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Affermazione della certezza del diritto non più nella sola sede applicativa, ma anche, e a fortiori, nella sede di formazione della legge.

Il principio della «certezza del diritto» nelle esperienze dei due ordinament

7. Affermazione della certezza del diritto non più nella sola sede applicativa, ma anche, e a fortiori, nella sede di formazione della legge.

Ricondurre il problema della certezza del diritto esclusivamente all’ambito applicativo lascerebbe fuori dalla gamma delle possibili soluzioni alla questione trattata l’ambito più propriamente formativo della norma giuridica, ed in particolare della norma legislativa. Apparirebbe invero fuorviante e riduttivo ritenere di poter risolvere il problema della mancanza di certezza del diritto in un ordinamento con la sola attività interpretativa da parte dei giudici: bisogna infatti affiancare ad essa un nuovo modo di pensare la costruzione della norma al fine di renderla chiara, comprensibile e coerente in chiave sistematica. In sintesi bisogna sostenere l’operato di giudici neutrali, che si debbano limitare alla mera applicazione della norma, con l’introduzione di una serie di «tecniche legislative», in modo da garantire un impegno a monte e, quindi costante, lungo tutta la “filiera” di produzione-attuazione- applicazione della norma, per il perseguimento del valore della certezza del diritto.

Questo è in sintesi quanto hanno teorizzato i fondatori della «scienza della legislazione», i quali hanno sostenuto la necessità di introdurre nell’ordinamento un complesso di regole, direttamente nella sede di formazione della legge, a tutela della sicurezza giuridica.

E’ del 1960 in particolare il primo dibattito pubblico intercorso negli ambienti accademici italiani, che ha pertanto coinvolto eminenti giuristi dell’epoca sull’opportunità di dare vita ad una scienza della legislazione, che delle tecniche legislative, di cui peraltro si dirà, costituirebbe la base teorica e dogmatica. In tale sede la scienza della legislazione viene esattamente definita da Mario Longo, colui che diede origine al dibattito, «una branca di studi genericamente necessaria a qualsivoglia razionale sviluppo legislativo… particolarmente utile come rimedio (parziale, ma non solo sintomatico) al…fenomeno di iperproduzione e di caoticità legislativa»173.

La teorizzazione di una scienza della legislazione non deve essere in nessun modo intesa come un’inutile speculazione dottrinale, visto e considerato che ad essa sono da attribuire molteplici aspetti pratici, che peraltro, a nostro avviso, non sono stati pienamente sfruttati neanche ai nostri giorni. L’utilizzo del termine «scienza» induce subito a pensare come dal piano prettamente politico nel quale è da situarsi il momento di elaborazione della legge si fuoriesca per entrare in una sfera più tecnica, scientifica, priva dei caratteri discrezionali ed

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arbitrari che connotano l’atto legislativo come atto politico. In questo modo si può perciò parlare di «scienza della legislazione» allo stesso modo di quanto si è finora fatto a proposito della «scienza giuridica»174: se per scienza giuridica da sempre si intende l’analisi esegetica e il complesso dogmatico attinente alle norme inserite in un contesto ordinamentale, per scienza della legislazione si dovrà allora a tale scopo intendere lo studio delle norme progettate, anche – e soprattutto – in relazione a quelle già poste in essere175.

Si può vedere in tale sforzo perciò la volontà di porre sul medesimo livello la fase applicativa e la fase di formazione della legge. Entrambe infatti né più né meno creano diritto e così facendo si rendono portatrici di una cultura garantista della certezza del diritto. Se tuttavia i giudici, che alla legge e solo alla legge sono sottoposti, seguono delle regole ben specifiche sull’interpretazione, così come risultano predisposte dagli articoli 12 e 14 delle preleggi al codice civile, il legislatore, il quale non deve mai dimenticarsi che, per ragioni ovvie, non è altro che un afferente alla classe politica, non era all’epoca sottoposto a delle regole relative alle modalità di formazione delle leggi, se non in maniera generica e approssimativa. Anche in questo caso a dire qualcosa in merito erano unicamente le disposizioni preliminari al codice civile risalenti al 1942, che possiamo suddividere in regole/norme sulla produzione delle leggi (Capo Primo-Delle Fonti del diritto) e regole/norme sull’interpretazione delle leggi (Capo Secondo-Dell’applicazione della legge in generale)176, ma non poteva parlarsi di «regole di tecnica legislativa».

