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Da estraneo a fratello purificato: Laude dell’illaudato

Prima di addentrarci nell’analisi dell’esempio più fulgido di questa nuova fase artistica dannunziana, soffermiamoci a comprendere come l’autore vi giunga attraverso la lettura di un documento che è insieme manifesto politico e programma poetico del nostro. Si tratta della prolusione pronunciata da d’Annunzio il 22 agosto 1897, in occasione delle elezioni suppletive per il collegio di Ortona a Mare, passata alla storia come Discorso della siepe e il cui titolo originale è Laude dell’illaudato.59 Qui l’autore mira, in primo luogo, a sostenere la propria candidatura a deputato parlamentare, esprimendo una posizione conservatrice ben

58 Ivi, p. 924-925.

59 Il discorso viene pubblicato su «La Tribuna» il 23 agosto ed è ampiamente commentato sui giornali nazionali da diversi intellettuali fra cui Giovanni Pascoli. L’interesse primario del poeta, tuttavia, non era quello politico, ma quello di promuovere la sua arte e in special modo la sua arte drammatica. Cfr. L. Re, Italians and the Invention of Race, cit., p. 16. Per un approfondimento del tema del confine in questo discorso vedi anche M. Moroni, 1897, scrivere i confini: la retorica della siepe in D’Annunzio e Pascoli, in Id., Al limite. L’idea di margine nel Novecento italiano, Firenze, Le Monnier, 2007, pp. 71-85.

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lontana dalle idee giovanili, che ha il suo fulcro in una vigorosa difesa della proprietà privata in contrapposizione al collettivismo socialista. La siepe, come elemento di confine teso a delimitare e a proteggere il campo coltivato dal fiero agricoltore, è esaltata da d’Annunzio come valore autoctono, tratto direttamente dalla saggezza della sua gente. Egli infatti si presenta come il semplice portavoce, o meglio come l’interprete «più lucido»60 di un sentire comune radicato nella stessa mentalità abruzzese, e non unicamente per quel che riguarda il credo politico. Egli cerca di riscattare la propria immagine: essendosi allontanato dal paese molto giovane, sente di apparire agli occhi dei suoi concittadini come un estraneo, che si esprime con un linguaggio «ignoto» e incomprensibile, simile a quello di «uno straniero sopraggiunto da una contrada incognita».61 Ma – dice loro – «accogliete la mia parola serena, o cittadini, o consanguinei. La verità che si esprime per le mie labbra è già inscritta nelle radici della vostra sostanza primordiale».62 Con queste affermazioni di stampo politico

l’autore ci dà al contempo un importante indizio per comprendere quale direzione stia prendendo la sua ricerca poetica. Nel noto connubio tra arte e vita che caratterizza tutta la parabola di d’Annunzio, anche la riscoperta dell’Abruzzo e la rappresentanza/rappresentazione della sua gente, secondo l’ambiguità polisemica del termine ‘rappresentare’ (in inglese ‘to represent’) evidenziata acutamente da Spivak63 e in questo caso particolarmente calzante, giocano infatti una parte di rilievo. A livello politico, la rappresentanza non è certo quella dei subalterni, ma dei proprietari terrieri, piccoli o grandi, che si riconoscono populisticamente nei valori della terra. Tale posizione, nondimeno, presuppone un’identificazione con il margine che è anche contrapposizione all’universo culturale del centro. L’innalzamento identitario che attraversa tutta l’orazione, infatti, non è di tipo nazionale, ma locale. Lo scrittore si profonde in dichiarazioni “regionaliste” e loda quel popolo che fino ad oggi è rimasto «illaudato». Auspica che si diradi l’ombra che ha a lungo oscurato l’Abruzzo e perciò, in una sorta di necessario recupero del rimosso, ripercorre alcune tappe fondamentali della storia della sua regione, che l’hanno spesso vista porsi in contrasto con il potere centrale. Facendo leva sui valori del sangue e dell’appartenenza territoriale, parla di «prova d’indipendenza»,64 di «carattere dominante»,65

60 G. D’Annunzio, Il libro ascetico della giovane Italia, in Id., Prose di ricerca, Vol. I, Milano, Mondadori, 2005, pp. 429-440: 439.

61 Ivi, p. 431. 62 Ivi, p. 433.

63 G. Spivak, Can the Subaltern Speak? in C. Nelson, L. Grossberg, Marxism and the Interpretation of Culture, Basingstoke, MacMillan, 1988, pp. 271-313: 274.

64 G. D’Annunzio, Il libro ascetico della giovane Italia, cit., p. 434. 65 Ibidem.

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di rifiuto dell’«impronta di Roma»,66 di «genio regionale» da mantenere «integro» contro il

