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Sistema numerico decimale, battito cardiaco, mani e ritmo binario

Origine del ritmo binario

5.1 Sistema numerico decimale, battito cardiaco, mani e ritmo binario

Il cervello del matematico più esperto non si avvicina, in quanto a tempi di calcolo, nemmeno lontanamente alla rapidità di computazione della più scadente delle calcolatrici. Ciò accade siccome i circuiti di cui è partecipe la calcolatrice, per quanto siano infinitamente più semplici della struttura cerebrale umana, sono preposti all’elaborazione di dati secondo un processo logico basato sul sistema numerico binario, ossia su una serie di processi elementari in cui ogni dato è descritto da combinazioni di due cifre, ergo lo zero e l’uno, che rispettivamente assumono il valore di negatività e di positività. Differentemente, il cervello umano opera prevalentemente per associazioni, ossia per processi estremamente più complessi e, almeno apparentemente, meno logici rispetto al sistema numerico binario, i quali, tuttavia, hanno determinato un vantaggio evolutivo enorme,

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specialmente per gli ominidi nostri progenitori: realizzare “immediatamente” di essere dinnanzi ad una minaccia – anche soltanto potenziale – e rispondere ad essa in maniera spontanea, magari istintiva, è un meccanismo sicuramente più efficace di una elaborazione logica volta a stabilire se la minaccia esista o meno, utilizzata pure per pianificare una relativa risposta adeguata alla contingenza, dal momento che le variabili in gioco si rivelerebbero sostanzialmente incalcolabili e arduamente riducibili a processi elementari. Non sorprende, infatti, che tecnologie quali la scrittura, la notazione musicale ed il sistema di numerazione arabo, abbiano raggiunto forme piuttosto efficienti – ma comunque implementabili126 – dopo secoli e secoli di tentativi più o meno riusciti. Nonostante questi progressi, tuttavia, esistono comunque delle contraddizioni sul piano logico che riguardano le convenzioni umane, la cui origine attecchisce nella natura antropica stessa. Per esempio, data la notevole semplificazione che comporta, in quanto partecipe di soli due termini differenti, il sistema numerico binario è manifestatamente più efficiente di quello decimale, eppure per gli esseri umani sembrerebbe assai più semplice utilizzare quest’ultimo anziché ragionare diversamente. In sostanza, sebbene l’umanità abbia potuto evolversi – in una certa misura – durante i secoli, grazie alla logica e alla coscienza, nondimeno ha conservato un retaggio cognitivo fortemente basato sull’associazione e sull’intuizione. Tale considerazione, peraltro, è alla base delle illuminanti teorie econometriche dell’economista statunitense Douglass North, il quale ha rilevato, a più riprese, che gran parte dei cambiamenti sociali umani nel corso della storia siano stati influenzati più che dalla logica pura, dal peso di enti, quali la superstizione, la tradizione, le credenze e così via (North, 2006). Pertanto, l’eziologia del sistema numerico decimale va ricercata in una qualche caratteristica propria dell’essere umano che abbia valore simbolico, piuttosto che nella logica di cui è dotato. In effetti, nota Dehaene, sono innumerevoli le

126 Dehaene sostiene che i brevi – se paragonati alla media degli individui occidentali – tempi di calcolo che parrebbero accomunare soprattutto le persone provenienti dal sud-est asiatico, dipendano dall’efficienza linguistica della nomenclatura dei numeri tipica di quell’area geografica, tant’è che in Giappone, addirittura, è stata adottata la nomenclatura cinese dei numeri. In altre parole, il fatto che i numeri siano nominati attraverso una sola sillaba o poco più, riduce significativamente la complessità dei processi cerebrali necessari per il calcolo, poiché linguisticamente non sono molte le informazioni da computare. Differentemente, in occidente la nomenclatura è estremamente articolata ed astrusa – si pensi soltanto alla maniera francese di esprimere semanticamente il numero novanta, ossia quatre

vingt dix, cioè “quattro venti e dieci” – e ciò grava sui processi cerebrali di calcolo che, pertanto,