La ragione di questa differenza nell’approccio rifletteva del resto lo stesso principio di legalità. Si dava sostanzialmente per scontato che quanto detto dalla legge e le modalità utilizzate nel legis facere fossero rispondenti, quasi per definizione, al principio di certezza della legge e pertanto non necessitassero di regole a tutela di questo stesso valore costituzionale177.

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Continua invece a parlare di «scienza giuridica» per definire esclusivamente l’apporto che il giurista conferisce al legislatore, quest’ultimo generalmente attorniato solamente da tecnici/burocrati, G. GROSSO, Diritto dell’economia e tecnica legislativa, in Il diritto dell’economia, 1960, pp. 489-490.

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M. LONGO, op. cit., p. 601. L’A. peraltro trova dei momenti di fusione delle due scienze, laddove, in particolare, la scienza della legislazione debba tener conto delle norme in atto per verificare l’impatto delle norme progettate (profilo esegetico) e laddove essa debba svolgere delle indagini relative al significato giuridico che le medesime norme progettate assumerebbero (profilo dogmatico), ivi.

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Ciò è da intendersi in senso lato, ovvero se intendiamo le preleggi come fonti sulla produzione del diritto, in quanto naturalmente una distinzione tra norme sulla produzione e norme sull’interpretazione non appare ragionevole.

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Lo stesso Francesco Carnelutti, strenuo difensore del principio della certezza del diritto in sede di interpretazione del diritto, solo qualche anno più tardi, rispetto a tale posizione dottrinale, sottolineerà la necessità di affiancare all’operato del legislatore la categoria dei giuristi. Questi in particolare non si sarebbero dovuti, secondo il pensiero dell’A., occupare esclusivamente di leggi già fatte, ma anche di leggi ancora da farsi, sorreggendo, attraverso la propria esperienza tecnica, il politico nella elaborazione dell’enunciato legislativo. In questo senso F. CARNELUTTI,Intervento, in Il diritto dell’economia, 1956, p. 1275 ss.. e ID La missione del

Viene quindi sottolineata la necessità che in sede strettamente legislativa si affianchi al politico un’attività di assistenza tecnica, che si traduca nello studio «degli effetti pratici delle norme concretamente in atto e di quelle ipoteticamente formulabili»178.

Nelle assai avveniristiche considerazioni di Mario Longo riteniamo tuttavia di riscontrare un vizio di forma, che per molti anni ha interessato più in generale le teorie collegate alla fondazione di una scienza della legislazione e che più avanti verranno maggiormente approfondite. Longo, infatti, sottolinea, quasi fosse il vantaggio per eccellenza a beneficio di chi si occupa di scienza della legislazione, la totale irrilevanza degli aspetti propriamente collegati al “gioco della politica”, che, a ben vedere, e ciò del resto viene ammesso dallo stesso Autore, occupano un ruolo non di poco conto nel prodotto legislativo finale. Chi afferisce al mondo della scienza della legislazione, secondo questa dottrina, dovrebbe prestare la propria attenzione unicamente allo «schema logico di una paradigmatica deliberazione legislativa»179. Ma una simile affermazione denuncia l’atteggiamento indifferente e distante che verrebbe così tenuto dal tecnico nei confronti delle problematiche più strettamente politiche.

Ad avviso di chi scrive questa affermazione rileva il forte limite che poi ha contribuito per molti anni ad un generale distacco tra le categorie del tecnico e del politico, operanti perciò a compartimenti stagni, isolati nel loro lavoro l’uno dall’altro, nel sacrificio di quella necessaria sinergia idonea alla creazione di un prodotto efficace e non dannoso ai fini della certezza del diritto. Del resto anche per la costruzione di un edificio l’architetto, dalle idee spesso bizzarre e attuabili a fatica, difficilmente riuscirebbe nell’impresa se non potesse contare sull’aiuto dell’ingegnere strutturista, al quale spetterebbe tradurre l’idea in progetto esecutivo. Rimanendo ancora nell’esempio, sarà solo grazie all’intermediazione dell’ingegnere che si renderà realizzabile un edificio dalle basi solide e, magari con l’aiuto di altre figure tecniche, quali l’ingegnere paesaggista, ben calato nell’ambiente circostante.

