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Crisi della legge statale nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale (dalle Teorie di Forsthoff in avanti): proliferazione della legge e perdita dei suoi caratter

Il principio della «certezza del diritto» nelle esperienze dei due ordinament

4. Crisi della legge statale nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale (dalle Teorie di Forsthoff in avanti): proliferazione della legge e perdita dei suoi caratter

originari.

Da molti anni è unanimemente avvertita l’evoluzione di cui la legge è stata protagonista, evoluzione che ne ha comportato una trasformazione, e perciò la perdita dei suoi caratteri originari, così come erano stati teorizzati all’indomani dello svolgersi dell’“età della ragione”.

La legge è cambiata ma non motu proprio: la legge è cambiata, perché è cambiata la concezione di Stato nella quale essa opera e perché, più o meno consequenzialmente, si è modificata la società che la legge stessa, attraverso i suoi precetti, dovrebbe riflettere.

Il primo ad accorgersene in realtà fu Alexis De Tocqueville, l’antesignano del pensiero liberal-democratico per eccellenza che, nel suo trattato La Democrazia in America, scorge, osservando la società americana, gli effetti negativi derivanti dall’estensione delle libertà a tutti gli individui, scorge quindi in definitiva i «mali della democrazia».

In particolare De Tocqueville denunciò la contrapposizione tra libertà ed eguaglianza98, ma soprattutto denunciò la nascita in America del “dispotismo moderno”, in contrapposizione a quello, oramai esauritosi, dell’Ancien Régime. Per capire quanto il visconte di Toqueville in realtà fosse avanti rispetto alle teorie continentali successive sulla crisi dello Stato sociale, ne citeremo un passaggio tratto dalla medesima opera: «Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un'infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l'unico agente, l'unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?... L’uguaglianza ha preparato gli uomini a tutto questo: li ha disposti a sopportarlo e spesso anche a considerarlo come un vantaggio99».

Questa breve sintesi testimonia molto bene l’inverarsi di una trasformazione

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A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., p. 585 ss..

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dell’atteggiamento dello Stato verso i consociati: quando il suo obiettivo era la libertà dei propri cittadini, esso ne garantiva l’esistenza e lo svolgimento delle loro attività attraverso l’astensione, nel privilegio perciò dei più facoltosi. Divenuto prioritario, invece, l’esperimento dell’eguaglianza, intesa come livellamento, sebbene solo in via teorica, dei concittadini, lo Stato, di necessità, acquista una forza attiva tesa a irradiare di sé e dei propri precetti ogni singolo campo della società100.

Ma chi più, a nostro parere, ha saputo denunciare bene la trasformazione in Stato sociale degli Stati di derivazione liberale, cogliendone il momento storico – che risiede negli anni successivi la fine della seconda guerra mondiale101 –, le connessioni con il modificarsi dello strumento generalmente utilizzato per l’esercizio del potere (la legge) e gli effetti sulla società civile e i settori che compongono la società fu Ernst Forsthoff.

Ma prima di analizzare i punti salienti e maggiormente rappresentativi del suo pensiero, si vuole precisare come l’utilizzo del termine «crisi» generalmente impiegato per definire i cambiamenti, in questo caso della funzione della legge e della natura dello Stato così come esso appare nel XX secolo, risulti fuorviante. Si ritiene , infatti, di accettare i requisiti, posti da autorevole dottrina, ritenuti necessari per poter parlare per l’appunto di «crisi»102.

Secondo questa dottrina, infatti, devono sussistere gli elementi della imprevedibilità, della durata limitata ed, infine, della loro incidenza sul funzionamento del sistema. Considerati tali requisiti essenziali, è assolutamente evidente come venga a mancarne uno: la durata limitata nel tempo. Perciò non è più possibile parlare di «crisi», anche perché, se ne fossimo ancora dentro, non potremmo neanche analizzarne il fenomeno, dato che la comprensione di una crisi richiede l’analisi della fase che la precede, della fase in cui essa si manifesta e della fase successiva, la più importante, dal momento che è proprio in essa che si può riscontrare l’impatto della crisi sul sistema103.

Pertanto o si accetta l’utilizzo del termine in modo atecnico104 o si può fare una scelta di campo che porti così a parlare, piuttosto che di crisi dello Stato/legge, di una loro

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Per maggiori chiarimenti circa l’evoluzione che ha avuto lo Stato a partire dalla nascita dei primi partiti/movimenti di massa si rimanda a L. DUGUIT, Lo Stato interventista, in A. BARBERA-C. FARALLI-M. PANARARI (a cura di), Le trasformazioni dello Stato. Antologia di scritti, Giappichelli, Torino, 2003, p. 291 ss.; M. CORSALE, op. cit., p. 228 ss..