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popolazioni che associano i numeri e le quantità a determinate parti del corpo – mani, avanbracci, ecc. – sicché parrebbe plausibile che pure il sistema decimale possa essere stato concepito a partire dall’associazione dell’unità al singolo dito della mano, così come la decina a tutte e dieci le dita delle mani (Dehaene, The number sense, 2011). A pensarci bene, un ulteriore indizio dirimente di ciò deriva direttamente dal sistema di numerazione romano ove l’unità è rappresentata con una stanghetta verticale, ossia un dito stilizzato, mentre la cinquina è indicata con due stanghette inclinate che si congiungono verso il basso, proprio come una mano stilizzata – composta, giustappunto, da cinque dita – il cui pollice sia inclinato ad angolo acuto rispetto alle altre dita; la decina, infine, è rappresentata da due simboli che equivalgono a cinque, disposti specularmente uno sopra all’altro a mo’ di croce, ad indicare due mani stilizzate – partecipi dunque di dieci dita complessivamente – unite insieme. L’importanza della mano rispetto alla singolarità animale dell’essere umano, de facto, è argomento diffusamente discusso dai filosofi antichi, parimenti a taluni filosofi illuministi quali Rousseau (Rousseau, 2009).

Figura 10 – Dita della mano e simbolo numerico romano a confronto.

Se, dunque, l’associazione è un processo tanto importante da trovarsi alla base di innumerevoli tecnologie umane, poiché corrisponde ad una delle vie operative preferenziali del cervello degli individui e pure di altri animali – non a caso,

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l’evoluzionista italiano Telmo Pievani paragona l’evoluzione ad un artigiano che sfrutta creativamente i mezzi che ha a disposizione modificandone lo scopo e la forma, in contrapposizione alla concezione diffusa dell’evoluzione come ingegnere che progetta ex novo degli attribuiti fisiologici, nonché si spinge pure oltre e mette in relazione innovazione artistica ad evoluzione della specie (Pievani, 2018) – e se la musica ha origine biologica, nondimeno millenario sviluppo tecnico, è lecito ritenere che certune caratteristiche musicali poggino su remote associazioni affini a quelle che, probabilmente, hanno segnato l’adozione globale del sistema numerico decimale.

In virtù di quest’ultima considerazione, di conseguenza, sembrerebbe possibile considerare il battito cardiaco essere la causa dell’adozione universale – o quasi – del ritmo binario. Più specificamente, secondo la teoria in questione – il cui principale sostenitore è il musicologo britannico Philip Tagg – ritmo cardiaco – e conseguentemente, ritmo respiratorio – sono strettamente correlati con la concezione del ritmo musicale. La prima prova a favore di questa concezione riguarda il numero di battiti cardiaci al minuto, i quali, alla maniera dei battiti emessi da un metronomo meccanico, possono oscillare da circa quaranta fino ad arrivare a più di duecento; inoltre, la media del metronomo meccanico corrisponderebbe a novantuno battiti musicali al minuto, più o meno come quelli cardiaci di una persona adulta che cammina. Da tale osservazione, emergerebbe la tendenza umana a dimezzare o a raddoppiare la scansione temporale di componimenti rispettivamente abbastanza più lenti o abbastanza più veloci rispetto alla velocità media di novantuno battiti al minuto, così da ricondurre i medesimi a questo tempo standard (Tagg, 1998). In secondo luogo, come sottolinea il compositore canadese Raymond Murray Schafer, il ritmo regolare e continuo del cuore divide tutto in parti uguali. Più precisamente, agli indizi a favore della teoria del battito cardiaco, si aggiunge l’idea che due fasi del cuore – pompaggio ed espulsione – costituiscano una cadenza dipodica simile al ritmo binario. Murray Schafer aggiunge, peraltro, che prima dell’invenzione del metronomo i tempi musicali probabilmente trovassero riferimento nella palpitazione del polso umano. Conclude, in ultima battuta, affermando che il ritmo cardiaco sia necessario per stabilire, da parte degli esseri umani, se taluni tempi musicali siano lenti o veloci (Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, 1985).

