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Nascita del principio della «certezza del diritto» come elemento fondamentale dello Stato di diritto.

Il principio della «certezza del diritto» nelle esperienze dei due ordinament

1. Nascita del principio della «certezza del diritto» come elemento fondamentale dello Stato di diritto.

Bisogna andare molto indietro nel tempo, fino ad arrivare quasi alle origini del pensiero umano, per scorgere le radici dello «Stato di diritto», dal quale promanano concetti quali il «principio di legalità» e il principio di «certezza del diritto», le cui declinazioni sono facilmente individuabili a loro volta nella nozione di «sicurezza giuridica»1 e di «legittimo affidamento del cittadino»2.

Per primo , infatti, fu Aristotele a teorizzare il primato del «governo delle leggi»3 sul «governo degli uomini»; ricordiamo uno dei più importanti passaggi scritti dal filosofo greco nel suo Politica: «è preferibile, senza dubbio, che governi la legge, più che un qualunque cittadino e, secondo questo stesso ragionamento, anche se è meglio che governino alcuni, costoro bisogna costituirli guardiani delle leggi e subordinati alle leggi»4 (III; 16, 1287a).

1

In F. LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto (1942), Giuffrè, Milano, 1968, p. 47, pare di poter scorgere quanto nella nozione di stato di diritto rientrino i concetti sia di certezza della norma che di sicurezza giuridica.

2

F. MERUSI, L’affidamento del cittadino, Giuffrè, Milano, 1970, p. 3 ss..

3

A dimostrazione della lungimiranza del pensiero aristotelico si rimanda ad un passaggio del Politica: qualsiasi sia la forma di governo di una società, ciò che importa è che i governanti vi esercitino la sovranità «soltanto in quelle materie nelle quali le leggi non possono disporre con precisione per la difficoltà di prevedere con una certa norma generale tutti i casi particolari» (III, 16, 1287°-1282b). Si anticipa, infatti, in Aristotele il problema della limitatezza della legge, intesa come norma generale ed astratta, a configurarsi come unica fonte del diritto, già sostanzialmente confermando la impossibile equivalenza tra legge e diritto.

4

R. LAURENTI (a cura di), ARISTOTELE, Politica, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 23.

Così si è quindi tradotto il principio di legalità nella nostra carta costituzionale del 1948; difatti l’articolo 101, II comma, Cost., nel sancire in particolare la subordinazione dei giudici alla sola legge, non si limita unicamente a declamare l’imparzialità del potere giurisdizionale, soprattutto nei confronti di direttive politiche provenienti dagli ambienti governativi, ma vuole anche garantire una certa vincolatività nei suoi modelli operativi di giudizio. La subordinazione naturalmente non si ha in via esclusiva nel solo rapporto tra i giudici e le leggi, bensì anche nel rapporto tra il Parlamento (e i soggetti più in generale detentori del potere legislativo) e la Pubblica Amministrazione, ed in particolare tra la legge e i prodotti normativi e provvedimentali in senso stretto provenienti dall’amministrazione, sebbene in questo caso le fonti costituzionali che ci possono tornare utili ai fini di una ricognizione di quanto detto siano altre, ovvero gli articoli 13 e ss. (riserva di legge), 97 e 113 Cost. Ma si veda sul punto S. FOIS, Legalità (principio di) (ad vocem), in Enciclopedia del diritto, XXIII, Giuffrè,

Perciò, sin da subito, nacque l’idea di una legge, quale fonte in contrapposizione all’arbitrio: dove c’è legge, non c’è margine di arbitrio. Sarà poi la successiva teorizzazione dello Stato di diritto e di principio di legalità a far emergere la tensione cui è posta la legge nel suo essere allo stesso tempo ratio e voluntas5.

Ma è in particolare con l’inverarsi dello Stato moderno, tra il XVI e il XVII secolo, e con la nascita dei primi Stati nazionali, che farà una timida comparsa lo Stato di diritto, da non intendersi tuttavia come una delle possibili forme di Stato, succedutasi alle forme rispettivamente di Stato assoluto e di Stato di polizia6, e perciò compiuta in ogni suo elemento.