101

In questo periodo, infatti, possono collocarsi le prime formalizzazioni generalizzate in testi costituzionali della natura sociale degli Stati democratici contemporanei.

102

Si cfr. G. PASQUINO, Crisi (ad vocem), in N. BOBBIO-N. MATTEUCCI-G. PASQUINO (a cura di), Dizionario di

politica, Utet, Torino, 2004, p. 246 ss..

103

Ibidem, p. 247.

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Come dallo stesso Pasquino accettato, quando si debbano indicare con questo termine «mutamenti di grande portata, che necessitano di lunghi periodi per compiersi», ivi. Del resto, per essere precisi, anche Forsthoff non mancherà di fare uso di tale locuzione riferendola allo Stato di diritto, E. FORSTHOFF, op. cit., p. 34.

trasformazione, da qui l’“azzeccatissima” definizione di Forsthoff, che, come già sopra anticipato, definisce lo stato successivo alla seconda guerra mondiale uno «Stato di diritto in trasformazione».

Il merito di questa formula risiede sicuramente nel fatto che qui non si afferma che lo Stato sociale abbia voluto sostituire lo Stato di diritto, ma che ne abbia voluto semplicemente cambiare i contenuti105, anche perché lo Stato di diritto costituisce una componente connaturata alla stessa nozione di stato, come si è cercato di dimostrare sopra, e la sua scomparsa determinerebbe disastri ben maggiori di quelli risultanti dall’innesto in esso dello Stato sociale.

Ernst Forsthoff, in particolare, ha fatto richiamo alla situazione in cui si viene a trovare la legge dopo il 1945: essa, infatti, smette le vesti di «potere costitutivo ed organizzatore dello Stato di diritto»106 perdendo le sue caratteristiche di regola fissa e generale. La legge si “amministrativizza”107, in quanto si snatura il suo compito che ora consiste nel predisporre strumenti limitati per la definizione di una situazione limitata.

Il radicarsi della componente sociale nello Stato di diritto comporta in effetti l’ingeneramento di una certo grado di insicurezza giuridica, determinata dalla consequenziale proliferazione delle leggi, che peraltro fanno sempre più spesso uso di termini altamente tecnici. Ciò perché lo Stato diviene regolatore di ogni settore della società, anche di quelli precedentemente lasciati o alla libera iniziativa dei privati o direttamente in mano alla burocrazia specializzata.

Per far fronte a tale situazione di tensione tra lo Stato di diritto e lo Stato sociale è giusto che siano gli stessi responsabili politici a preservare un certo equilibrio, ma anche i giuristi108 e i giudici. Tuttavia non si tratta di un compito facile dato che i politici, in particolare i componenti del Governo, oramai totalmente assorbiti dalle richieste e dalle pretese dello Stato sociale, giorno dopo giorno sono sempre più affaccendati in questioni legate alla “bassa” routine dell’ordinaria amministrazione, piuttosto che alle grandi questioni di governo e sono i

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La possibilità di “coabitazione” nello stesso stato dello Stato di diritto e dello Stato sociale è del resto testimoniata dall’articolo 20, I comma, del Grundgesetz, laddove si afferma che;« [l]a Repubblica Federale di Germania è uno Stato federale democratico e sociale». Lo stesso Forsthoff dirà: «[l]o stato di diritto …è determinato, dal punto di vista contenutistico, …dal riconoscimento dello stato sociale….Stato di diritto e stato sociale….non si sono fusi sul piano costituzionale….si congiungono solo nel collegamento tra costituzione, legislazione ed amministrazione», ibidem, p. 60.

106

Ibidem, p. 20.

107

Si parla a tal proposito dell’avvenuto passaggio dallo stato legislativo allo stato amministrativo, ibidem, p. 23 e p. 49. Parla del resto di « “contrattualizzazione” dei contenuti della legge» G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 44.