«tentativo ambiguo di pochi sovvertitori»;67 nomina i confini naturali che delimitano la regione e l’autorità in cui si è sempre riconosciuta e in cui ha trovato il suo punto di riferimento alternativo allo Stato: la Chiesa abruzzese. Quest’ultima è stata per lungo tempo «custode vigilante» del «patrimonio ideale»,68 testimone della «nobiltà»69 e luogo privilegiato del «sentimento della potenza» regionale.70 Su tali virtù, preservate integre fino al presente dalla sua gente (e più in generale dalla gente del Sud), d’Annunzio ritiene debba fondarsi la rinascita nazionale. Non a caso, solo un anno prima dell’orazione, vede le stampe Le vergini delle rocce, l’unico romanzo completato della trilogia del giglio: fiore, quest’ultimo, simbolo della purificazione, ma anche stemma della dinastia borbonica. Qui l’autore immagina, dall’unione di un nobile superuomo meridionale vissuto a lungo nella capitale e di una discendente dell’aristocratica casata Capece-Montaga di Trigento (località fantasiosa del Mezzogiorno), nostalgica e devota sostenitrice del Regno duosiciliano, il concepimento di un erede eletto destinato a riformare i costumi degenerati dell’Italia parlamentare e a divenire il nuovo re di Roma. In una progressiva identificazione con il margine, che si fa anche rappresentanza della sua voce e della sua personalità obliterate, la poesia assume un ruolo di primo piano. Essa è in grado di illuminare l’essenza profonda, la nobiltà oscurata e la verità ancora inconsapevole della realtà che rappresenta. Nell’orazione, infatti, il poeta si propone come colui che può ricondurre l’agricoltore nella sua casa, e non in quella che ha lasciato quando si è recato nei campi per il lavoro, ma in una casa nuova, trasfigurata e sacralizzata dall’arte. «Se la parola scritta – afferma – potesse per un prodigio assumere le qualità sensibili delle cose ch’ella manifesta in simboli ideali, l’agricoltore attonito crederebbe di reggere nelle sue palme il peso del suo mondo georgico a similitudine di quel globo che l’artefice poneva nella destra dell’imperatore effigiato».71 La poesia, dunque, è in grado di restituire l’identità dell’Abruzzo nelle mani dell’abruzzese, di renderlo consapevole di sé e di farlo finalmente padrone e imperatore della sua terra. Perciò essa gli è necessaria come l’«acqua» e il «pane»,come d’altra parte la gente e la terra d’Abruzzo sono necessarie allo scrittore e alla sua poesia. Egli afferma infatti:

66 Ibidem. 67 Ibidem. 68 Ibidem. 69 Ivi, p. 435. 70 Ibidem. 71 Ivi, p. 430.

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Sembra che soltanto la virtù di quest’aria natale possa rendere fecondo il mio spirito e che io non debba ritrovar la mia forza creatrice se non nel riudire il ritmo che regola la vita oscura della mia contrada. Essendomi immerso nello smisurato flutto d’idee, d’imagini, di aspirazioni, di divinazioni, di trasfigurazioni, di perversioni, che ferve presso al termine del secolo come l’impeto della piena alla foce di un gran fiume, tuttavia sembra che io non possa manifestar me stesso per mezzo dell’arte se non associando alle flave spighe, ai pomi vermigli, allo sguardo pacifico dei buoi, all’odore dell’uliva premuta, al ferro dell’aratro, al bombo delle api, alla curva dei lidi le mie passioni.72 Riemerso dalle più «perigliose» correnti della “fiumana del progresso”, il poeta comprende che il suo estro più autentico palpita solo a contatto con l’«oscura» contrada in cui è nato, che continua ad essere invariabilmente idealizzata e dipinta come pittoresca. Di più, che la sua stessa ispirazione e la materia del suo poetare gli derivano dal popolo abruzzese, la cui verità egli si limita a riecheggiare, traducendo in versi ciò che il genio della sua stirpe gli detta.

La mia parola non è solitaria: è l’eco di un coro che voi non udite e che pure si compone di vostre intime voci. Avete dinanzi a voi, rivelata, la vostra essenza. Voi credete che io trasformi tutto in mia poesia, mentre non altro io fo se non obbedire al genio cui voi medesimi siete soggetti. Voi mi giudicate dissimile, mentre io vi somiglio come un fratello purificato. Accoglietemi dunque. Io vi dico che voi mi avete atteso. Che importa l’oltraggio che taluno di voi mi getta perché non ancóra può riconoscermi? Che importa l’odio che riluce nelle pupille di taluno? Un giorno – forse oggi, forse prima del tramonto – io entrerò nella casa di colui, ed egli si leverà sorridendo per venire incontro alla mia dolcezza. Io accenderò la sua lampada. Egli si ricorderà di me fanciullo. Io gli dirò la parola ch’egli non saprebbe proferire.73

Il poeta non è più un visitatore occasionale della propria terra, che cerca una rigenerazione impossibile attraversando le esperienze estreme che essa può offrirgli. Non si limita ad ammirarne o a emularne dall’esterno l’indole, la vitalità, le tradizioni, percepite come estranee e misteriose. Egli si identifica e si riconosce nella gente d’Abruzzo e può perciò esprimerne la verità profonda di cui è in prima persona partecipe. La sua voce è la voce del popolo, nei suoi versi ne risuona il canto nobile ed immortale. Non più la contrada natia è intesa come margine, ma la capitale è scorta di lontano come altrove caotico ed alieno dal quale fare al più presto ritorno. Reduce dalla sua “fuga metropolitana”, il poeta è dapprima respinto dai concittadini come un estraneo, ma poi è riconosciuto e accolto quale «fratello purificato». Infatti, come già il suo alter-ego ne Le vergini delle rocce, dopo l’esperienza della lontananza, egli torna alla sua contrada per recarle speranza, per liberarla dall’oblio della sua nobiltà, per proclamarla di nuovo sovrana. Come afferma nell’orazione, un giorno assai vicino egli accenderà «la lampada» dell’incredulo, proferirà il verbo e si manifesterà a tutti quale novello Cristo, l’atteso salvatore: attraverso la sua arte il poeta-profeta consegnerà

72 Ivi, p. 429. 73 Ivi, p. 439.

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al suo popolo la verità, quella stessa verità che dal popolo ha tratto e che prima della sua venuta era avvolta nella tenebra.