Peraltro il Longo pare contraddirsi quando invece sottolinea la necessità di una comunicazione tra il tecnico e il politico al fine di ovviare a divergenze tra la decisione tecnico-strumentale e la decisione politico-finalistica.

giurista, in Rivista di Diritto Processuale, 1959, p. 343 ss.. Sul fatto che con l’espressione «tecnici» si intenda unicamente la categoria del giurista, al giorno d’oggi avremo molto da ridire, dato che l’elaborazione di una legge richiede sì competenze tecniche ma in un senso molto più lato rispetto a quello inteso dal Carnelutti, ovvero la conoscenza, oltre che del diritto, anche di aspetti inerenti i campi dell’economia, della statistica, della sociologia, della finanza e così via. Della necessità di estendere il significato di «tecnico» appare, invece, avvedersene M. LONGO, Importanza delle rivelazioni statistiche e sociologiche per l’elaborazione del diritto agrario, in Rivista italiana di economia, demografia e statistica, 1958, nn. 1-2.

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M. LONGO, Per la fondazione di una scienza della legislazione, cit., p. 589.

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Si ritiene perciò che parlare di «scienza della legislazione» piuttosto che di «politica legislativa» non riveli in realtà l’esistenza di una lontananza tra i due livelli cognitivi/deliberativi, data la commistione irrinunciabile tra il merito della decisione e i suoi presupposti tecnici all’interno di un rapporto logico di mezzo-fine180.

Concordiamo, invece, sull’inadeguatezza181 o perlomeno sulla limitazione dell’utilizzo dell’espressione «tecnica legislativa», per quanto oggi risulti il termine in assoluto più impiegato per indicare l’insieme delle regole che sorgono a difesa della qualità della legge. Pare, infatti, che con tale locuzione si finisca col negare l’esistenza di un substrato dogmatico e scientifico alla materia. Si potrebbe, invero, accettare di parlare di «tecniche legislative» solo qualora con tale formula si richiamasse solamente la fase successiva a quella propriamente scientifica, a cui la «scienza della legislazione» fosse quindi propedeutica182.

Tuttavia, senza anticipare argomenti che saranno oggetto di maggiore dettaglio in seguito, sussiste una serie di dati che, per entrambi gli ordinamenti studiati, ci porta a concludere che tali tecniche non siano supportate da un loro generale riconoscimento come afferenti ad una branca scientifica autonoma rispetto alla scienza del diritto. Appare peraltro evidente come

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Pare riconoscere la necessità di un’attenta analisi da parte dei giuristi anche di elementi extra – giuridici, tra i quali anche quelli generalmente considerati dai politici, C. MORTATI, Perplessità e riserve in merito alla fondazione di una «scienza della legislazione», in Il diritto dell’economia, 1960, p. 829 ss.. L’A. tuttavia ritiene alquanto irrealizzabile una fattiva e coordinata collaborazione tra politici e giuristi.

181

M. LONGO, op. cit , p. 600.

182

Sulla scia di quanto affermato da Francesco Carnelutti, il quale ritiene di poter porre in ordine logico e cronologico la scienza, la tecnica, ed, infine, l’arte della legislazione, si cfr. F. CARNELUTTI, Scienza o arte della

legislazione?, in Il diritto dell’economia, 1960, p. 824. Ritiene, invece, del tutto fuori luogo parlare di scienza della legislazione A.M. SANDULLI, Conoscere per legiferare, in Il diritto dell’economia, 1960, p. 976. L’A., infatti, ritiene che sia più appropriato utilizzare l’espressione «tecnica», piuttosto che «scienza».

