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Il canto dell’antico sangue: lingua e stile della canzone popolare

4.4 Così parlò il demone della stirpe: La figlia di Iorio

4.4.2 Il canto dell’antico sangue: lingua e stile della canzone popolare

Ripercorsa a grandi linee la trama dell’opera e anticipati alcuni dei principali temi che la attraversano, torniamo a considerare l’espressione utilizzata dall’autore nella dedica: «canto dell’antico sangue». Si tratta di un’indicazione fondamentale per interpretare alcune delle scelte operate dal d’Annunzio, prima fra tutte quelle formali, e per valutare quindi correttamente l’interpretazione che il poeta intende dare del suo Abruzzo ne La figlia di Iorio. La scelta dei versi già rimanda a un’idea di tragedia ripresa dalla tradizione greca classica, dunque di un genere letterario di impegno civile, che assolve ad un ruolo costitutivo della comunità. Idea che il poeta condivide con Angelo Conti, il quale infatti così si esprime: «per creare il teatro moderno, è necessario conoscere profondamente il teatro antico; […] Gabriele D’Annunzio è il solo poeta della nuova generazione che ha veduto il tesoro che gli elleni ci hanno tramandato con le opere del loro teatro, il solo che ha sentito il dovere e la necessità di parlare alla folla col linguaggio della poesia».91 La filosofia estetica che d’Annunzio condivide con Conti è espressa nei dialoghi presenti nella Beata riva fra Gabriele ed Ariele, riprodotti quasi identici nel Fuoco, in cui i due amici si celano sotto gli pseudonimi di Stelio Effrena e Daniele Glauro. Le due opere, entrambe pubblicate nel 1900, esprimono un’idea dell’arte che affida un ruolo preponderante all’artista come guida e ispiratore di masse. La poesia ha infatti il potere di elevare il suo fruitore dall’inganno della vita quotidiana «abolendo l’errore del tempo»,92 di introdurlo in una dimensione universale che è quella del costante fluire e della necessità del divenire. Per ambo gli intellettuali il teatro, nella sua accezione greco-classica, è la forma più alta dell’arte poetica, quella che garantisce alla «folla» che vi partecipa per tramite del coro, il contatto diretto con la verità, l’accesso al «fiore della vita».93 Ne La figlia di Iorio il coro partecipa attivamente all’azione,

intervenendo nel primo e nel terzo atto, ovvero nelle scene ambientate in pianura: nel primo atto è costituito dalle parenti e dai mietitori, nell’ultimo invece dalle parenti e dalle lamentatrici, che hanno al loro seguito la turba. Il metro utilizzato nella tragedia è vario, il verso favorito per esprimere la pacatezza del mondo pastorale è l’endecasillabo dattilico, mentre, per connotare la violenza del mondo agricolo, la scelta ricade sul verso breve con una certa preferenza per l’ottonario e il novenario melodrammatico. Nel dare indicazioni sulla traduzione francese ad Herelle, d’Annunzio spiega come l’assonanza debba preferirsi alla rima. L’assonanza ha infatti un valore musicale superiore a quello della rima perché

91 A. Conti, Beata riva: trattato dell’oblio, Venezia, Marsilio, 2000, p. 81. 92 Ivi, p. 94.

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inconscio, legato all’oralità e all’udito più che all’identità grafica e alla vista. Con le seguenti parole il poeta chiarisce l’andamento metrico e la funzione del ritmo spezzato nel verso: «I miei novenari, nel testo, ora acquistano un piede ora ne perdono uno: diventano decasillabi e ottonari e l’accento si sposta specialmente nel primo emistichio – di continuo. Nessuna regolarità».94 Siamo di fronte ad un recupero dell’anisosillabismo giullaresco medievale, la metrica dei grandi poemi orali. D’altra parte, in questi stessi anni, il poeta è impegnato con le Laudi e in particolar modo con Alcyone nella riscoperta della prima poesia religiosa e profana in lingua italiana. Anche Gibellini pone l’accento sulla stretta correlazione fra le due opere dannunziane, notando come «la misura ‘poematica’» del Ditirambo IV Il volo di Icaro (una volta ricondotta alla sua vera data: ottobre 1903 e non agosto 1902) esibisca un debito non solo nei confronti della «liberatoria esperienza» della strofa lunga della Laus vitae, ma anche verso lo «sperimentalismo ritmico della Figlia; recuperando, attraverso il maturo tirocinio dell’assonanza, gli accenti di un’epica metacronica»,95 da Ovidio alla Chanson de