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Sulla figura del giurista si tornerà più avanti, per analizzare le modalità del suo “scalzamento” dalle strutture ministeriali, per lasciar posto a impiegati preparati tecnicamente, E. FORSTHOFF, op. cit., p. 73 ss.. Sarà lo stesso A. a denunciare la sopraffazione del diritto ad opera della tecnica, ivi, p. 185.

primi a ricorrere in modo del tutto erroneo allo strumento della legge109, data la loro grande influenza sui Parlamenti (ciò vale in particolar modo per la forma di governo parlamentare) e perciò arrecando danno allo Stato di diritto.

Lo stesso parlamentare moderno, se vuole mettersi alla pari con le richieste della società e non vuole soccombere rispetto alle decisioni prese in sede governativa, dovrà essere quantomeno specializzato in alcuni settori tecnici, rischiando, in caso contrario, di non sapere rispondere alle domande, tante, di una società incapace, per volontà o per forza di cose, di autoregolamentarsi. Egli – ma medesimo discorso è da fare anche per i soggetti dell’esecutivo – dovrà inoltre far fronte alla necessità di cambiare la propria visione dell’atto creativo di diritto legislativo, che si dovrà uniformare alle nuove esigenze di una società in perenne e rapida evoluzione, divenendo giocoforza «l’esito di un processo politico nel quale operano numerosi soggetti sociali particolari (gruppi di pressione, sindacati, partiti)»110.

Abbiamo fatto in precedenza riferimento a come il polimorfismo che caratterizza la certezza del diritto faccia sì che siano interrelazionati ad essa molti aspetti, tra cui quello sociologico. Ciò vale più in generale per lo Stato di diritto: infatti la trasformazione che ha comportato la sussistenza di una situazione in cui vi è tanto, troppo stato costituisce la diretta conseguenza del non avere una società ben articolata e autosufficiente111. Ciò ha permesso l’intrecciarsi dello stato con la società civile, in maniera molto simile a quanto è avvenuto nello Stato di polizia, una sorta di prototipo del successivo Stato sociale. E, aggiungeremmo noi, sulla base delle considerazioni che nascono dall’impostazione che è stata data dal nostro testo costituzionale allo Stato sociale 112, un’ulteriore causa di questo assistenzialismo, a volte portato agli estremi, si situa nella disposizione che prevede l’obbligo da parte dello Stato di ricercare un continuo livellamento tra i cittadini garantendo pari opportunità a ciascun individuo, al fine di cercare di non limitare di fatto la libertà e l’uguaglianza degli stessi cittadini (art. 3, II comma, Cost.), soprattutto tenendo conto che essa è stata interpretata come disposizione non meramente programmatica, bensì direttamente vincolante per il legislatore (si confronti, in tale senso, la sentenza n. 1/1956 della Corte costituzionale).

Le leggi-provvedimento costituiscono il “prodotto-tipico” dello Stato sociale. L’aspetto che più di tutti consente di notare una rottura rispetto al classico assetto dello Stato di diritto è

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La legge, fino ad allora «fattore di ordine» diverrà «espressione di un disordine, al quale essa cerca, al più, di porre rimedi ex post factum», G. ZAGREBELSKY,ult. op. cit., p. 45.

110

Ibidem, p. 44. Passaggio immediatamente successivo a questa constatazione è il riconoscimento di come «il risultato di questo processo a più voci [sia] per sua natura segnato dai caratteri della occasionalità», ivi.

111

E. FORSTHOFF, op. cit., p. 94.

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Ma che invero ritroviamo nella stessa Costituzione tedesca di cui, in quest’opera, Ernst Forsthoff ha dimostrato di essere un ottimo interprete (si veda l’art. 3, II comma, GG).

rappresentato dalla violazione del principio della separazione dei poteri (rectius delle funzioni), in quanto vi è una vera e propria ingerenza da parte del potere legislativo nell’autonomia decisionale del potere esecutivo113. Ma non per questo la legge così nata risulta inammissibile114; chiaro è che anche per questa specifica circostanza, onde evitare abusi che possano sfociare in una lesione dei diritti fondamentali, è opportuno garantire gli opportuni controlli sia politici che giurisdizionali, ed in particolare di competenza dell’organo di giustizia costituzionale.

La legge-provvedimento115 ha poi un altro elemento che rompe con il passato: così come appare costituita, essa lascia ampli spazi alla discrezionalità del legislatore, alla stregua di un provvedimento amministrativo, laddove «lo scopo di un provvedimento è collocato al primo posto, e si tratta perciò di scegliere i mezzi adatti al raggiungimento di questo scopo»116.