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A mio avviso, le prove raccolte a sostegno della teoria del ritmo cardiaco sono molto deboli oppure circostanziali; procediamo con ordine. Innanzitutto, è fondamentale proporre una definizione precisa di ritmo, nonché distinguere i concetti di tempo e velocità che, in effetti, corrispondono alle componenti essenziali di cui il ritmo è partecipe. In un mio articolo del 2016, ho definito il ritmo – al massimo della generalità – come una prevedibile scansione, coerente in termini di ripetizioni fenomeniche di un dato processo all'interno di un sistema dinamico, i cui costituenti siano noti (Bucciantini, 2016). In altre parole, il ritmo – sul piano musicale – equivale alla successione di fenomeni sonori che seguano delle logiche numeriche pure non regolari o reiterate nel tempo. È importante che il concetto di ritmo, quindi, non venga confuso con ciò che in gergo musicale viene definito internazionalmente groove: esso, difatti, corrisponde alla ballabilità di un brano o, meglio ancora, alla fruibilità di un ritmo regolare; in sostanza, se un complesso musicale suona con discreta sincronia un ritmo regolare, allora quella performance si può definire partecipe di groove. Il ritmo può anche essere, giustappunto, partecipe di swing – gergo prevalentemente jazzistico – cioè caratterizzato da una cadenza dondolante e qualche volta leggermente in ritardo rispetto all’andamento generale della musica. Talvolta i concetti di swing e di groove vengono contrapposti ma, invero, al di là del fatto che la percezione di entrambi è piuttosto soggettiva, essi possono pure coesistere contemporaneamente all’interno del medesimo componimento, qualora un andamento altalenante sia funzionale alla ballabilità della canzone in questione: come, per la maggior parte delle persone, probabilmente lo standard jazz Blue Rondo à la Turk (Brubeck, 1959) del pianista statunitense Dave Brubeck è partecipe di swing ma non di groove, dato che il relativo tempo è frazionato in 9/8 scanditi ora a gruppi binari, ora a gruppi ternari, così lo standard jazz Cantaloupe Island (Hancock, 1964) del pianista statunitense Herbie Hancock è sia partecipe di groove che si swing, dal momento che è caratterizzato da un andamento regolare, assai ballabile, benché talvolta si possano notare leggeri rallentamenti, nondimeno da una linea di batteria – sorprendentemente costante rispetto alla norma jazzistica – che tende a “swingare” specialmente nei colpi di rullante.

La velocità del ritmo equivale al quantitativo totale di note di una certa durata musicale all’interno di un determinato arco di tempo: convenzionalmente si usa

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come riferimento il numero di semiminime contenute in un minuto, tant’è che l’unità di misura della velocità musicale – quando essa non viene lasciata all’interpretazione del direttore dell’esecuzione, la quale può basarsi su indicazioni orientative come, per esempio, allegro, andante, moderato oppure presto – viene espressa in battiti per minuto ovvero bpm. In altre parole, la velocità del ritmo esprime soltanto il tipo di andatura – che sia rapido, moderato o lento – di un componimento ma non definisce una scansione metrica. Effettivamente, sono solito insegnare questo concetto ai miei studenti e alle mie studentesse eseguendo una serie regolare di note prive di accentazioni – quali semicrome – con il rullante e, allo stesso tempo, domandando loro di individuare in quale tempo io stia suonando; generalmente ricevo la più prevedibile delle risposte, ossia che, a loro avviso, io stia eseguendo delle serie di note in 4/4: ciò accade poiché facilmente loro riescono a suddividere, con l’ausilio delle grammatiche musicali che posseggono, quella particolare ripetizione in un tempo binario. A quel punto, però, inizio a scandire il tempo con lo hi-hat127 secondo una logica ternaria, senza modificare la serie di note che sto eseguendo col rullante, pertanto gli alunni e le alunne, modificano la loro risposta adeguandosi al nuovo punto di riferimento che ho aggiunto. Ancora una volta, però, modifico la scansione del tempo secondo una logica binaria e, di nuovo, la risposta che ricevo cambia. Di conseguenza, faccio loro notare che, da sole, le note così suonate sul rullante sono partecipi di velocità ma non di tempo, poiché senza ulteriori riferimenti – accenti, contesto musicale, variazioni tonali et– è possibile scandirle in qualunque forma si conosca senza cadere in errore ma, ugualmente, senza la pretesa di dare una risposta univoca.

Il tempo, dunque, non è la velocità di esecuzione di un brano bensì la scansione secondo cui una misura musicale viene suddivisa: la notazione 4/4 prima di una misura, per esempio, indica che essa debba durare matematicamente quanto quattro semiminime, ma fattualmente la relativa durata dipende dalla velocità, oltre che dal ritmo. In sostanza, per calcolare la durata temporale – ammettiamo in secondi, per esempio – di una misura, è necessario dividere sessanta – ossia i secondi contenuti in un minuto – per i battiti per minuto, dopodiché moltiplicarli per il numeratore del tempo musicale e poi dividere il risultato per la cifra che si

127 Supporto metallico partecipe di pedale, sul quale sono montati specularmente due cembali che possono essere aperti o chiusi in base alla pressione del piede – il sinistro nel caso di un batterista destrorso – sul pedale.

