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Musica ed emozion

3.4 Casi limite

Ci sono modi di organizzare strutture complesse, formate da molte note, che non sembrano apprendibili in maniera intuitiva. È questo il caso della cosiddetta

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musica dodecafonica – una tecnica compositiva esplorata da Arnold Schönberg e ripresa da numerosi compositori del Novecento. La musica dodecafonica può essere molto difficile da capire. Anche compositori che usano questa tecnica ammettono spesso di non riuscire a sentire intuitivamente l’articolazione in dodici note. E non soltanto una questione di insufficiente pratica: dalla mia esperienza in proposito, posso attestare che i bambini che crescono sentendo frequentemente questa musica, eseguita fra le pareti domestiche, non mostrano una maggior facilità d’ascolto rispetto a quanto ci si può aspettare da un pubblico generico. In breve, non ogni tipo di struttura musicale è accessibile a un apprendimento intuitivo (Jackendoff, 1998).

Con queste parole, Jackendoff – nonostante l’esiguità di ricerca scientifica a riguardo – ha sollevato un’importante questione relativa alle grammatiche musicali: in sostanza, ha rilevato nel corso del suo lavoro, che diversamente dagli altri stilemi, certi linguaggi sonori atonali, la dodecafonia nella fattispecie, non vengano appresi spontaneamente nemmeno dai bambini e dalle bambine che, nel periodo critico, ossia quando dovrebbero essere particolarmente propensi alla frequentazione e alla ricezione di regole grammaticali, sono esposti a tali componimenti.

Innanzitutto, occorre fare un po’ di chiarezza. A cavallo fra il XIX ed il XX secolo, il panorama musicale occidentale è stato radicalmente mutato dal genio di compositori come Richard Wagner97 e Claude Debussy98, i quali hanno, inoltre, influenzato una notevole schiera di musicisti loro contemporanei. Wagner e, ancor più, Debussy sono gli autori di un profondo ripensamento della musica che, per circa seicento anni99, si era basata sul concetto di fondamentale e relative armoniche, ossia sulla classica idea di scale temperate, cioè costrutti che prevedono la suddivisione delle ottave in intervalli fra loro equivalenti. I due artisti in questione,

97 Pioniere della cosiddetta triade eccedente (Schönberg, Trattato di armonia, 2014), un particolare tipo di accordo.

98 Debussy, infatti, ha riportato in auge la scala per toni interi, usata talvolta da Franz Liszt (Schönberg, Trattato di armonia, 2014).

99 Ancora nel Basso Medioevo, i canoni enarmonici risalenti all’Antica Grecia erano in auge, tant’è che la maggior parte dei teorici dell’epoca facevano puntualmente riferimento ai più noti teorici musicali ellenici, alessandrini e cristiani; in altre parole, la musica microtonale veniva usata frequentemente. Con i primi tentativi di polifonia, succeduti alla rinascita musicale carolingia e all’armonia celeste, progressivamente la microtonalità fu accantonata e divenne obsoleta intorno al XV secolo (Fubini, L'estetica musicale dall'antichità al settecento, 2002). Ciò significa che dal Rinascimento, indicativamente, fino al XX secolo, non si sono verificate particolari evoluzioni di sintassi musicale.

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de facto, hanno energicamente rielaborato la sintassi musicale secondo una logica cromatica, una tonalità estesa, per dirla con Schönberg, che ha messo in crisi la nozione stessa di fondamentale come centro armonico di un componimento. Il cromatismo, dunque, è divenuto un metodo di espressione extramusicale – ovvero di stati d’animo e di immagini quasi impressionistiche – tant’è che Debussy era solito riportare il titolo dei suoi brani infondo allo spartito, quando non decideva di evitare di indicarlo del tutto. Vissuto nel mezzo di una simile rivoluzione culturale, Arnold Schönberg, compositore austriaco, nonché docente della Accademia delle Arti di Berlino, nel primo decennio del XX secolo, decise di mettere a sistema questa tonalità estesa, oramai largamente accettata e diffusa, nondimeno priva di regole esatte, ideando, appunto, la dodecafonia. Nel saggio Composizione con dodici note, in effetti, Schönberg ha sostenuto di aver concepito tale metodo per ragioni di comprensibilità: letteralmente al fine di emancipare la dissonanza (Schönberg, Stile e idea, 2012). In sostanza, la dodecafonia è propriamente un metodo di composizione con dodici differenti note poste in relazione soltanto l’una con l’altra, le quali vengano disposte secondo una progressione alternativa rispetto a quella canonica della scala cromatica. Schönberg ha redatto imponenti dissertazioni attorno alla sua visione della dis-armonia, enunciando una notevole serie di regole atte a non cadere nella sintassi tonale classica. Exempli gratia, il musicista austriaco ha più volte ribadito la necessità di strutturare un’opera permanendo in un unico intervallo d’ottava onde evitare che raddoppi di frequenza possano essere interpretati dal fruitore alla stregua di accenti100, dunque parimenti a fondamentali o toniche, rimandando conseguentemente ad una dimensione di retroguardia. In aggiunta, Schönberg ha assiduamente tentato di precludere ogni possibilità di esemplificazione delle proprie composizioni, architettando trame sonore imprevedibili, talvolta speculari, talvolta invertite, talvolta esasperatamente contrappuntistiche. In sostanza, la dodecafonia potrebbe essere reputata la perfetta sospensione del canone classico, indi il totale distaccamento dalle regole grammaticali secolari, a prescindere dagli enti extramusicali che essa possa comunicare. Diviene evidente, allora, la ragione per cui la dodecafonia non sia facilmente comprensibile per i fruitori adulti: corrispondendo essa ad un metodo di produzione musicale che opera un allontanamento risoluto da