In merito, invece, all’altro problema che nasce dall’avere “troppo Stato”, ovvero la proliferazione delle leggi117, si ritiene di poterlo far rientrare all’interno dei profili problematici della qualità delle leggi, ovvero un problema quantitativo che si riflette sulla qualità, se per qualità, anche se questo è un tema che riprenderemo, si intende la realizzazione dello scopo fondamentale della legge: farsi portatore del diritto.

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Lasciamo per il momento sullo sfondo la questione legata alla rapida fagogitazione da parte degli organi propriamente di governo del potere legislativo attribuito costituzionalmente, quantomeno nelle ipotesi ordinarie, all’organo parlamentare. Anomalia che si riflette oggi giorno nelle esperienze di molti sistemi politici, a prescindere dalla forma di governo in essi operante (parlamentare – presidenziale – semipresidenziale).

114

Ibidem, pp. 115-116. Per l’Italia si veda, inter alia, T. MARTINES, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1994, p. 63.

115

Si confronti anche, per l’ordinamento italiano, A. PREDIERI, Pianificazione e costituzione, Edizioni di Comunità, Milano, 1963, p. 273.

116

E. FORSTHOFF, op. cit., p. 125: la definizione che Ernst Forshtoff dà di leggi-provvedimento è: «azioni in forma legislativa il cui scopo ha una priorità nei confronti dei mezzi usati per la sua realizzazione». L’avvento nell’ordinamento giuridico delle democrazie moderne di queste leggi-provvedimento spiega il perché del modificarsi anche delle modalità di controllo delle Corti costituzionali, sempre più apparentemente interessate al vaglio del merito del “provvedimento legislativo” mediante l’introduzione del c.d. principio di ragionevolezza, in quanto non ci si limita soltanto a verificare la conformità rispetto al testo costituzionale, ma si controlla anche se i mezzi impiegati per il raggiungimento dello scopo siano essi stessi conformi a costituzione, in quanto rispondenti al canone della ragionevolezza. Così anche E. FORSTHOFF, op.cit., p. 126 ss., il quale spiega la necessità di rafforzare il controllo dei tribunali costituzionali, quasi paragonandoli a dei tribunali amministrativi, proprio per bilanciare questo allontanamento dallo Stato di diritto, causato dal frequente utilizzo delle leggi- provvedimento. Da qui il passaggio dallo Stato di diritto allo «Stato di giustizia», ivi, p. 245.

117

Secondo M. CORSALE, op.cit., p. 232, «l’ipertrofia della legge è in re ipsa, nel rapporto stato-società quale si è venuto instaurando nel passaggio dallo stato di diritto allo stato sociale, e non può essere eliminata con meri accorgimenti tecnico-legislativi». Opinione dalla quale si ritiene di dissentire: se è un dato di fatto che la società in uno stato sociale ha bisogno di una presenza del pubblico più forte e più invasiva, ciò non significa che dobbiamo rassegnarci ad un sistema delle fonti e ad una legge in particolare che è arrivata oramai ad un “punto di non ritorno”. Forse chi più di altri intuì la pericolosità dell’ipertrofia della legge – a parte lo stesso Francesco Carnelutti, che denunciò le scarse attitudini di legislatori soverchiati dalla grande mole di lavoro alla quale devono dare seguito – fu proprio Montesquieu, quando affermò che le «leggi inutili indeboliscono quelle necessarie» (Lo spirito delle leggi, cit., libro XXIX, capitolo XXVI, p. 943), considerato che riesce difficile non pensare che nella maggioranza dei casi l’utilizzo dello strumento legislativo si riveli inutile in quanto ben può essere soppiantato con qualcosa di altro e magari di più rapido ed efficiente.

Sia l’eccessiva moltitudine di leggi, sia l’amministrativizzazione di esse sono frutto di una regolamentazione forsennata di ogni cosa, ed entrambe d’altro canto provocano una spaccatura con la nozione di Stato di diritto, nel senso classico.

