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I PERCORSI DI LOTTA NELL’ORTO D’EUROPA: IL SOC DI ALMERIA

4.1.3. La fine del miracolo di Almerìa?

Se l’ortocultura intensiva almeriense si è retta per alcuni decenni sull’utilizzo smisurato di “grande quantità di acqua, di manodopera e di differenti sostanze chimiche, sopra

un suolo artificiale, il tutto coperto e protetto dalla plastica delle serre” (Becerra e

Bravo 2010, 4) , negli ultimi anni è emerso con sempre più insistenza il progressivo deperimento dei fattori naturali che favorirono inizialmente lo sviluppo di questa sorta di “agricoltura mineraria” (Onorati e Colombo 2009).

L’estrazione forzata e l’utilizzo intensivo delle risorse e dei beni comuni si scontra infatti con il limite naturale degli stessi: non c’è solo la mancanza di ulteriori terreni per l’espansione della serricoltura ma l’ipersfruttamento artificiale che forza all’estremo il ciclo naturale della terra porta inevitabilmente anche al suo isterilimento progressivo, da cui discende anche la sempre più diffusa proliferazione di piaghe e virus nelle piante e il conseguente aumento costante delle spese per il trattamento e la cura.

Il territorio assorbe con sempre più difficoltà il peso ambientale dell’attività agricola intensiva: ogni anno gli invernaderos producono una montagna di rifiuti – 1.000.000 di tonnellate di residui organici, 30.000 tonnellate di materiali plastici, 6000 tonnellate di residui vari - il cui alto livello di tossicità, dovuto al contatto con le sostanze chimiche utilizzate durante i diversi trattamenti, rende difficoltoso il loro smaltimento.

Come la terra, anche l’acqua non è una risorsa naturale infinita: l’utilizzo selvaggio e intensivo delle risorse idriche – ogni ettaro di serra necessita annualmente di circa 5.500 m3 di acqua - ha prodotto una preoccupante diminuzione dei livelli freatici, provocando una salinizzazione dei pozzi in prossimità della costa e costringendo gli agricoltori ad uno scavo sempre più in profondità dei pozzi, nel tentativo di sfruttare letteralmente “fino in fondo” le riserve idriche; a questo bisogna aggiungere il livello di contaminazione delle falde acquifere dovuto al riversamento di residui tossici organici e inorganici.

104 Se alcune innovazioni tecnologiche, come ad esempio le serre idroponiche di ultima generazione, hanno parzialmente rallentato questa tendenza al consumo del territorio, poco o nulla invece hanno potuto gli agricoltori nei confronti della concorrenza selvaggia insita nelle logiche dominanti del libero mercato globale.

Essendo l’agricoltura degli invernaderos uno dei settori agricoli meno sovvenzionati e protetti dell’economia agricola spagnola, i cui rendimenti quindi dipendono essenzialmente dalla libera oscillazione del valore dei singoli prodotti sul mercato internazionale, i proprietari degli invernaderos sono rimasti disarmati dinanzi al progressivo abbattimento dei prezzi, in quanto l’allargamento dei terreni coltivati e i miglioramenti tecnologici continuano a determinare un aumento dell’offerta maggiore dell’aumento possibile della domanda, al netto delle speculazioni finanziarie a cui sono sottoposti i prodotti agricoli (Galdeano Gómez 1996, 261).

Questa tendenza provoca una perdita di redditività a causa anche del fatto che i prezzi dei prodotti agricoli diminuiscono in modo inversamente proporzionale all’aumento dei prezzi dei consumi intermedi e dei fattori di produzione (semi, insetticidi, fertilizzanti, petrolio, elettricità, costi di trasporto, ecc…).

Possiamo verificare questa tendenza sulla base dei dati relativi alla produzione ortofrutticola del 2011: a fronte dell’ulteriore aumento dell’estensione delle serre almeriensi, con 11.230 ettari destinati alla produzione del pomodoro, 8.040 ettari di peperone, 7.200 di cetriolo, 4.850 di zucchine, 2064 di melanzane, malgrado l’aumento medio del 10% del volume commercializzato, i produttori almeriensi hanno registrato un crollo del fatturato annuo del 20/30% circa rispetto la stagione precedente, “una

tendenza drammatica che porterà progressivamente l’orticultura spagnola a scomparire” (Hortyfruta 2011).