Roland.96 La figlia, d’altra parte, come nota sempre il critico, costituisce uno spartiacque

anche per quel che riguarda l’elaborazione di una materia difficile e bruciante, che a nostro avviso affonda le sue radici nella regione natia e nelle Laudi è completamente rifusa con l’eredità ellenica ed elevata a modello universale.97 Proprio l’identificazione con l’Abruzzo,

oltre che la sua eternizzazione intrapresa già nel dramma, gioca dunque un ruolo preponderante nella riscoperta della dimensione poematica che, nel testo della Figlia, sembra collaborare all’emulazione di una voce e di una verità collettive.

94 G. Parenti, La traduzione francese della “Figlia di Iorio”, in E. Tiboni (a cura di), La figlia di Iorio: atti, cit., p. 165.

95 P. Gibellini, Logos e Mythos: studi su Gabriele D’Annunzio, Firenze, L. S. Olschki, 1985, pp. 131-132. 96 Gibellini giustamente nota come il Ditirambo di Icaro riassorba «nell’estrema esperienza alcionia i brividi mitopsicanalitici saggiati nella tragedia abruzzese» (Ivi, p. 131), ma anche in altri passi delle Laudi, sui quali qui non possiamo soffermarci, l’esperienza della Figlia si mostra irrinunciabile. In Maia come in Alcyone è la terra natale, infatti, sebbene non venga mai nominata esplicitamente, ad essere esaltata per la sua capacità di rivelare il superuomo. Nel Ditirambo I la terra di Dioniso sembra coincidere proprio con l’Abruzzo: «Ove gli urli, ove i canti, ove i balli? / Ove la femmina bella /coperta di loppe e di reste96 /come d’ori e di gemme? / […] Ove il tuo nume, o Dionìso, / e il tuo riso e il tuo furore / e il tuo periglio?»(G. D’Annunzio, Laudi del cielo, del mare della terra e degli eroi, in Id., Versi d’amore e di gloria, 2010, vol. II, pp. 443-444). È in questo passo irrevocabilmente enunciata la coincidenza tra «il nume», «il riso, il furore e il periglio» del dio e «gli urli, i canti, i balli» de La figlia di Iorio, Mila di Codro è infatti qui nominata con parole quasi speculari a quelle usate nella tragedia: «In corsa, ansante di fatica e di spavento, coperta di polvere e di pruni, simile alla preda di caccia inseguita dalla muta, una donna col volto tutto nascosto dall’ammantatura entrerà». Nelle Laudi è svelata inoltre la vera essenza di quella cenere sparsa sul capo di Mila: «ori e gemme», la ricchezza che si cela nel male e che il poeta disvela.

97 Bertazzoli parla per la produzione di questi anni di un «contatto violento con le proprie origini […] un parentesi aperta sulla narrazione del mito greco». R. Bertazzoli, L’Abruzzo senza tempo, cit., pp. 33-34.

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Per quanto riguarda la lingua della tragedia, non ci troviamo di fronte ad un idioma esistente, ad una lingua reale: si tratta, come per I Malavoglia, di una lingua creata in laboratorio. D’Annunzio non opta per la lingua media del dramma borghese, né per il semplice dialetto, decide piuttosto di recuperare, o meglio reinventare l’italiano trecentesco. Il repertorio lessicale è desunto da Jacopone, Cavalca, Passavanti, al fine di situare l’evento drammatico nel clima della più antica poesia religiosa italiana. Vi si aggiungono formule dialettali, strutture latine, lessemi del folklore, religiosi, popolari, scritturali. La materia lessicale è quindi ricucita su base sintattica popolare, con frequenti inversioni solo a tratti filologicamente giustificate.98 Nel manoscritto originale è visibile una tensione emendatrice

del poeta che sposta il dettato proprio verso una specializzazione arcaizzante. Dalle correzioni è visibile la tendenza ad una maggiore letterarietà morfologica e lessicale, ad una maggiore espressività, determinazione, arcaicità, anche nella disposizione sintattica, e dialettalità o regionalismo. Dialettalità e arcaismo risultano così le facce quasi inestricabili di un unico «paleolinguaggio».99

