QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE
AFFILIAZIONE RITUALE, GRAVE INDIZIO DI PARTECIPAZIONE AD ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO. ANALISI DEGLI SNODI
12. Affermata dimensione di “danno” e rilievi critici
Nondimeno – ed emergono qui le anticipate ragioni di cautela – le Sezioni Unite, subito in appresso, aggiungono altresì che «il reato di associazione mafiosa non può ritenersi integrato escludendo la dimensione del danno, che deve configurarsi come concreto ed effettivo, proprio in relazione all'utilizzo del metodo mafioso inteso nel suo senso oggettivo:
quest'ultimo, infatti, non può perdere la propria consistenza fino a far degradare la fattispecie a semplice pericolo attraverso mere prospettazioni prognostiche. In questo senso deve riconoscersi che il pericolo astratto non integra la fattispecie, rimanendo incerto e solo ipotetico il concreto passaggio dal pericolo al danno».
Il riferimento al danno sembrerebbe effettuato per rafforzare la realistica proiezione del pericolo concreto verso una dimensione di danno.
Ci si fa tuttavia lecito di osservare come – da un punto di vista meramente teorico – esso possa entrare in una lettura dinamica della fattispecie anche in un modo diverso rispetto a quello ritenuto dalle Sezioni Unite.
Occorre premettere che, secondo l’architettura cui si va brevemente accennando, la fattispecie è il portato di un’evoluzione dinamica, registrante la
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141 transizione di un’associazione per delinquere che accumula la carica intimidatoria ad un’associazione che non è più per delinquere perché è divenuta di tipo mafioso in quanto ha già accumulato un serbatoio di carica intimidatoria.
A mente di ciò, l’associazione di tipo mafioso si presta ad una duplice caratterizzazione, ad un tempo di pericolo e di danno:
- di pericolo, in relazione alla preordinazione alla commissione di una serie indeterminata di delitti, che peraltro si affiancano alle attività (apparentemente) lecite pure integranti il programma criminoso;
- di danno, in relazione all’esistenza attuale della capacità intimidatoria dell’associazione, derivante dalla sua «fama criminale», pure evocata dalle Sezioni Unite, in ragione dell’effettiva lesione della libertà di quanti si relazionano con la medesima, pronta a venire puramente e semplicemente ad emersione nel mo-mento in cui in direzione di alcuno si orienta l’effettivo agire dei singoli partecipi in sede di realizzazione del programma criminoso.
13.1. Condotta di partecipazione: il richiamo delle Sezioni Unite alla sentenza Mannino 2.
Progredendo nella disamina dell’incedere argomentativo delle Sezioni Unite, il passaggio successivo riguarda la condotta di partecipazione.
Il punto di partenza – secondo le Sezioni Unite – è l’affermazione (già ricordata) dell’«oggettiva carenza definitoria del disposto normativo di cui al primo comma dell'art. 416-bis cod. pen.».
Le Sezioni Unite imputano ad essa l’evolvere dell’interpretazione, dottrinale ma soprattutto giurisprudenziale, da un modello causale, prima, ad un modello organizzatorio, poi, ad un modello misto, infine, sì da rendere sempre più coerente la previsione normativa con i principi del diritto penale costituzionale e sovranazionale.
A precipuamente rilevare nella presente sede è che, in seno al modello misto, in un’accezione sincretistico-additiva – fondata cioè su una partecipazione corroborata da fatti espressivi di condotte lato sensu accrescitive delle potenzialità dell’associazione – le Sezioni Unite collocano la sentenza Mannino 2.
13.2. Lettura della sentenza Mannino 2 proposta dalle Sezioni Unite.
È noto come la sentenza Mannino 2, nel riprendere ed approfondire le prospettive sia della sentenza Demitry sia della sentenza Carnevale, abbia (in part.
al par. 4), scisso l’analisi nelle due gradazioni sostanziale e processuale:
- in rapporto alla gradazione sostanziale, «si definisce "partecipe" colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell'associazione
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mafiosa, non solo "è" ma "fa parte" della (meglio ancora: "prende parte" alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all'effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l'associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima»;
- in rapporto alla gradazione processuale (rectius, alla «dimensione probatoria della partecipazione»), «rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio».
Nella sentenza Mannino 2, in sviluppo della gradazione processuale, la definizione dei predetti «indicatori fattuali» è, per così dire, “ad imbuto”.
Più precisamente,
- in primo luogo, rilevano «indizi gravi e precisi», «dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, "messa a disposizione" della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall'imputazione»;
- in secondo luogo, tra gli «indizi» (stante quanto dalla sentenza stessa esplicitato subito dopo tra parentesi), possono annoverarsi, exempli causa, «i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di "osservazione" e "prova", l'affiliazione rituale, l'investitura della qualifica di "uomo d'onore", la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi facta concludentia».