Senza entrare nel merito della polemica che ha portato gran parte dei giuristi coinvolti del dibattito a ritenere inopportuna la fondazione di una scienza della legislazione, possiamo limitarci a chiarire la ragione principale che ha condotto all’assunzione di una posizione refrattaria verso la proposta di Mario Longo di dare vita ad una nuova branca del diritto. Tale posizione, infatti, nasce dalla considerazione in base alla quale per scienza della legislazione si dovrebbe intendere quel complesso di conoscenze tecniche che devono sorreggere il legislatore nella progettazione normativa; perciò le conoscenze tecniche richieste valicherebbero l’ambito strettamente giuridico abbracciando pressoché tutto lo scibile necessario per la valutazione, come scrisse lo stesso Longo, degli effetti pratici delle norme concretamente in atto e di quelle ipoteticamente formulabili (perciò competenze in ambito economico-ambientale-sanitario-tributario e così via, a seconda dei campi toccati dal progetto di legge oggetto di analisi). Aldo Maria Sandulli, in particolare, denunciò che il giurista rileverebbe solamente nel momento finale di costruzione del progetto di legge, ovvero per l’indicazione della «formula giuridica più idonea a far sì che tutti gli obiettivi avuti di mira sul piano pratico vengano conseguiti, e che essi vengano raggiunti senza incidere nell’ordinamento preesiste più di quanto gli obiettivi stessi esigono», ivi, p. 977. Il legislatore dovrebbe così conoscere tutte le singole branche di studio che di volta in volta risultano coinvolte nella elaborazione normativa, da qui il sandulliano «conoscere per legiferare», e, per rendere il proprio operato attento ai profili legati alla conoscibilità e alla chiarezza, oltre che alla fattibilità della legge, dovrebbe di conseguenza fare uso delle tecniche legislative, in quanto «attività strumentale dell’arte di governare», in quanto di sua spettanza, mentre gli ulteriori elementi cognitivi provenienti da altri campi del sapere spetterebbero agli specialisti dei singoli settori. Ciò che comporterebbe l’impossibilità di ipotizzare l’ausilio al legislatore per mano di un ipotetico scienziato della legislazione che avesse un buon grado di conoscenza di ogni singolo elemento necessario per giungere alla realizzazione di un adeguato livello qualitativo del prodotto legislativo finale, ivi, p. 976.

l’effetto di una generale negazione dell’esistenza di una scienza della legislazione abbia prestato il fianco, se non ad un drastico scalzamento della tecnica dalle logiche politiche della decisione legislativa, ad una sua considerazione eventuale e sussidiaria.

Per parlare di tecnica della legislazione è pertanto necessario che si parli anche, e in un momento antecedente rispetto ad essa, di scienza della legislazione183.

Abbiamo già ricordato , infatti, come le tecniche legislative rispetto alla decisione politica si trovino in un rapporto di mezzo-fine, ma rischierebbe tuttavia di apparire riduttiva una visione di tali tecniche se non se ne percepisse anche la loro importanza nel perseguimento di qualcosa di diverso e di più alto rispetto al mero accordo politico. Le tecniche legislative nascono perciò in primis per perseguire l’obiettivo connaturato alla scienza della legislazione, il quale è rappresentato, ancora una volta, dalla certezza del diritto. Le tecniche legislative allora non saranno altro che il metodo scientifico indispensabile per trasformare la teoria connaturata alla base scientifica in una pratica184.

Che tale branca del sapere risulti complessa è un dato di fatto e ciò deriva anche dal rapporto più volte ricordato tra tecnico e classe politica; per tale motivo c’è chi opportunamente ha ritenuto di porre la scienza della legislazione a metà strada tra la scienza giuridica e la scienza politica185.

Indicava Bobbio186 le qualità del legislatore nella giustizia, dovendo quest’ultimo trattare in modo uguale situazioni uguali e in modi differenti situazioni differenti, nella razionalità, dovendo egli scegliere le soluzioni più adeguate per i fini previsti e, infine, nella coerenza, dovendo evitare di fare uso di espressioni equivoche e ridondanti, oltre che di ripetizioni. Tali qualità non potranno essere la risultante di capacità intuitive, se non in rari casi, e perciò colui che si trova a costruire un progetto di legge dovrà per forza di cose avvalersi dell’affiancamento garantitogli da persone esperte e in possesso delle conoscenze per l’applicazione del metodo scientifico richiesto.

Così vedremo il mischiarsi di saperi, la commistione di politica e di diritto, di scienza e di intuito politico, di giuristi e di burocrati. Ma non sconvolgerà il considerare che del resto a

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Ricordiamo come a parlare di «scienza e tecnica della legislazione» sia proprio M. D’ANTONIO, nell’Introduzione al Corso di studi superiori legislativi 1988-1989 organizzato dall’ISLE-SCUOLA DI SCIENZA E TECNICA DELLA LEGISLAZIONE, 1990, Cedam, Padova, p. 6.

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Si veda R. DICKMANN,Il drafting come metodo della legislazione, in Rassegna Parlamentare, 1/1997, p. 214 ss..

185

A. A. MARTINO,En torno a la ciencia de la legislación, in A. A. MARTINO (a cura di), Ciencia de la legislación, Ediciones Universidad del Salvador, Buenos Aires, 2004, p. 193.

186

N. BOBBIO, Le bon législateur, in H. HUBIEN (a cura di), Le raisonnemente juridique, Emile Bruylant, Bruxelles, 1971, p. 243 ss..

richiedere una tale miscellanea di professionalità e di esperienze sia la stessa natura della legge, così come si presenta oggi.