Ma vi è una differenza nell’analisi di questi due fenomeni: la legge-provvedimento non è temibile per la scarsa comprensione. Essa, infatti, potrebbe risultare molto più chiara di tante altre leggi, magari generali ed astratte. Il problema è un altro: la perdita dei caratteri tipici della norma ha provocato una degenerazione dello strumento legislativo118. E’ bene tuttavia dire che, ferma restando la questione dell’involuzione della legge come espressione di norme generale ed astratte, è accettata oramai da diversi decenni l’idea che la produzione di norme non sia di competenza esclusiva delle leggi. E’, infatti, riconosciuta natura normativa anche ai regolamenti, fonti di rango secondario di provenienza governativa; da ciò ne è derivato un ampio dibattito in merito alla questione se considerare ancora sussistente il carattere della generalità e dell’astrattezza alle norme giuridiche119. Da ciò il problema legato al mancato rispetto di un altro dogma liberale: la separazione dei poteri. Il divario tra fonti legislative ed atti amministrativi nell’ordinamento italiano si è assottigliato a tal punto da riconoscere che gran parte della produzione normativa italiana è rilasciata a organi legislativi (Parlamento e Governo) che adottano o leggi più somiglianti ad atti amministrativi (leggi-provvedimento), o atti amministrativi più somiglianti a leggi (regolamenti governativi).

Ciò che invece va più direttamente a colpire la qualità della legge, nel senso ora accettato di comprensibilità da parte del destinatario della norma della fattispecie penale che disciplina il suo caso concreto, è l’assoluto espandersi e moltiplicarsi delle leggi. Già nel 1930 Francesco Carnelutti richiamava l’attenzione sulla «quantità della leggi» come problema e come riflesso della crisi della legge120, anche in particolare se guardato non solo in termini di quantità eccessiva di leggi prodotte, ma anche in termini di quantità eccessiva di articoli di cui si compone una legge. Naturalmente riconosceva il carattere fisiologico di questa crescita

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Si veda T. MARTINES, op. cit., p. 63, il quale afferma: «l’ammissibilità della leggi-provvedimento non incide… sul carattere della generalità ed astrattezza proprio della norma giuridica…bensì, piuttosto, sulla concezione che la legge abbia un suo contenuto tipico (la norma generale ed astratta), che, nello Stato contemporaneo, appare oramai ampiamente superata».

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Nella dottrina italiana sono contrari oramai a riconoscere generalità ed astrattezza alla norma giuridica A. PIZZORUSSO, Delle fonti del diritto, in A. SCIALOJA-G. BRANCA (a cura di), Commentario del Codice civile, Zanichelli, Bologna-Roma, 1977, p. 16; A. RUGGERI, Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, Giuffrè, Milano, 1977, p. 26 ss; A. A. CERVATI, Art. 70, in G. BRANCA (a cura di),

Commentario della Costituzione, Zanichelli, Bologna-Roma, 1985, p. 38 ss; chi, invece, mantiene una posizione di assoluta fermezza circa la persistenza dei caratteri di generalità ed astrattezza nella norma giuridica è V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Volume II, Cedam, Padova, 1984, p. 19 ss.; M. MAZZIOTTI DI CELSO, Norma giuridica (ad vocem), in Enciclopedia giuridica, vol. XXXI, Treccani, Roma, 1990, p. 9 ss..

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come «conseguenza inevitabile della civiltà»121, ma nella sua constatazione quasi lineare e ovvia si nascondeva una denuncia: la scarsa durata delle leggi, che a ogni piè sospinto vengono sostituite se va bene, modificate nella gran parte dei casi122.

Anche il problema quantitativo può essere sintomo della perdita del valore normativo di una legge123, in quanto, se la legge appare non più destinata a regolare una pluralità di fattispecie concrete per una ragionevole durata di tempo124, tale da poter ritenere una legge sufficientemente “longeva”, ci troveremo in partenza di fronte a leggi limitate, prive di capacità di astrazione125.

Inoltre l’inflazione normativa che ne deriva comporta anche effetti molto negativi in termini di efficienza e di credibilità dell’organo che produce diritto e, più in particolare, legifera. Lo stesso Parlamento non è più il garante unico degli interessi in esso rappresentati: si parla a tal proposito di una totale “fungibilità” tra Parlamento e Governo, come sede di ascolto delle richieste provenienti dalla società. Spesso peraltro si avverte una tensione più forte a ricorrere a quella che viene ritenuta la reale sede decisionale: il Governo (a conferma dell’erosione della centralità non solo dell’organo parlamentare, ma anche di quello che era il suo prodotto più tipico e la forma sublime in cui si formalizzava il diritto statale: la legge formale126).

Quanto ora affermato ci porta a concludere con uma semplice constatazione di un dato della realtà: quella che paradossalmente doveva essere l’era di uno Stato regolatore, che cura tutti i mali della società, punto di riferimento per ciascun consociato che ad esso potrà sempre fare ritorno nei momenti di bisogno, ha provocato un allontanamento del cittadino medio dalla

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