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Alle origini dei Subaltern Studies: Ranajit Guha e il movimento naxalita

Alla sclerotizzazione e l'eclissi in Italia degli studi sulla subalternità corrispose un processo di riscoperta e riattualizzazione da parte di un gruppo di studiosi indiani che avviò un lento processo di adattamento16 delle categorie gramsciane al contesto dell'India postcoloniale.

Il fautore di questo lavoro fu in primo luogo Ranajit Guha, il capostipite di quello che diventerà poi famoso in tutto il mondo come la corrente di studio dei subaltern studies, che si muoverà appunto intorno alla rivista “Subaltern Studies” e successivamente al Centre for Studies in Social Sciences di Calcutta.

Già nel primo dei dodici numeri della rivista, edito nel 1982, nella pur striminzita prefazione viene indicato esplicitamente il riferimento teorico al lavoro di Antonio Gramsci17. Il motivo di quest'interessamento è facilmente intuibile già nella presentazione del progetto editoriale (Guha 2002b, 31-42) che rappresenta una sorta di

16 Se è vero che proprio i “cultural studies” articolarono per primi la necessità di un aggiornamento e adattamento delle analisi di Gramsci che “devono essere delicatamente dis-seppellite

dal proprio contesto storico di riferimento e trapiantate con grande cura e pazienza in un nuovo terreno”

(Hall 2006, 188), tuttavia fu proprio tra gli “allievi” del fondatore della scuola di Birmingham che venne progressivamente a mancare l'attenzione verso la complessa dialettica tra fattori di classe, fattori storici e fattori regionali che caratterizzarono le riflessioni di Antonio Gramsci.

17 “Non possiamo sperare naturalmente che la portata dei contributi raccolti in questo volume

possa anche solo remotamente eguagliare il progetto in sei punti immaginato da Antonio Gramsci nelle sue “note sulla storia di Italia” (Guha 2002a, 29), dove l'autore mostra chiaramente con questa

affermazione come il suo riferimento agli studi gramsciani verta essenzialmente nella selezione tradotta in inglese dei Quaderni a cura di Hoaere e Nowell Smith (1971).

30 vero e proprio manifesto programmatico in 16 punti18 del nascente Subaltern Studies collective.

L'obiettivo esplicito è una rilettura della storia dell'India oltre la storiografia dominante e le narrazioni, gli archivi e le categorie dei “dominanti”: Guha evidenzia infatti il perdurare della rimozione delle masse dallo sguardo storico elitista, incentrato dapprima nell'opera di civilizzazione dei colonialisti inglesi e successivamente nell'ottica nazionalista della nascente elitè al potere dell'India indipendente.

Nel decostruire le narrazioni dominanti Guha utilizza esplicitamente Gramsci: “quello

che entrambe queste interpretazioni condividono è una concezione storico-politica scolastica ed accademica, per cui è reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza o che corrisponde alla teoria astratta. Tuttavia, come ha detto Antonio Gramsci, le cui parole ho appena citato[Q328, ndr], nella storia non c'è posto per la spontaneità pura. Ed è esattamente qui che sbagliano coloro che non riconoscono il segno della coscienza nei movimenti apparentemente disorganizzati delle masse” (Guha

2008, 88-89).

Dopo aver articolato i limiti di questi approcci, nel punto 8 esplicita quel dualismo tra politica dell'elite e politica del popolo che rappresenterà il cuore dell'approccio subalterno, almeno nella prima parte dei subaltern studies: “Ciò che è lasciato

inevitabilmente fuori da questa storiografia “non storica” è la politica del popolo. Accanto allo spazio della politica delle elité, è esistito, durante tutto il periodo coloniale, un altro spazio della politica indiana, nel quale gli attori principali non erano i gruppi dominanti della società indigena o le autorità locali, ma le classi e i gruppi subalterni che costituivano la grande massa della popolazione lavoratrice e gli strati intermedi . Si trattava di uno spazio autonomo, la cui esistenza non era effetto della politica d'elite e che non dipendeva da essa” (Guha 2002, 35).