Se per molti anni l’innovazione tecnologica ha permesso di aggirare la perdita della redditività attraverso l’aumento della produttività, così come la diversificazione colturale ha permesso agli agricoltori di mettersi parzialmente al riparo dalle periodiche “crisi dei prezzi” dei singoli prodotti agricoli, tuttavia con il passare degli anni l’abbattimento del costo del lavoro è progressivamente rimasta l’unica strategia in mano agli agricoltori per fronteggiare la diminuzione del margine di profitto.

Anche questo fattore però incontra un limite naturale nella capacità di garantire una qualche forma di riproduzione della forza-lavoro, seppur poco al di sopra della soglia minima di sopravvivenza.

105 Come in altri settori produttivi, la delocalizzazione della produzione si è dunque affermata come strategia vincente.

Se è vero che già in passato diversi accordi commerciali avevano progressivamente aperto al mercato europeo i prodotti agricoli provenienti dai paesi del Maghreb, contro i quali gli stessi agricoltori almeriensi si erano ripetutamente mobilitati in diverse occasioni come ad esempio le proteste di piazza nel novembre del 2002 e nel giugno del 2005, o il blocco al porto di Almerìa dei carichi di pomodori marocchini pochi giorni prima delle violenze razziste di El Ejido nel 2000, tuttavia l’accordo commerciale ratificato dal parlamento europeo nella seduta del 15 febbraio del 2012 rappresenta da questo punto di vista un importante punto di svolta.

L’accordo e il conseguente aumento quantitativo delle quote di immissione rientrano infatti all’interno di un più vasto progetto strategico di riorganizzazione e delocalizzazione del settore agroalimentare europeo.

La nascita e lo sviluppo di un immenso distretto agroindustriale nel sud del Paese, circa 20.000 ettari di serre localizzati nel cuore della provincia di Agadir, pianificato e gestito da multinazionali e capitali stranieri, in particolare della Grande Distribuzione Organizzata francese41, con il sostegno del governo marocchino attraverso il Piano Nazionale “Marocco Verde” che prevede il raddoppio delle produzioni ortofrutticole marocchine nel giro di 5 anni, è molto più che una minaccia per la tenuta del miracolo di Almeria42.

Esattamente come gli agricoltori di El Ejido hanno in precedenza gestito e determinato quel ciclo di sostituzione etnica del bracciantato migrante a discapito dei lavoratori marocchini, oggi sono gli stessi agricoltori almeriensi vittima di un ciclo di sostituzione etnica organizzato e pianificato dalle multinazionali del settore.

A conferma però della fragilità delle teorie di interpretazione dei flussi migratori attraverso l’approccio funzionalista e idraulico del “push and pull”, le migrazioni dal

41 Infatti “le maggiori aziende produttrici ortofrutticole marocchine sono società miste con partner

francesi e la maggior parte dell’export verso l’Europa è filtrato dal loro mercato di Perpignan” (Battistel

2012, 8).

42

Se in Europa nel 2011 sono state immesse nel mercato 260.000 tonnellate di pomodori provenienti del Marocco (a fronte dall’esportazione di 470.000 tonnellate di pomodoro prodotte nella provincia di Almeria), tuttavia si tratta di una tendenza destinata a crescere e diffondersi rispetto anche a molti altri prodotti ortofrutticoli, in primis agrumi e ortaggi in generale, con il progressivo venir meno di barriere e dazi protezionistici: l’accordo commerciale con il Marocco infatti stabilisce l’abbattimento del 55% dei dazi sui prodotti agricoli marocchini in entrata nella UE.

106 Marocco e dagli altri paesi africani hanno continuato a crescere, anche dentro lo scenario di crisi economica del distretto agroindustriale di Almerìa e più in generale della Spagna.

La progressiva mancanza di sbocchi occupazionali negli invernaderos (ma anche negli altri comparti tradizionalmente più “aperti” al lavoro sommerso degli irregolari, come ad esempio il comparto edilizio in Spagna entrato in crisi all’indomani dello scoppio della bolla speculativa immobiliare), non si è tradotta nell’esaurimento dei flussi migratori nell’area: resta da capire quanto l’addensamento dei processi migratori in queste aree di acuta crisi economica si possa tradurre nell’irruzione della “parte dei senza parte” (Ranciere 2007), cioè nella mobilitazione degli “ultimi” contro la loro invisibilizzazione giuridica e sociale.

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