Anche dal punto di vista contenutistico, come in parte si è già anticipato, elementi popolari (abruzzesi e non), sono innestati nella tragedia, e fra questi non si distinguono solo tradizioni folkloriche riportate indirettamente ma anche veri e propri componimenti o proverbi, canzoni e preghiere incastonate nel testo. In tale selezione, tuttavia, «d’Annunzio non interroga il popolo direttamente: intermediario fra questo e il poeta è Antonio De Nino il quale ridesta con le narrazioni e i suggerimenti, a volta a volta, il fuoco sacro della terra natia».100 Il De Nino è fonte attiva nell’elaborazione del dramma, ma i suoi testi non sono i soli utilizzati dal poeta. Fra gli altri troviamo Studi nunziali di De Gubernatis, Archivio per lo studio delle tradizioni popolari di Pitré – opere di folkloristi già incontrati tra le fonti di Verga – e la Bibbia Diodati a cui il nostro attinge soprattutto nel secondo atto, come dimostra Milva Cappellini.101 Inoltre, consistente è l’uso che d’Annunzio fa di Tradizioni popolari abruzzesi, opera del conterraneo Gennaro Finamore,102 dalla quale desume i canti popolari

98 R. Bertazzoli, L’Abruzzo senza tempo nella scrittura tragica della “Figlia di Iorio”, in L. Melosi e D. Poli (a cura di), La lingua del teatro fra D’Annunzio e Pirandello: atti del Convegno di studi, Macerata, 19-20 ottobre 2004, Macerata, EUM, 2007, p. 43.

99 Ivi, p. 39. Anche lo stesso appellativo attribuito a Mila di Codra che dà il titolo al dramma sembrerebbe ripetere, come nell’opera verghiana, una genesi onomastica popolare: si tratta di un patronimico, che in tal senso risponde, in accordo col summenzionato lessico, al criterio per cui dialettalità e arcaismo procedono sul medesimo binario.

100 O. Giannangeli, “La figlia di Iorio” e il canto popolare, in E. Tiboni, La figlia di Iorio: atti, cit., p. 121. 101 R. Bertazzoli, L’Abruzzo, cit., p. 41.

102 Cfr. B. Mosca, Un amico abruzzese del d’Annunzio e Michetti, «Il libro italiano», 4 aprile 1939, pp. 203- 216. Alcuni studi che mettono in luce il folklore abruzzese in d’Annunzio sono: G. Crocioni, Problemi

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che traduce dal dialetto. È presente poi una vera e propria lauda francescana, rifacimento di quelle laudi medievali che nel popolo abruzzese sono rimastein uso fino al presente. È la lauda della scena seconda dell’atto terzo: imitazione del pianto della madonna in una lode del Venerdì Santo. Infine, importante fonte è il Tommaseo con il suo Vocabolario, i suoi Canti toscani, corsi, illirici, greci e i suoi Proverbi.103 Questi ultimi, in particolare, diventano talvolta motore dell’azione stessa in quanto indizio di una precisa mentalità. Sono d’esempio i seguenti motti, dai quali deriva parte della trama del dramma: «La lampada degli empi si estinguerà»; «Guarda il comandamento di tuo padre / segui l’insegnamento di tua made. Fissali stretti sul tuo cuore, appendili al tuo collo».104 È come se l’autore tentasse di derivare

dalla documentazione folkloristica la visione del mondo del popolo: non solo di mimarne i modi e i temi ma di comprenderne a fondo la mentalità per riprodurla nel testo, non diversamente da come aveva fatto Verga ne I Malavoglia.

Sempre per quanto riguarda la traduzione francese di Herelle, altri espedienti suggeriti dal d’Annunzio riguardano l’uso dei patronimici e delle inversioni, marchi retorici della poesia orale presenti anche nella versione italiana. Il poeta, inoltre, consiglia al francese di seguire la linearità sintattica della frase italiana traducendo solo i lessemi, di sostituire quindi alla parola italiana quella francese preservando l’ordine della frase nostrano. Sulla base di queste indicazioni, ci sembra lecito ipotizzare che una simile operazione sia stata consapevolmente messa in atto dall’autore nel testo ufficiale e che gli iperbati, poc’anzi genericamente indicati come inversioni dialettali, si spieghino con una studiata ibridazione tra sintassi abruzzese e lessico toscano antico. Si tratta, anche in questo caso, di un procedimento non dissimile da quello che ne I Malavoglia, attraverso il collegamento con il dramma di Synge, abbiamo definito “deterritorializzazione”. Sulla traduzione in francese della Figlia di Iorio, si esprime Giovanni Parenti: «Herelle doveva fare i conti con la forma più subdola del preziosismo, la simulazione della sua assenza. Per incutere quel senso di remota maestà ancestrale che

fondamentali del folklore con due lezioni su il folklore e D’Annunzio, Bologna, Zanichelli, 1928 e T. Rosina, Mezzo secolo della figlia di Iorio, Genova, Principato Stampa, 1955.