Dello Stato assoluto rifiuterà invero l’idea di un sovrano legibus solutus, ovvero un monarca, che a prescindere dal grado di rispetto che dimostrerà verso la libertà dei propri sudditi, non sarà generalmente il creatore della legge cui i suoi sudditi dovranno obbedire, data l’origine naturale, divina, etica che di volta in volta avrà la legge di riferimento7. Si concorda tuttavia con parte della dottrina che riconosce come alcuni valori dello Stato di diritto, tra i quali la certezza legale e la vittoria della legislazione (ragionevolmente non ancora declinabile in «supremazia della legge») siano comparsi nello stato moderno europeo- continentale come portato dell’assolutismo, piuttosto che del successivo stato borghese liberale, che ne seguirà d’altro canto le orme8.

Milano, 1973, p. 682 ss., il quale ritiene l’articolo 101 Cost. l’unico fondamento costituzionale esplicito del principio de quo.

5

Sostiene che sia ratio prima ancora che voluntas M. MORISI, Attorno alla legalità come principio, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, 1995, p. 44.

6

Questa è la raccomandazione che fa R. BIN, Lo Stato di diritto, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 9.

7

Ricordiamo tuttavia il saggio di M. CORSALE, Certezza del diritto e crisi di legittimità, Giuffrè, Milano, 1979, p. 186 ss., nel quale si afferma come l’idea della certezza del diritto nasca proprio nello Stato assoluto del XVI secolo, ove il concetto di sovranità, da interpretarsi non solo come autonomia verso l’esterno, bensì come fonte di legittimazione esclusiva di tutte le norme interne vigenti, farà sorgere una prima equivalenza tra diritto e legge, intesa come proposizione prescrittiva, autoritativa e perciò l’idea di una certezza del diritto rilevabile come certezza della legge. L’A. afferma a questo proposito: «La problematica della certezza del diritto come certezza di una legge trascendente, astratta e generale in uno stato assoluto…, sovrano e monista sarà dunque una problematica centrata sulla conoscibilità, sulla perspicuità, sulla coerenza, sulla completezza della legge stessa», ivi. I primi assertori di questa teoria tra l’altro saranno i principali teorici dello stato moderno nella sua accezione assolutistica, ovvero Bacone e Hobbes.

8

Ibidem, p. 202. Si vedano le teorie contrattualistiche di Hobbes (Il Leviatano, De cive) e di Rousseau (Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, Il contratto sociale) (ed in parte di Locke, ma si veda la sua posizione a favore dell’irriducibilità dei diritti naturali, in quanto inalienabili perché propri degli esseri umani in quanto tali): questi due filosofi hanno ben interpretato l’evoluzione della società e il suo passaggio dallo stato di natura, ove l’uomo vive in una condizione equiparabile a quella “animale” (homo homini lupus – bellum omnium contra omnes), alla successiva condizione in cui l'uomo, attraverso la stipulazione di un contratto sociale, giunge all'istituzione dello stato, dove i rapporti inter soggettivi cominciano ad essere regolati con leggi e dove regge il timore reciproco. Di Hobbes in particolare si segnala la dibattuta appartenenza alla corrente giusnaturalistica: proprio per segnalare quanto in realtà fosse più avanti rispetto al pensiero classico del giusnaturalismo, avendo teorizzato uno stato civile contrapposto allo stato di natura, si è parlato del filosofo inglese come dell’iniziatore del giusnaturalismo razionalistico moderno (vedi G. PINO, Il positivismo giuridico

Dello Stato di polizia rifiuterà invece l’assistenzialismo, l’atteggiamento paternalistico; ovvero l’idea di uno stato ove società civile e struttura governante tendono ad un avvicinamento finalizzato alla costruzione di un benessere generalizzato per i propri cittadini9.

Lo Stato di diritto è, infatti, più che altro, un modo di pensare l’organizzazione del potere subordinata ad una legge ipotizzata generale ed astratta, che tuttavia ha convissuto per molto tempo con diverse contraddizioni: la società nella quale lo Stato di diritto ebbe modo di realizzarsi manifestò , infatti,, alle origini, un’apertura alle idee rivoluzionarie seguite al proficuo periodo illuminista10, ma visse anche le epoche di restaurazione successive11 che si aprirono, attraverso una serie di concessioni, prime fra tutte la rappresentanza politica e le carte ottroiate, soltanto a pochi strati della società, in particolare al ceto borghese, unico che per parecchi decenni poté contare, insieme alla nobiltà, dei diritti politici, componente fondamentale delle libertà civili e dello Stato di diritto.