100 Come indicato nel primo capitolo, l’aumento di altezza tonale viene, via via, percepito dall’orecchio umano come incremento di intensità: ciò viene ben schematizzato dalla curva di Fletcher-Munson.

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tutte le grammatiche preesistenti, essa non è partecipe di alcun punto di riferimento a cui il cervello, basandosi sulle frequentazioni precedenti, possa appigliarsi per principiare una decodifica estetica. Ne consegue che per il cervello sia molto più conveniente, in termini di efficienza, apprendere mnemonicamente la composizione dodecafonica singola, piuttosto che tentare di decodificarne le regole grammaticali giacché, è insito nel concetto stesso di dodecafonia il distacco da esemplificazioni o ricorsività di sorta – e, infondo, l’acquisizione della grammatica in partenza si comporta sempre così. In altri termini, per ogni brano dodecafonico esistono sostanzialmente regole grammaticali che possono adattarsi a quel brano soltanto e che dunque non riescono a decodificare altri brani realizzati seguendo il medesimo metodo. Un gran numero di esempi sonori che rispettino le stesse forme di sintassi generano grammatiche che si adattano, più o meno, ad ogni altro ente che sia partecipe di quelle particolari regole, tuttavia enti partecipi di regole altamente specifiche – quali le produzioni dodecafoniche – originano grammatiche solo per la comprensione di sé, ergo grammatiche che non possano essere – o possano essere soltanto scarsamente – punto di riferimento per altri costrutti eretti sulla stessa corrente artistica. Gli studi di Lerdahl hanno rilevato che, tendenzialmente, la dodecafonia – e la musica atonale in genere – attiva meno aree del cervello, durante l’ascolto rispetto alla musica tonale (Lerdahl, Spatial and psychoacoustic factors in atonal prolongation, 1999) e, perciò, è giunto alla conclusione che essa sia cognitivamente più semplice. Questo fenomeno, nondimeno, è facilmente paragonabile all’ascolto di una conversazione nella propria lingua natale oppure in una lingua sconosciuta: certamente, si attivano più aree del cervello durante l’ascolto della conversazione nel linguaggio conosciuto giacché sono coinvolte sia le aree preposte ai processi uditivi, sia le aree preposte al linguaggio, nondimeno ciò non implica che l’altra lingua, quella sconosciuta, possa essere ritenuta più elementare di quella conosciuta.

Nel 2009, Bobby McFerrin, cantante jazz e reggae statunitense, durante il World Science Festival ha compiuto una performance coinvolgendo il pubblico – la quale ho avuto modo di replicare io stesso nel 2017, ottenendo gli stessi risultati dell’originale – dal titolo Watch me play the audience: the power of pentatonic scale. Questa esperienza è indicativa proprio delle grammatiche in questione, infatti alla scala pentatonica, grazie al suo larghissimo uso nella musica classica e leggera, le