Orbene, al cospetto d’un siffatto articolato ragionamento della sentenza Mannino 2, le Sezioni Unite, nella sentenza in commento, ne propongono l’insegnamento (di cui alla massima sub Rv. 231673-01, fedele alla lettera della motivazione) nel senso che l’affermazione di detta sentenza secondo cui «può definirsi partecipe “colui che si trovi in un rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato ‘prende parte’ al fenomeno associativo”», «rende evidente che la condotta tipica deve essere intesa nei termini di una
"partecipazione fattiva", che si realizza mediante il compimento di "atti di militanza associativa"», con la precisazione che «la stessa non deve necessariamente possedere - di per sé - una carica elevata di apporto causale alla vita dell'intera associazione o di un suo particolare settore, come richiesto per il concorrente esterno, ma deve in ogni caso porsi come comportamento concreto, teso ad agevolare il perseguimento degli scopi associativi in modo riconoscibile e non puramente teorico, sì da potersi ritenere condotta indicativa dello stabile inserimento del soggetto nel gruppo».
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143 13.3. Duplice conclusione, sostanziale e processuale, che le Sezioni Unite ricavano dalla sentenza Mannino 2.
Sull’addentellato della sentenza Mannino 2, le Sezioni Unite guadagnano – nella chiave sincretistico-additiva cui poc’anzi si accennava – la duplice conclusione secondo cui,
- sul piano sostanziale, «scaturisce dalla sentenza "Mannino" un fenotipo della partecipazione che postula l'esigenza di atti espressivi dello status di partecipe, intesi come condotte di militanza associativa: con la conseguenza che la fattispecie criminosa non può configurarsi in presenza della sola qualifica formale (e alla condizione statica) di componente dell'associazione, in assenza di alcuna forma di agere associativo successivo al formale ingresso all'interno della consorteria»;
- sul piano processuale, occorre sgombrare il campo dagli «equivoci» (così letteralmente) «sorti» nell’«utilizzo» degli «indicatori», sia perché essi devono
«interpretarsi alla luce delle massime d'esperienza», sia perché, «prima ancora», deve espungersene la «collocazione tra gli elementi della tipicità criminosa», per farli rientrare unicamente «tra i materiali della prova», con l’ulteriore conclusione che – venendo alla questione controversa in sé e per sé devoluta alla cognitio delle Sezioni Unite, è solo «sul terreno della prova che acquisisce rilievo il compimento di formalismi rituali di inserimento nella consorteria».
14. Affiliazione rituale e necessità, secondo le Sezioni Unite, di conferme derivanti da «condotte di militanza associativa».
È proprio alla luce della necessità di sgombrare il campo dagli «equivoci»
prodottisi nell’«utilizzo» degli «indicatori» menzionati dalla sentenza Mannino 2, rispetto al thema centrale di rinvenire, ai fini d’una partecipazione penalmente rilevante, «condotte di militanza associativa», in quanto esse sole «espressiv[e] dello status di partecipe», che, nel pensiero delle Sezioni Unite, l’affiliazione rituale, quantunque di per sé “insufficiente” a significare detto status, può però acquisirne l’attitudine – ed a cagione di ciò costituire grave indizio di appartenenza – qualora si accompagni a «comportamenti di fatto - precedenti e/o successivi al rituale di affiliazione - non necessariamente attuativi delle finalità criminali dell'associazione, ma tuttavia capaci di dimostrare in concreto l'adesione libera e volontaria a[lla] consapevole scelta [della "messa a disposizione"] e di rivelare una reciproca vocazione di "irrevocabilità"».
Da ciò – ci si consente di osservare – sembrerebbe emergere una spiccata caratterizzazione probatoria della rilevanza dell’affiliazione rituale, avente lo scopo, in definitiva, di richiamare il giudice di merito (al quale compete in via esclusiva la ricostruzione del fatto storico, alla stregua – rammentasi – di un giudizio insindacabile in cassazione se congruamente motivato) al dovere
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motivazionale di render conto dell’inserimento della stessa in un contesto osservazionale univocamente conducente – in ragione, tuttavia, soltanto di concorrenti (precedenti, contemporanei o successivi) «comportamenti di fatto» (e quindi di azioni osservabili e documentabili) estrinsecantisi in agiti di militanza, quantunque non per forza diretti alla realizzazione del programma delinquenziale – al suo intendimento come “sintomo” della definitiva messa a disposizione del novizio.
È per tale ragione che le Sezioni Unite – premesso che «il rituale di affiliazione si può presentare in varie forme» – rimarcano come la sua caratterizzazione sia
«strettamente dipendente dal contesto (storico, sociale, culturale) in cui lo stesso si manifesta»: spetta conseguentemente al giudice di merito ricostruire quel contesto, in “dipendenza” dal quale evincere – attraverso la mediazione delle massime d’esperienza – il “significato globale” del rituale di affiliazione, cogliendone l’essenza dimostrativa o meno della messa a disposizione.