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ottiene dividendo il denominatore per quattro. In termini più tecnici, il processo può essere sintetizzato nella seguente formula, ove t corrisponde ai secondi contenuti in un minuto, bpm alla velocità musicale in semiminime, come da convenzione internazionale, N al numeratore del tempo musicale e D al denominatore del tempo musicale.

4𝑁 (𝑏𝑝𝑚𝑡

)

𝐷

Più genericamente, nel caso in cui i battiti non fossero intesi quali semiminime e non venissero considerati nell’intervallo di un minuto bensì in un intervallo differente, varrebbe la seguente formula di calcolo del tempo di una misura, ove t corrisponde all’arco di tempo preso in considerazione (qualunque sia l’unità di misura), ω corrisponde al numero di battiti di riferimento all’interno della misura, x corrisponde al numero complessivo di battiti all’interno dell’arco di tempo t, N corrisponde al numeratore del tempo della misura e D al denominatore del tempo della misura. Il risultato ottenuto viene espresso nella medesima unità di misura temporale di t.

(𝑡𝜔

𝑥)

𝑁

𝐷

Teoricamente, un brano non necessita di un tempo musicale per esistere, tuttavia quest’ultimo, oltre che ad essere un utilissimo riferimento convenzionale per un’esecuzione sincronica, diviene spontanea forma di decodifica del componimento stesso, qualora esso sia partecipe di qualche forma di ripetizione; ciò avviene in virtù del concetto di musica, poiché essendo quest’ultima partecipe di significati non semantici superiori a quelli di cui sono partecipi le singole note, allora può essere pure partecipe di fraseggi che assumono significato compiuto – qualora si ripetano – e possono, conseguentemente, essere raggruppati secondo una concezione matematica.

Veniamo finalmente all’analisi delle prove a favore della teoria del battito cardiaco. La prospettiva concepita da Philip Tagg, innanzitutto, potrebbe descrivere

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eventualmente le motivazioni per cui la velocità della musica oscilli all’interno di un particolare ventaglio di battiti per minuto, nondimeno non è in grado di giustificare l’origine del ritmo binario: come già discusso, infatti, velocità e tempo sono enti distinti e la velocità del battito cardiaco da sé può soltanto essere associata alla velocità della musica ma non al tempo, giacché quest’ultimo prescinde dalla dimensione cronologica della musica e, diversamente, si rifà a quella matematica o, addirittura, astratta. Peraltro, la musica può seguire andamenti abbastanza più lenti, ma soprattutto assai più veloci del battito cardiaco, tant’è che molti brani di generi estremi, come certe declinazioni del metal, toccano anche trecento o più battiti per minuto, potendo vantare una vasta schiera di ascoltatori e di ascoltatrici, benché il cuore indubbiamente non possa battere a certe velocità. In altre parole, esistono delle forme musicali che fanno uso di velocità assolutamente estranee al range cardiaco – difatti, il cuore già intorno ai duecento battiti al minuto affronta uno sforzo enorme – e che, comunque, vengono fruite da moltissime persone. Se la velocità musicale affondasse le proprie radici nel battito del cuore, allora non soltanto risulterebbe alquanto bizzarra l’esistenza di certi stilemi musicali così distanti in quanto a velocità dal ritmo fisiologico in questione, ma addirittura dovrebbero esistere molti più brani lenti: il fatto che la velocità media di alcuni metronomi meccanici sia di novantuno battiti per minuto – mentre, comunque, la velocità media dei metronomi elettronici sia notevolmente più alta, senz’altro superiore a centocinquanta battiti per minuto – non equivale a dire che novantuno sia la media delle velocità di tutti i brani composti nella storia dell’essere umano. A prescindere dal fatto che velocità e andamenti varino in base a canoni stilistici collegati alle epoche, è abbastanza facile fruire di brani partecipi di velocità superiore a ottanta battiti per minuto e abbastanza più raro trovarne di meno veloci: se il ritmo cardiaco fosse il fulcro della velocità, allora dovrebbero esserci molti più brani intorno ai cinquanta o ai sessanta battiti per minuto. Inoltre, anche ammettendo che la velocità si basi sul raddoppiamento di un normale battito cardiaco – e allora si dovrebbe scoprire perché esso sia stato raddoppiato – molti componimenti sarebbero ugualmente partecipi di velocità assai dissimili a quelle cardiache, quantunque raddoppiate, ed il problema non sarebbe risolto. Più semplicemente, è verosimile ritenere che i limiti della velocità musicale – sia inferiori, sia superiori – dipendano unicamente dalla capacità cerebrale di