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persone sono esposte quasi quotidianamente. McFerrin, in pratica, ha incominciato a saltare sulle assi di legno del palcoscenico, riproducendo con la voce una specifica nota, come se ogni doga rappresentasse un tasto del pianoforte. Successivamente, il musicista ha fatto cenno al pubblico di cantare insieme a lui e, spostandosi qua e là, ha iniziato ad eseguire le prime note di una scala pentatonica maggiore – in particolare, fondamentale e tono successivo – accompagnato dal coro dei partecipanti. McFerrin ha continuato così per qualche istante, componendo semplici melodie e indicando vocalmente a quale nota corrispondesse la porzione di palcoscenico sulla quale fosse atterrato. Improvvisamente, il cantante si è spostato sopra una doga, posta alla destra del pubblico – cioè verso altezze più acute, perpetuando il paragone con la tastiera del pianoforte – a cui non aveva associato alcun suono specifico; del tutto naturalmente, le persone hanno collegato – evidentemente, all’unanimità – a quell’area, la nota successiva della pentatonica maggiore, stupendosi, peraltro, della spontaneità di quel particolare atto. Tutto ciò è accaduto proprio perché fin da piccoli, quegli individui hanno ricevuto un condizionamento musicale che, in larga misura, ha offerto varie alternative di quella medesima scala, le cui modulazioni tonali – quantunque cambino le altezze e le scansioni ritmiche – sono partecipi di una regolarità ricorrente, permettendo che si costituisca una grammatica che determini la capacità di prevedere – di sentire – quali intervalli siano coerenti col contesto sonoro, nonché quali non lo siano. Al contrario, logiche sintattiche che prevedano qualunque forma di coerenza eccetto che la ripetizione e l’esemplificazione, senz’altro impediscono una estensione della grammatica a più oggetti. Questo determina che la corrente dodecafonica non rappresenti un deterrente per la teoria delle grammatiche, bensì un’ulteriore prova della sua cogenza. Dicendo ad una persona mediamente istruita, la quale condivida con me il retaggio culturale e tradizionale, le parole «Cantami o Diva…», è ragionevole suppore che questa replicherà senza pensarci molto «…del Pelide Achille l’ira funesta» poiché, plausibilmente, per numerosi motivi – a partire dagli studi scolastici dell’epica, fino agli esempi dei font digitali – avrà recepito questa particolare frase, quantomeno alla stregua di un proverbio. Questo costrutto ben noto – si potrebbe quasi considerare folcloristico – è analogo alla pentatonica, benché il primo sia espresso semanticamente e il secondo musicalmente: ambedue i casi, comunque, sono esempi di formule espressive comuni, cioè soventemente

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frequentate e presenti in svariate situazioni. Differentemente, qualora dicessi alla medesima persona «Diva o del, funesta Pelide…», non sarebbe possibile prevedere quale tipo di risposta potrei ricevere – o meglio, facilmente sarei considerato afasico – poiché avrei messo in atto una forma di comunicazione sconosciuta all’interlocutore, quantunque partecipe di aspetti noti: perseverando nella ripetizione di frasi simili, sempre identiche, come l’ascolto dello stesso brano a lungo, l’interlocutore apprenderebbe mnemonicamente la sequenza dei vocaboli, nondimeno non potrebbe applicare tale grammatica ad altri discorsi scientemente concepiti per non essere partecipi di fattori di prevedibilità. La dodecafonia – la quale, ben inteso, esteticamente apprezzo enormemente – è proprio così: simile alla perfetta pronuncia di parole evocative, deprivate di regole conosciute che ne consentano la decodifica. Purtroppo, son davvero esigui i contesti in cui i bambini e le bambine fin dalla nascita vengano esposti alla composizione con dodici note, così come sono davvero esigue le opere composte seguendo questo metodo – che, peraltro, prevede un enorme quantitativo di combinazioni sonore possibili in prospettiva matematica – rispetto al numero di lavori fondati sulla concezione canonica. In altre parole, grazie ad un notevolmente superiore periodo di esposizione alla dodecafonia e ad un notevolmente superiore ventaglio di opere strutturate su questo metodo – in relazione alle possibili combinazioni tonali – diverrebbe possibile apprendere grammatiche musicali dodecafoniche estendibili ad oggetti estetici affini, poiché ad un certo punto, ogni mescolanza sintattica sarebbe stata frequentata e assimilata grammaticalmente. Pertanto, i componimenti dodecafonici possono essere causa di fatto estetico, a seguito di una debita – e paziente – frequentazione. L’osservazione di Jackendoff, pertanto, parrebbe pienamente corretta sebbene, de facto, non rappresenti una falla nella teoria delle grammatiche musicali.

Una serie di accordi può essere priva di funzioni, cioè non esprimere univocamente una tonalità e non esigere una determinata continuazione (Schönberg, Funzioni strutturali dell'armonia, 2009).

Ulteriori stilemi musicali indubitabilmente meno regolamentati della dodecafonia, possono richiedere mediamente frequentazioni più corte o più lunghe

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di quest’ultima. Le avanguardie, ad esempio, come la futuristica Serenata per un satellite del compositore italiano Bruno Maderna è un oppure la raccolta Suspended Animation del supergruppo statunitense Fantômas, per quanto ostiche all’ascolto, non prevedono divieti di esemplificazione o di prevedibilità, in linea di massima, perciò è possibile che siano partecipi di alcuni sintagmi che le grammatiche preesistenti possano carpire, velocizzando il processo di frequentazione. Altre correnti, come il rumorismo o la musique concrète, invece, sono talmente lontani dalle regole da poter essere considerati, più che espressioni musicali, vero e proprio baccano. In questo caso, dunque, la costituzione della grammatica sarà un processo ancora più lento e complesso, ancora meno estendibile ad altri componimenti simili, ma certamente non impossibile. Infatti, anche questi particolari enti possono essere sorgenti di fatto estetico, a patto che il fruitore sia disposto a cimentarsi in un tortuoso processo di esposizione a tali concezioni autoriali.