103 Le fonti de La figlia sono apertamente dichiarate nel Commentaire allegato alla versione francese dell’opera, che l’autore redige al fine di sottrarsi alle accuse di plagio nei confronti de La lebbrosa (1896) di Henrie Bataille. In questa tragedia, con la quale Bataille si mette sulla scia del folklore bretone, compare la figura dell’angelo muto, ma anche un rapporto d’amore, quello di Evroanik e Aliette, molto simile a quello tra Aligi e Mila. Per di più vari rituali sono sovrapponibili a quelli abruzzesi e, ad una più attenta disamina, risulta documentata la richiesta pervenuta alla Biblioteca Nazionale di Roma dalla villa di Nettuno del volume Barzaz- Breiz. Chants populaires de la Bretagne. Tale testimonianza ci consegna un’immagine dell’Abruzzo filtrata o strettamente connessa con la tradizione bretone, oltre che con quella antico-italiana. Cfr. A. Andreoli, In margine alla ‘Figlia di Iorio’, «La Modernità letteraria», 2, 2009, pp. 43-84: 53-59; S. Costa, D’Annunzio, cit., pp. 167-168.

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sembra ricondursi alle origini omeriche della letteratura occidentale, anteriore ad ogni specializzazione sociale degli stili, per cui in Omero il pastore di genti non si distingue stilisticamente dal pastore di greggi».105 Herelle fallisce il suo compito e il poeta si dice deluso dal venir meno di tutto il ritmo del testo. Il severo giudizio testimonia la grande importanza attribuita alla forma del dramma: il dettato, da Parenti paragonato alla poesia omerica, sarebbe infatti dovuto risultare come il frutto di una composizione orale, di un’espressione naturale, per quanto non quotidiana, ma simulatamente spontanea e originale del linguaggio popolare. In questo senso, anche se la composizione linguistica realizzata da d’Annunzio e quella realizzata da Verga appaiono lontanissime nei risultati, non lo sono nel metodo e neppure negli intenti. Entrambi infatti cercano di permettere all’identità meridionale di parlare e di non essere parlata, di esprimersi nei contenuti e nella forma che le sono propri e che, allo stesso tempo, in modo più o meno evidente, sono in grado di minare e contestare l’autorità culturale del centro. La lingua appare dunque come uno degli aspetti emergenti della scrittura identitaria del margine, insieme alle scelte metriche coerenti con le composizioni di origine popolare, al recupero della tradizione classica nei suoi elementi corali ed epico-civili e, da ultimo ma di massimo rilievo, come si vedrà nel prossimo paragrafo, all’impiego del materiale folkloristico come matrice di narrazione.

Ma lasciamo che siano le parole dell’autore a confermare le ipotesi avanzate attraverso la ricostruzione della sua coerente e complessa ricerca formale. Il 31 agosto 1903 Michetti è il primo a ricevere la voce di giubilio del poeta per l’opera compiuta. A lui d’Annunzio scrive: «Le canzoni del popolo e del contado mi hanno dato i modi e gli accenti. Il verso è intero, senza spezzamenti, semplice e dritto; entra nell’anima e vi resta. E qualcosa di omerico – senza che io l’abbia voluto – si diffonde su certe scene di dolore. Il pianto di un pecoraio ricorda la lamentazione di Priamo».106 E ancora il 3 settembre in un’epistola al Pascoli: «La mia tragedia pastorale è terminata. Immagina una grande canzone popolare in forma drammatica. L’argomento è abruzzese. E questa volta ho sentito salire la poesia dalle radici profonde. Mi consenti di dedicartela in testimonianza d’amore?».107 Si profila immediato e centrale il collegamento con la canzone di popolo e con i poemi omerici. Molti anni più tardi, nel Libro segreto, spiega la chiave di lettura dell’opera:

La canzone popolare è quasi una rivelazione musicale del mondo, in ogni canzone popolare (vera, terrestra, nata di popolo) è un’immagine di sogno che interpreta l’apparenza. La melodia primordiale

