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I subalterni e il paradigma politico della rivolta contadina Ma allora come definire e circoscrivere la categoria di subalterni?

Guha, nelle note di accompagnamento al saggio introduttivo del primo volume definisce il campo per sottrazione: “i gruppi e gli elementi sociali a cui questa categoria

[subalterni] fa riferimento, rappresentano la differenza demografica tra la totalità della popolazione indiana e tutti quelli che sono stati descritti come elité” (Guha 2002b, 41-

42).

Nel rendersi conto della estrema vaghezza di tale definizione, nel punto 10 lo studioso indiano esplicita come “l'ideologia che operava nello spazio della mobilitazione

subalterna, presa nel suo insieme, rifletteva l'eterogeneità della composizione sociale di quello spazio […]. Tuttavia, a dispetto di questa eterogeneità, uno degli elementi costati era un'idea di resistenza al dominio dell'elité” (ivi, 36-37).

Composizione tecnica e composizione politica qui sembrano confondersi, una con/fusione che presterà il fianco negli anni successivi alla parabola culturalista che caratterizzerà l'evoluzione successiva dei subaltern studies.

In Guha invece resta fermo un approccio di classe che cerca di scavare nelle dinamiche e nelle insorgenze sociali dei subalterni, nella consapevolezza gramsciana del “valore

inestimabile di ogni traccia di iniziativa autonoma”(Q2282) : “siamo ovviamente d'accordo con chi sostiene [Gramsci, ndr] che la subordinazione non può essere compresa se non come uno dei termini costitutivi, assieme al dominio, di una relazione binaria secondo la quale <i gruppi subalterni sono sempre soggetti all'attività dei gruppi dominanti, anche se essi si ribellano e insorgono>” (Guha 2002a, 30).

Subalternità e autonomia/resistenza sono quindi i due poli dialettici di riferimento sui quali si muove l'azione politica delle classi subalterne all'interno di una “composizione

organica del dominio e della subordinazione” (Guha 2009, 36) che porterà

successivamente lo studioso indiano alla definizione del contesto postcoloniale indiano come spazio di “dominio senza egemonia” (Guha 1998).

33 Per rintracciare autonomia e politicità delle rivolte contadine e disarticolare l'interpretazione dominante del ribellismo primitivistico e prepolitico delle stesse, Guha si impegna nella stesura di uno dei saggi più importanti sui quali si formeranno successivamente gli studiosi dei subaltern studies e il cui lavoro di preparazione probabilmente fornirà lo stimolo intellettuale per il lancio della collana.

Si tratta del celebre “Elementary Aspects of Peasant Insurgency in colonial India” (Guha 2008) nel quale, come si può dedurre dal riferimento esplicito nel titolo al lavoro di Durkheim sulle forme elementari della vita religiosa (Durkeim 1963), Guha si propone di rintracciare e individuare alcuni elementi di base comuni e costanti nelle differenti rivolte che hanno costellato la storia indiana.

In aperta polemica con l' “eurocentrismo” delle tesi hobsbawmiane sulla necessità propedeutica dei movimenti sociali di una coscienza politica e di una direzione consapevole, Guha non solo riprende la critica di Gramsci all'approccio scolastico e accademico per il quale “reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per

cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza” (Q332), ma si propone di individuare quella grammatica delle rivolte contadine che si

muove fuori e oltre il linguaggio tradizionale della politica occidentale.

Alle interpretazioni dominanti sull'esplosione cieca ed improvvisa della violenza dei rivoltosi, Ranajit Guha controbatte attraverso un lavoro particolareggiato di “scavo selettivo” degli indizi storiografici tra i rapporti delle autorità coloniali, uniche fonti archivistiche disponibili per un lavoro di ricostruzione storica, sulle circa 110 rivolte censite dallo studioso nei 117 anni che vanno dalla rivolta contro Deby Sinha (1783) alla fine della sollevazione dirsaita (1900).

Attraverso questo scavo selettivo, Guha ci segnala come “l'insurrezione affermava il

suo carattere politico proprio in virtù del suo procedere per negazione e inversione. Nel suo tentativo di invertire la posizione del dominante e del dominato nella struttura del potere, (…) essa era forse meno primitiva di questo spesso si ritiene (…). La maggior parte delle volte non mancano né direzione né obiettivi e neppure qualche rudimento di programma, benchè nessuno comparabile per maturità e complessità ai movimenti più avanzati del XX secolo” (Guha 2008, 94).

Ancora una volta Guha ritrova nelle analisi sui subalterni di Gramsci uno strumento di supporto alle sue tesi: “E' chiaro che ci troviamo dinanzi a un fenomeno che non ha

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descritto, usando le parole di Gramsci, come <molteplicità di elementi di direzione consapevole in questi movimenti, ma nessuno di essi è predominante> [Q328]. Il che naturalmente è molto diverso dallo stigmatizzare queste lotte dall'orientamento fluido come esplosioni sub-politiche della impetuosità delle masse, senza forma e direzione”

(ivi, 94).

Nel tentativo di decostruire le narrazioni sulla mancanza di una organizzazione e sul carattere impulsivo e irrazionale delle rivolte, Guha individua una traccia della consapevolezza dei contadini nel lento e progressivo processo di sedimentazione della rivolta: delegazioni, petizioni, consultazioni popolari, manifestazioni pacifiche che anticiparono le sollevazioni, impugnando le armi solo come ultima risorsa quando ogni

altro mezzo aveva fallito (ivi, 93).

Dinanzi all'equiparazione hobsbawmiana delle rivolte come forma di banditismo sociale, equiparazione sempre presente nelle fonti storiche di documentazione istituzionale e ufficiale, Guha mette in luce la contrapposizione tra il carattere pubblico, aperto, inclusivo e collettivo della rivolta contadina e le caratteristiche di segretezza delle azioni criminose, così come edivenzia la distanza tra la relazione distruttiva con la proprietà privata delle rivolte e la logica appropriativa che muove il banditismo sociale. Malgrado le autorità poliziesche insistano nel rintracciare una dimensione verticale e organizzata delle rivolte, è la dimensione orizzontale, comunitaria, per molti versi anche tribale, che Guha identifica come strumento di propagazione ed espansione delle rivolte, attraverso un'originale analisi della funzione delle “voci” e delle “dicerie”. Guha, pur senza citarlo, sembra riprendere per molti aspetti gli studi di Marc Bloch sulla capacità di consolidamento nei frangenti più intensi ed estemi della vita sociale di credenze collettive e false notizie che, “nell' innovarsi prodigioso della tradizione orale, madre

antica delle leggende e dei miti” (Bloch 1994), diventano il principale strumento di

propaganda e diffusione della rivolta popolare in quanto “davano voce anonima ai

timori e alle speranze ampiamente condivisi” (Arnold 2008, 128).

1.5. Società civile e società politica: Partha Chatterjee e il rovesciamento della legge

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