Il punto dirimente di quest' approccio ruota evidentemente sulla presenza, nella dimensione della subalternità, di uno spazio autonomo di espressione.

Guha, a differenza di Gramsci, deve spingere in avanti l'apparente paradosso dell'autonomia nella subalternità: qui infatti non c’è spazio per l’equilibrio precario di

18 A conferma dell'influenza del maoismo nel lavoro di Guha, il numero delle tesi probabilmente tendeva al riecheggiare simbolicamente la risoluzione in 16 punti del IX plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista dell'agosto del 1996 con la quale Mao, cioè quella che, a partire dallo slogan divenuto poi celebre “bombardare il quartier generale”, inaugurò la Rivoluzione Culturale.

31 Gramsci e ancor meno per il conculcamento di Togliatti: non c’è in India, o almeno ancora non c’era, una classe operaia alla quale demandare la ricomposizione politica e la guida dei processi di liberazione ed emancipazione sociale.

C’era invece, e per molti versi c’è ancora, quel “perpetuo fermento” delle masse contadine che accompagnarono prima, durante e dopo le lotte per l’indipendenza dal dominio coloniale britannico: ma l’ineludibile tappa intermedia della liberazione nazionale, come ostinatamente ribadito dalla retorica tanto liberale quanto marxista19, lasciava “ai margini della storia” questo fermento popolare incapace di incastonarsi nella presunta linearità storica della modernizzazione della nazione indiana.

Nel mentre le elitè nazionaliste prendevano il posto dei coloni britannici e strutturavano lo stato indipendente, le violenze e rivolte contadini non accennavano a scomparire. Ranajit Guha e la prima stagione dei subaltern studies si proponevano appunto di rovesciare lo sguardo storiografico dominante, non solo per riscrivere una storia dal basso alternativa alla storiografia elitista, ma anche di rintracciare la dimensione politica delle lotte dei subalterni, ponendosi quindi anche oltre l’ "history from below" della tradizione storiografica marxista britannica.

L'ipotesi di fondo da cui prendono le mosse i Subaltern Studies è il tentativo di inquadrare questi movimenti e le rivolte contadine non come fiammate episodiche e disgregate di ribellismo pre-politico ma piuttosto come unica arma e forma di espressione politica a disposizione delle masse contadine per cercare di contrastare la loro condizione di subalternità e di miseria che perdurava anche all'indomani dell'indipendenza nazionale.

Come racconta lo stesso Guha (2009, 35), lo snodo storico intorno al quale si aprivano le ipotesi e gli interrogativi da cui prendono le mosse i subaltern studies fu proprio una delle stagioni più intense di ribellione popolare che prese successivamente il nome di movimento naxalita20.

Al carattere estremamente violento delle rivolte naxalite faceva da contraltare la durissima repressione governativa e paramilitare, al fianco del quale si schierarono anche i due più consistenti partiti comunisti allora al potere nel Bengala occidentale (il

19 In verità, a fronte della vulgata tradizionale del marxismo-leninismo, Marx in riferimento alla condizione di paesi “arretrati” come la Russia, aveva espressamente negato l'imprescindibilità del passaggio intermedio dello sviluppo delle forze capitalistiche (Marx 1971).

20 Dal nome del villaggio Naxalbari, nello Stato del Bengala Occidentale, dove nel maggio del 1967 scoppiò una rivolta contadina contro i latifondisti locali.

32 PCM filosovietico e il CPM filocinese) contro gli “eccessi rivoluzionari degli estremisti” : eppure le rivolte naxalite, alle quali prendevano parte quasi esclusivamente i braccianti e i contadini più poveri appartenenti alle caste degli intoccabili, non furono mai del tutto soffocate e schiacciate.

1.4. I subalterni e il paradigma politico della rivolta contadina

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