Perciò possiamo affermare come lo Stato di diritto12 costituì il frutto di un’evoluzione non del tutto lineare, formalmente teorizzato per la prima volta dal pensiero illuminista e tradottosi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 178913. Saranno quindi le varie soprattutto con le correnti illuministiche di fine ‘700 (Rousseau stesso e Montesquieu). Siamo perciò a metà strada tra il giusnaturalismo e il giuspositivismo, a tal punto che vi è chi ritiene Hobbes il precursore del giuspositivismo, che in chiave moderna troverà la sua massima espressione in Hans Kelsen, nei suoi Lineamenti di dottrina pura del diritto.

Sul concetto di «Stato borghese di diritto»si rimanda a C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, Giuffrè, Milano, 1984, p. 178 ss..

9

Si cfr. ult. op. cit., p. 177.

10

A. BARBERA (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 9-10.

11

Si ricorda a questo proposito come la dottrina tedesca, ma anche quella italiana, del secolo passato abbia dibattuto molto sulla possibilità di classificare «Stati di diritto» i coevi totalitarismi. Ricordiamo a tal proposito la nota discontinuità delle posizioni di C. SCHMITT, rinvenibile nei saggi Nationalsozialismus und Rechtsstaat, in

Juristische Wochenschrift, 1934, p. 17 ss. e Was bedeutet der Streit um den «Rechtsstaat»?, in Zeitschrift für die gesamte Staatswissenschaft, 1935, p. 189 ss..

12

L’espressione «Stato di diritto» sarà tuttavia successiva; essa, infatti, risulta corrispondere alla traduzione dal tedesco di Rechtsstaat, locuzione sorta in Germania all’inizio del XIX secolo per indicare un modello di stato basato sulle «leggi della ragione», in netta contrapposizione allo stato in cui il monarca pretende asseverare la discendenza teologica del proprio potere e di conseguenza delle proprie leggi. Risultano perciò assai evidenti le radici illuministiche. Si cfr. R. BIN, ult. op. cit., p. 25; si veda anche G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992, p. 20 ss., il quale, pur affermando come lo Stato di diritto abbia rappresentato storicamente uno degli elementi essenziali delle concezioni costituzionali liberali, sottolinea la natura di valore indicato da questo concetto, accennando lo stesso solo a una direzione di sviluppo dell’organizzazione dello Stato e, come tale, se ne precisa una sua possibile riconducibilità ad ogni epoca nella quale si sia invertito il rapporto tra il potere e il diritto (lex facit regem al posto di rex facit legem). Per uno studio sull’origine e sul cambio del concetto di Stato di diritto in Germania si veda anche E. W. BÖCKENFORDE, Estudios sobre el Estado de Derecho y la democracia (traduz.), Editorial Trotta, Madrid, 2000, pp. 17-45.

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Diversi sono nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo seguita alla Rivoluzione francese i principi affermati a presidio dello Stato di diritto. Si vedano, in particolare, l’articolo 5: «Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina…»; l’articolo 6: «La Legge è l'espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve quindi essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti»;

manifestazioni della società, e perciò i singoli cambiamenti del contesto ideologico nel quale lo Stato di diritto vivrà e si esprimerà, a dargli ogni volta composizioni e articolazioni differenti. Ma sempre nella certezza dell’assoluta e costante presenza dei suoi elementi irriducibili: il principio di legalità14, la separazione dei poteri, il riconoscimento delle libertà. Non si può pertanto individuare un quadro storico e sociale standard al quale ricondurlo, sebbene la sua massima rappresentazione si collochi nello Stato liberale-borghese di 1800, definito altrimenti «Stato di diritto in senso formale»15.

Lo Stato di diritto seguirà, infatti, il successivo evolversi del proprio contesto costituzionale.

