel primo rimanda alla nostra natura più profonda e nel secondo a un’umanità primitiva quanto mai lontana da noi è anche L. Bani, Da “Terra vergine” alle “Novelle della Pescara”. Sviluppi tematici nel primo D’Annunzio, in «Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo», voll. LXXVI-LXXVII, a.a. 2012-2013 e 2013-2014, a cura di E. Gennaro e M. Mencaroni Zoppetti, Bergamo, Sestante, 2014, pp. 151-165: 159.

21 Come fa notare Annamaria Andreoli, la ripresa dopo dieci anni delle tematiche abruzzesi, risponde a quell’uso tipicamente dannunziano di piegare i contenuti della sua produzione precedente alle nuove suggestioni della sua ricerca. Cfr. A. Andreoli, Introduzione, in G. D’Annunzio, Tutte le novelle, a cura di A. Andreoli e M. De Marco, Milano, Mondadori, 2006.

22 G. D’Annunzio, Le novelle della Pescara, in Id. Tutte le novelle, cit., p. 240. 23 Ivi, p. 247.

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sospeso fuori dal tempo, che non si presenta come semplice suggestione o polo oppositivo rispetto alla realtà del lettore borghese ma la scuote dalle fondamenta, ne mina la pretesa di autenticità e di validità.24 Per quanto riguarda la lingua, nelle Novelle della Pescara – secondo Moretti – il dialetto abruzzese è utilizzato come strumento di impersonalità. Esso viene in realtà impiegato solo per i dialoghi e spesso è un dialetto ricostruito, mediato. Infatti, il possesso attivo del dialetto da parte del d’Annunzio viene, se non del tutto, in gran parte perso negli anni del Cicognini. Le mediazioni libresche e anche una certa dose di trasfigurazione irrealistica, in effetti, non depongono a favore di una riproduzione fedele e oggettiva dell’oggetto rappresentato. A tal proposito, Moretti, cita i toponimi de Gli idolatri, ripresi da borgate catanesi25 – che testimoniano l’attingere indifferenziato di d’Annunzio ad una generica meridionalità e dialettalità regionale –, ma anche l’«assimilazione riduttiva e primitivistica del folklore» all’interno dei racconti, «sostenuta dal gran numero delle similitudini e, soprattutto, dall’uso ricorrente degli imperfetti, che sopprime – si sa – il riferimento a realtà temporali precise immergendo la narrazione in una indistinta e remota fissità».26 Alcuni di questi aspetti, in realtà, come si vedrà nelle prossime pagine, per d’Annunzio sono parte di un progetto di immedesimazione con la terra natale quale luogo mitico ed ideale. Essi, dunque, non entrano in contraddizione con la ricerca che il poeta compie a livello linguistico. Come ammette anche Moretti, infatti, se quest’ultima negli anni delle prime raccolte rimane piuttosto circoscritta, determinanti sono i ritorni in Abruzzo durante i quali d’Annunzio si «riabbruzzesizza». In generale assistiamo, secondo il critico, ad «una sorta di evoluzione nei rapporti del poeta con l’Abbruzzo, o – se si preferisce – un progressivo ripensamento della materia abruzzese che si coglie non solo sul piano tematico ma su quelli del lessico, della sintassi e dei costrutti dialettali, sempre più aderenti».27 Lo scrittore è evidentemente impegnato nella ricerca di una maniera più autentica, seppur non meramente realistica, di rappresentare l’Abruzzo. D’Annunzio sviluppa un interesse crescente per la sua regione e il suo popolo, che dal descrittivismo impressionista e pittoresco delle prime raccolte si dipana nel simbolismo del Trionfo, delle Laudi e delle opere teatrali.

24 Simona Costa nota come in questi racconti la ricerca di d’Annunzio si incroci con quella pirandelliana, come logica conseguenza di un analogo percorso di fuoriuscita dal naturalismo, nonché – diremmo noi – di fuoriuscita da una comune esperienza d’alterizzazione subita e di deragliamento del margine dal solco nel quale il centro lo ha confinato. La visione obnubilata da un presunto oggettivismo, in realtà portatore di una concezione del mondo settentriocentrica, si libera nel soggettivismo e nel relativismo del punto di vista, nell’io diviso e molteplice, portatore di realtà contrastanti e contraddittorie. Cfr. S. Costa, D’Annunzio, pp. 74-75. 25 V. Moretti, Il dialetto in D’Annunzio, in D’Annunzio e l’Abruzzo, Atti del X convegno di studi dannunziani, Pescara, Centro nazionale di studi dannunziani in Pescara, 1988, pp. 81-90.

26 Ivi, p. 84. 27 Ivi, p. 86.

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I drammi di ambientazione abruzzese, in particolare, sono l’approdo di una ricerca contenutistica ed espressiva che assume la forma del genere letterario fondante per eccellenza: la tragedia. Se nella Figlia di Iorio «la tragedia è nella folla» – scrive Tomaso Monicelli in occasione della prima romana al Teatro Nazionale – nella Fiaccola sotto il moggio è negli uomini ed «è tragedia di stirpe anche se si concentra nel cerchio angusto di una casa […] ed è tragedia del popolo d’Abruzzi».28