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elaborazione delle inferenze sonore in un dato intervallo di tempo. In sostanza, l’unico limite davvero esistente è la dimensione fisica stessa del cervello. In effetti, entro una certa lentezza si perdere la scia musicale, così come entro una certa rapidità, poiché oltre le note vengono recepite come accordi e non più come input distinti temporalmente. Il problema, semmai, riguarda la scelta di una velocità piuttosto che di un’altra per ogni singolo componimento: secondo i sostenitori della teoria del battito cardiaco, infatti, ad andamenti lenti corrispondono qualità emozionali tristi, mentre ad andamenti veloci corrispondono qualità emozionali gioiose. L’idea alla base di questa concezione è che ad un letto battito cardiaco venga associata la fine della vita, perciò esso rimanderebbe ad una dimensione luttuosa; al contrario, l’andamento è spigliato rimanderebbe ad una dimensione vitale e vigorosa (Tagg, 1998). Empiricamente, tuttavia, non sembrano esserci prove a sostegno della considerazione in questione: un maratoneta assai allenato, exempli gratia, deve avere un battito cardiaco molto rallentato rispetto alla norma al fine di conservare le proprie energie il più possibile in vista di uno sforzo tanto prolungato quale la maratona, nondimeno tale condizione fisica non si può definire patologica di per sé; allo stesso modo, un battito cardiaco estremamente accelerato può scandire, difatti, gli ultimi istanti di vista di una persona, sicché non risulta evidente, né diretta, una correlazione fra velocità del battito cardiaco, velocità musicale e qualità emozionale della musica. Da sé, pertanto, la velocità di un brano non ne determina il valore emozionale. In primis, è palese che la velocità di una composizione venga stabilita dall’autore della medesima, il quale, in possesso di determinate grammatiche musicali, riterrà una certa velocità più adatta di un’altra acciocché comunichi un particolare sentimento. Secondariamente, un brano che paia triste, lo sembrerà anche se velocizzato o rallentato. Certamente, una marcia funebre sarà partecipe di un andamento piuttosto dilatato in virtù del fatto che serva a scandire, giustappunto, i passi di coloro che partecipano al rito, i quali non possono certamente correre, sia per ragioni di solennità, sia per motivi pratici: si pensi soltanto all’ingombro e al peso del feretro. Ciononostante, la cupezza della marcia funebre in questione verrebbe percepita – insieme ad una prevedibile sensazione di anomalia – anche qualora il brano venisse velocizzato. Insomma, nel panorama musicale sono molti i brani dall’impronta mesta eppure veloci, così come ce ne sono svariati di impronta gioiosa eppure piuttosto lenti. Ad esempio, esiste un derivato della musica rock, dal nome

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sludge, caratterizzato dalla costante presenza di andamenti esasperatamente lenti,

nondimeno da soluzioni melodiche raramente considerabili tristi o cupe: abbastanza paradigmatica è la canzone Civilized Worm (Osborne, Crover, Willis, & Warren, 2006) della band statunitense Melvins.

La seconda considerazione a favore dell’ipotesi del battito cardiaco riguarda invece il concetto di ritmo poiché – viene affermato – la pulsazione del cuore, essendo partecipe di due fasi – ossia di pompaggio e di espulsione – ha esposto a lungo gli individui ad un ritmo binario (Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, 1985). Per la precisione, il movimento del cuore non è composto da due fasi solamente ma da quattro fasi complessive, ovvero contrazione isometrica, eiezione ventricolare, rilasciamento isometrico e fase auxotonica, che generano prima un rumore profondo – la chiusura delle valvole tra gli altri e i ventricoli – e poi un rumore più acuto – la chiusura delle valvole semilunari (Curtis & Barnes, 2007). Ciò, ad ogni modo, non è sufficiente a comprovare il collegamento fra battito cardiaco e ritmo binario, innanzitutto siccome il secondo dei due rumori emessi dal cuore è