E così si avrà dapprima l’introduzione di costituzioni scritte; in special modo nella loro versione rigida tali costituzioni comporteranno la creazione di un «blocco di costituzionalità», tale da mettere in crisi il precedente modello di supremazia della legge, in cui si era tradotto il principio di legalità. Precursore di questo passaggio è stata la Costituzione nordamericana e le costituzioni che direttamente ad essa si sono aspirate (tra cui quella argentina), ma è soprattutto a partire dai primi decenni del XIX secolo (prima fra tutte l’esperienza della Costituzione austriaca del 1929, tanto a lungo teorizzata da Hans Kelsen) che si avrà l’introduzione di organi veri e propri garanti del rispetto della norma costituzionale. Ad essi in particolare spetterà garantire la forma della fonte costituzionale, nel senso di una sua non revisionabilità con legge, ma anche la sostanza, nel senso che i suoi contenuti non possono essere modificati da una norma di rango inferiore. Tuttavia l’innesto della fonte costituzionale non va in alcun modo a porsi in contraddizione con il tradizionale concetto di Stato di diritto, ciò in quanto le Costituzioni hanno finito con il porre per iscritto le regole della Stato di diritto16. Perciò lo Stato di diritto e il costituzionalismo (moderno) non solo non si contraddicono tra di loro, ma si può tranquillamente affermare come essi siano due fenomeni reciprocamente necessari l’uno all’altro17 (si veda in questo senso l’articolo 16 della ed, infine, l’articolo 16: « Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione».

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Da intendersi sia in senso formale, ovvero come supremazia della legge, in quanto di derivazione parlamentare – e perciò prodotto dell’organo sovrano per antonomasia –, su tutte le altre fonti di diritto, sia in senso sostanziale, in quanto, con la propria forza, delimita il contenuto delle fonti ad essa subordinate e perciò ne circostanzia la discrezionalità (si vedano in generale i vizi di cui possono essere tacciati gli atti amministrativi e disapplicati dal giudice amministrativo, in particolare l’eccesso di potere).

15

R. BIN, ult. op. cit., p. 30 e G. ZAGREBELSKY,ult. op. cit., pp. 20 e 23.

16

G. ZAGREBELSKY,ult. op. cit., p. 39.

17

Ernst-Wolfgang Böckenförde dà una nuova definizione al concetto di legge nello Stato costituzionale. La definisce «l’asse della Costituzione dello Stato di diritto», così come ci riferisce E. DENNINGER, Il luogo della legge, in Nomos, 2/1997, p. 16, il quale parla della legge come della «categoria centrale dello Stato costituzionale democratico, poiché principio democratico e principio dello Stato di diritto in esso sono fusi in una unità inscindibile».

Dichiarazione del 1789): fino a quando avremo una Costituzione18 (sia nella sua affermazione in testi scritti, sia nelle sue manifestazioni come Costituzione vivente, mediante prassi e fonti- fatto, ed invero anche nella sua declinazione giurisprudenziale, intesa cioè come rule of law19) a salvaguardia dei valori fondamentali riconosciuti in una società, lo Stato di diritto non cesserà di esistere. Più critico invece per la sopravvivenza dello Stato di diritto è parso il passaggio dallo Stato liberale all’attuale Stato sociale di diritto20: il concetto di legge ha subito una divaricazione rispetto al modello tradizionale di norma generale ed astratta e ha perso la funzionalità attribuitale in origine verso la società a cui si rivolge; ma si concorda con chi, a fronte di tale crisi, abbia preferito sottolineare, piuttosto che la scomparsa dello Stato di diritto, una sua trasformazione21. Tant’è vero che si comincia a parlare di un nuovo interessamento delle odierne democrazie allo Stato di diritto, alla cultura della legalità, come rappresentazione di ciò che dovrebbero tornare ad essere i nostri regimi politici22.

Facendo qualche passo indietro vediamo come nel 1749 fu Montesquieu, uno dei massimi esponenti del pensiero illuminista, nel suo Lo Spirito delle leggi, ad esporre per la prima volta i principi rivoluzionari dello Stato di diritto23. In particolare descriveva i risultati raggiunti dall’esperienza inglese, che aveva rifiutato l’assolutismo realizzato dalle monarchie dell’Europa continentale e che era stato presente anche in Inghilterra, almeno fino a quando nel 1649 la rivoluzione capitanata da Oliver Cromwell e fiancheggiata dal ceto borghese non rovesciò la monarchia stuarda permettendo così la nascita di una repubblica. Egli fu indubbiamente uno dei primi a professare l’esigenza di una certezza del diritto, ma è già a

18

Perché si possa parlare di costituzione nel senso ora richiamato, bisognerebbe ritrovare quei presupposti ritenuti necessari proprio dall’articolo 16 della Dichiarazione del 1789, ovvero il riconoscimento e la garanzia dei diritti da una parte e la separazione dei poteri dall’altra. Ciò comporta che una buona fetta di costituzioni intese in senso formale, tra le quali quelle sovietiche del XX secolo, non possano ritenersi incluse in queste nostre considerazioni. Si veda a questo proposito G. DE VERGOTTINI, Diritto costituzionale comparato, vol. II, Cedam, Padova, 2004, pp. 10 ss., laddove si afferma che negli stati sovietici è prevalsa una concezione di costituzione molto lontana da quella liberale – occidentale, ovvero intesa come «strumento per il consolidamento del potere socialista e come veicolo informativo ed educativo».