105 G. Parenti, La traduzione francese, cit., p. 167.

106 Cfr. O. Giannangeli, “La figlia di Iorio” e il canto popolare, cit., pp. 119-120. 107 Ibidem.

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che si manifesta nelle canzoni popolari ed è modulata in diversi modi dall’istinto del popolo mi sembra la più profonda parola sull’Essenza del mondo. Ora l’alto valore del dramma La figlia di Iorio, consiste nel suo disegno melodico, nell’esser cantato come una schietta canzone popolare, nel contenere la rappresentazione musicale di un’antica gente. Il mio sforzo (in verità maldico “sforzo” che io composi l’intera tragedia pastorale in diciotto giorni, tra cielo e mare, quasi obbedendo al demone della stirpe che ripeteva in me i suoi canti) la mia obbedienza consisteva nel seguire la musica col sentimento d’inventarla.108

C’è in queste parole quasi la pretesa che l’opera sia il prodotto di una sapienza collettiva, che gli sia stata dettata da una forza inconscia, della quale egli si sia fatto semplice portavoce, intermediario di una coscienza popolare o di un genius loci, di «un demone della stirpe», appunto. Di tutt’altro segno le dichiarazioni rilasciate anni prima, nel 1914, in un’intervista a Jarro. Qui, parlando a posteriori della lingua della Figlia di Iorio, il poeta sembra ammetterne la genesi artificiosa:

Questa mia frequenza con i nostri classici, l’abito dell’antico parlare, la dovizia di parole acquistata, divennero per me una connaturata facoltà […] e lo stesso dico per la figlia di Jorio, tutta in linguaggio popolare del ‘300: e ove sono canzoni che i folkloristi credettero essere genuini canti popolari, pe’ loro ritornelli, il loro atteggiamento, tutto il loro andamento di espressione. […]. Così un uomo di studio (noi aggiungiamo di genio) può fare, in poche ore, per una facoltà sapientemente nutricata, e balzata fuori d’improvviso, quel che il popolo fa, in virtù della istintiva espressione del suo sentimento, per secoli.109

In queste affermazioni riconosciamo l’adozione consapevole da parte dell’autore di tecniche e forme della composizione di origine orale, al tempo ancora non decodificate da Parry e Lord, eppure intuite dal genio del poeta come segnali di un modo di creare proprio del popolo. D’Annunzio con La figlia di Iorio si propone di realizzare una credibile e verosimile opera letteraria popolare. Vi riesce, secondo Ottaviano Giannangeli, partendo dal ricordo personale e riempiendolo con le fonti antropologiche.110 Il critico prende a prestito il pensiero di Bela Bartòk per meglio far comprendere l’operazione messa in atto nel dramma pastorale. Bartòk, ne L’influenza della musica contadina sulla musica colta moderna, profila tre possibili strade percorribili dal poeta colto: usare la musica contadina senza apportarvi modifica, aggiungendovi solo una melodia, incastonarla tra preludio e postludio; non utilizzarla testualmente ma inventarne un rifacimento; non rielaborare delle melodie ma dare alla propria musica la stessa atmosfera della musica popolare. Secondo Giannangeli, se nelle novelle e nel Trionfo della morte ci troviamo di fronte ai primi due casi, nella Figlia di Iorio d’Annunzio segue la terza via. Tali argomenti sembrano coincidere con quanto da noi

108 G. D’Annunzio, Libro segreto, in Id., Prose di ricerca, II, cit., pp. 1758-1759.

109 N. Merola, D’Annunzio e la poesia di massa: guida storica e critica, Bari, Laterza, 1979. 110 O. Giannangeli, “La figlia di Iorio” e il canto popolare, cit., p. 121.

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ipotizzato: lo scrittore dapprima saggia la cultura abruzzese dall’esterno, la esplora da estraneo e occasionale “vacanziero”, ne fa argomento dei suoi racconti in prosa a in versi. Poi comincia a comprenderne la ricchezza, il potere del canto popolare, la sua influenza sull’inconscio della folla, la sua capacità di trasfigurare la realtà in simboli e prova quindi a trasferire quel potere sulla sua arte, conservando però un punto di vista esterno. Infine, ribalta la prospettiva, decide di identificarsi col popolo abruzzese, di interpretarne la verità profonda e di esprimersi con la sua voce.