Anche il jazz, per certi aspetti, può rientrare fra i casi limite, siccome è stato, nel corso del tempo, declinato in moltissimi stili divergenti. Un esempio fra tutti potrebbe essere il free jazz, movimento musicale nato a metà del Novecento in relazione alle proteste per i diritti civili negli Stati Uniti, che prevede la libera improvvisazione – slegata dal contesto – di tutti i musicisti (Roncaglia, 1979): in sostanza, nel free jazz ognuno può suonare ciò che vuole, ignorando gli altri101. In questa circostanza, le problematiche relative frequentazione sono plurime. La prima problematica riguarda l’improvvisazione – connaturata nell’idea stessa di jazz – poiché essa, in quanto tale, può variare ad ogni performance, eccetto che non si tratti dell’incisione di una improvvisazione, dunque occorreranno maggiori sforzi ed appigli sintattici per l’acquisizione della grammatica. In secondo luogo, la sovrapposizione – quasi cacofonica – di tante linee strumentali differenti, caratterizzate da scansioni ritmiche dissimili e, addirittura, da tonalità dissimili, quantunque singolarmente siano esse partecipi di regole grammaticali comprensibili per l’ascoltatore, chiaramente tenderà a contrastare una lineare decodifica. Infine, data la notevole durata dei brani jazz, dal momento che l’improvvisazione implica tacitamente una condizione di appagamento dell’esecutore – non a caso, sottolinea Jankélévitch, si dice pure suonare a piacere

101 Effettivamente questa può essere ritenuta un’estremizzazione dello stile: non di rado, difatti, vengono inseriti nella performance taluni obbligati che riconducano tutte le linee strumentali ad un unico fulcro, nondimeno non esiste alcuna regolamentazione precisa: non a caso, si tratta di jazz libero.

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(Jankélévitch, Dell'improvvisazione, 2014) –, potrebbe verificarsi una condizione di progressiva perdita di interesse da parte dell’ascoltatore – confuso da una rapsodia di note e timbriche –, la quale inficerebbe il conseguimento della grammatica. Certamente, anche in questo caso le difficoltà di apprendimento possono essere superate da un’assidua frequentazione di quante più jam session, di quanti più autori, di quanti più dischi, di quanti più concerti, di quanti più libri possibili e così via, fintantoché pure la percezione intuitiva dell’andamento musicale dei brani più capricciosi sarà raggiunta.

L’album Birth of the Cool del virtuoso musicista statunitense Miles Davis, il quale ha segnato la nascita del cosiddetto cool jazz102, è frutto di una sapiente commistione di influenze fra cui, talvolta, si può percepire anche del free jazz – influenza probabilmente pervenuta dallo storico collaboratore di Davis, il sassofonista statunitense John William Coltrane, benché non abbia partecipato all’incisione della raccolta in questione. In particolare, il brano Boplicity – dal palese riferimento al bebop103, corrente musicale dalla quale Davis intendeva separarsi per mezzo di questo suo lavoro – benché possa apparire ricorsivo e piacevole, è partecipe di una ampia serie di cambiamenti tonali che, in effetti, lo rendono piuttosto singolare. Per quanto io personalmente apprezzi quel brano, pur pensandoci intensamente, non riesco a ricordare le parti soliste dei vari ottoni, eppure, appena odo le prime note dell’introduzione – che invece rammento molto bene – ecco che riesco a prevedere ogni variazione solistica, ogni brio e ogni guizzo degli esecutori, in maniera del tutto spontanea: proprio allora, riesco a godermi pienamente la bellezza di quel brano. Ciò mi succede nei confronti di tantissime altre composizioni – nonostante il fatto che alcune, invece, le ricordi perfettamente dall’inizio alla fine. Credo che ad agire siano le grammatiche musicali apprese, che si innescano e consentono il fatto estetico.

102 Corrente jazzistica nata negli anni Cinquanta, caratterizzata da un andamento più rilassato rispetto alle tendenze dell’epoca, partecipe di numerose influenze pervenute dalla musica colta – anche moderna – nonché di incisi piuttosto melodici e raffinati, sia tecnicamente che acusticamente. 103 Stile jazzistico di origine newyorkese, caratterizzato da una spiccata velocità e dall’utilizzo di soluzioni armoniche desuete, in confronto agli altri stili coevi.

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Capitolo 4