Se una simile considerazione portava appunto nel dibattito del 1960 a concludere che ridurre in un unico ramo del sapere la scienza della legislazione non appariva concepibile costituendo così il deterrente per la fondazione stessa di una scienza della legislazione, separata dalla scienza giuridica, oggi non costituisce altro che la logica e consequenziale riflessione sulla complessità del law-making process, espressione di grande dinamismo, flessibilità e di massima interdisciplinarietà. La commistione dei saperi sarà perciò valore aggiunto senza peraltro dimenticare la finalità ultima di tale scienza: il perseguimento della certezza del diritto.

8. (segue) Il problema della qualità della legge e sua difficile reductio ad unum.

Non si potrebbe ritenere esaurito l’argomento relativo alla certezza del diritto, se non si affrontasse anche la problematica tutto sommato nuova della qualità della legge, che ad essa si riallaccia.

In linea generale possiamo affermare che tutti gli ordinamenti giuridici si stanno bene o male misurando con la questione relativa al livello qualitativo della legge e la qualità della legge è divenuta essa stessa parametro per la verifica della buona governance applicata nelle singole realtà ordinamentali.

Dire tuttavia esattamente che cosa si debba intendere con l’espressione «qualità della legge» non appare cosa facile, non foss’altro che ciò richiederebbe sintetizzare un complesso di problematiche e soluzioni all’uopo determinate tra di loro differenti, in quanto le stesse, prese singolarmente, rappresenterebbero solo alcuni dei lati della poliedrica figura della qualità della legge187.

Essa, infatti, può significare molte cose: per esempio assicurarsi della buona fattura di una legge, ma anche della sua fattibilità, concetto che a sua volta necessita di essere articolato. Una legge è una buona legge inoltre se bene è stata calata nel sistema normativo esistente; se ha saputo rispondere alle domande sociali che hanno rappresentato il necessario presupposto della legge; se è stata frutto di negoziazione188. Ed anche il momento di verifica della qualità della legge sarà differente a seconda del profilo considerato: potrà essere antecedente l’entrata in vigore della stessa legge, quando la verifica avrà esclusivamente ad oggetto aspetti formali o si limiterà a semplici previsioni (predizioni?) sugli effetti della medesima sulla società (controllo/valutazione ex ante); sarà, invece, successiva quando al contrario implicherà una valutazione effettiva della resa della legge (controllo/valutazione ex post).

La complessità che in buona parte la caratterizza è frutto di quanto si situa in un momento logicamente antecedente alla qualità della legge, ovvero l’atto normativo/legislativo e la realtà in cui il medesimo atto è progettato, formulato ed, infine, prodotto. Come prima cosa, infatti, è opportuno sottolineare come la problematica della qualità della legge, dovendosi

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Per un’analisi dei rapporti tra le varie tecniche legislative, che riflette la complessità del concetto di qualità della legge, si rinvia a G.U. RESCIGNO, Rapporti tra analisi di fattibilità e altre tecniche legislative, in Quaderni

regionali, 1996, p. 495 ss..

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Il collegamento tra la qualità di pregevolezza normativa e la partecipazione dei gruppi di interesse alla normazione è teorizzato da A. RUGGERI, Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, cit., p. 283 ss.. Più in generale sull’argomento si rimanda a E. DE MARCO, La negoziazione legislativa, Cedam, Padova, 1984.

necessariamente ricollegare, al pari della scienza della legislazione, al fenomeno legislativo, “erediti”, se così si può dire, la natura complessa e bifronte della legge, in quanto strumento di

diritto nelle mani della politica. Ed è proprio per tale motivo che la qualità delle legge, da

alcuna dottrina definita peraltro essa stessa un valore, manifesta un legame stretto non solo coi profili giuridici della certezza del diritto, ma anche con quelli più extra-giuridici della ragionevolezza della decisione politica189 rappresentando perciò quel punto di intersezione tra la politica e il diritto, che, a seconda di quale sia l’angolazione dal quale si vuole studiare e giudicare il fenomeno, può divenire oggetto di sindacato giurisdizionale190, in quanto fatto giuridico, o rimanere semplicemente uno spunto per discettazioni politiche.

Le conseguenze di una discussione dottrinale a proposito di quale aspetto della qualità della legge far prevalere sarebbero evidentemente opposte. Tuttavia un dato oggettivo che rileva è il merito da riconoscere a questa nuova branca del sapere di aver permesso l’apertura

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