19

Ma sulle differenze tra legalità e rule of law si rimanda alle teorie di S. FOIS, Riserva di legge, Giuffrè, Milano, 1988, p. 8 ss.. Un excursus storico sull’evoluzione del principio inglese di rule of law, conclusasi con una convergenza tra il sistema giuridico continentale e quello britannico, si rimanda a G. ZAGREBELSKY,ult. op. cit., p. 24 ss..

20

Uno dei primi studiosi che previde la crisi del diritto collegata alla crisi sociale fu A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, edizione a cura di N. Matteucci, Utet, Torino, 1968, passim, ma spec. p. 781 ss..

21

Così si vuole interpretare il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale: non come un momento di crisi, bensì come un momento di trasformazione. In questo senso si cfr. E. FORSTHOFF, Stato di diritto in trasformazione, Giuffrè, Milano, 1973, passim.

22

Così M. FIORAVANTI, Principio di legalità e stato di diritto, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, 1995, pp. 25-26.

23

partire da Hobbes, esponente massimo – insieme a Bentham24 –, del positivismo giuridico inglese25, che inizia a farsi strada un’idea di securitas26, da intendersi come libertà civile, in contrapposizione con il caos derivante dall’idea di libertà assoluta27. Siamo naturalmente ancora di fronte all’idea di uno Stato assoluto, dispotico, ove chi governa lo fa certo dei suoi poteri illimitati, ovvero poteri senza vincoli di alcuna sorta; i sovrani che reggono tali governi non possono, per definizione, considerarsi soggetti alla propria legge. Tuttavia quando ci si sofferma sulla frase: «E’ necessario all’essenza della legge che i cittadini siano a conoscenza di …cosa dice la legge stessa. Infatti chi non ha mai saputo verso di chi o a che cosa sia tenuto, non può obbedire, ed è come se non fosse tenuto»28, comprendiamo come non solo nella filosofia di Hobbes si attesti un buon grado di apertura ai caratteri tipici dello Stato di diritto, ma anche come si debba riconoscere nella sua dottrina l’idea della conoscibilità della legge stessa, diritto che ciascun cittadino ha proprio in nome di quella sicurezza più volte dallo stesso autore richiamata. Perciò la certezza del diritto è riconosciuta anche nel suo aspetto più pratico, ovvero di necessaria conoscenza e conoscibilità di essa per poterne sanzionare una sua inosservanza, principio divenuto molto caro al nostro ordinamento solo in epoche recenti, in quanto è solo del 1988 la pronuncia nella quale si sono riconosciuti, per

24

Per una panoramica sulla scuola positivista inglese si rimanda a M. A. CATTANEO, Il positivismo giuridico inglese. Hobbes, Bentham, Austin, Giuffrè, Milano, 1962, passim. Un’ulteriore disamina monografica ci è offerta da U. SCARPELLI, Cos’è il positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano, 1965, passim. Bentham, in particolare, indicherà la «sicurezza» come scopo principale a cui devono tendere le leggi, in J. BENTHAM, Oeuvres de J. Bentham, jurisconsulte anglais , vol. I, Louis Hauman, Bruxelles, 1829-1830, p. 83.

25

Per una ricostruzione in chiave dubitativa della sua affiliazione al positivismo giuridico si rimanda alla nota 8 di questo capitolo.

26

A questo proposito si rimanda a quanto affermato da M. CORSALE, op. cit., pp. 196- 197, nel suo riferirsi alla filosofia politica di Hobbes: «Qual è l’esigenza che spinge gli individui a uscire dallo stato di natura per passare in quello civile, se non il bisogno di garantire il diritto soggettivo naturale fondamentale, quello cioè alla sopravvivenza fisica? E non è questo un bisogno di certezza intesa come sicurezza? Quale è, correlativamente, il compito fondamentale del sovrano, se non quello di garantire la sicurezza dei cittadini? Quale è la funzione della norma se non quella di introdurre un criterio certo di distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, e quindi

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