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Dai più ricchi ai più poveri: la parabola socialmente discendente di Castel Volturno

I PERCORSI DI LOTTA NELL’AREA RURURBANA DI CASTEL VOLTURNO: IL MOVIMENTO DEI MIGRANTI DI CASERTA

3.1 L’analisi del contesto locale

3.1.2. Dai più ricchi ai più poveri: la parabola socialmente discendente di Castel Volturno

L’area di Castel Volturno è sempre stata circondata da terre fertili, contrassegnata da risorse naturalistiche e paesaggistiche di alto valore ambientale, con una forte vocazione agricola strategica durante il corso degli ultimi due millenni per l’approvvigionamento alimentare delle due grandi città limitrofe di Roma e Napoli.

61 Se il periodo fascista diede un forte impulso all’agricoltura locale attraverso la bonifica e l’appoderamento delle terre paludose più prospicienti il mare, ben presto la progressiva motorizzazione di massa durante i “gloriosi trent’anni” permise l’accesso all’area anche per lo svago e il tempo libero delle classi sociali urbane più agiate del napoletano: la bellezza paesaggistica delle incontaminate dune di sabbia e la fittissima pineta sul mare di Castel Volturno divennero sempre più importanti attrattive turistiche estive, che stimolarono ben presto una “politica di investimenti privati sul territorio per

la realizzazione e gestione di servizi e strutture volte ad una valorizzazione turistica del territorio di Castel Volturno”, come recitavano i piani di sviluppo ministeriali

dell’epoca (Cassa del Mezzogiorno 1967).

I Signori del mattone, nel mentre continuavano a mettere le “mani sulla città”, individuarono il litorale come nuova area di espansione dei loro progetti speculativi: il litorale domizio fu ricoperto nel giro di pochi anni da un’immensa colata di cemento. Nel 1962, nel giro di pochi mesi, sorsero dal nulla e senza alcuna autorizzazione, 8 torri di 12 piani costruite sul terreno demaniale dinanzi al mare, il cuore di quel Villaggio Coppola Pinetamare che prende il nome dalla famiglia di costruttori della limitrofa Casal di Principe e che alcuni osservatori hanno definito il più grande agglomerato

urbano abusivo d'Occidente (Saviano 2008, 156).

Tra le dune e i pini, si iniziarono ad edificare agglomerati urbani in corrispondenza di quelle che fino ad allora erano zone rurali quasi completamente disabitate: Ischitella, Lago Patria, Pescopagano, un’immensa schiera di seconde case estive per le famiglie benestanti del napoletano sorse dal nulla ed arrivò nei primi anni settanta ad ospitare anche duecentomila villeggianti, senza alcuna regolamentazione edilizia ed urbanistica, senza autorizzazioni, licenze, allacci ufficiali alle utenze, con il plauso generale di una classe politica locale, guidata dall’allora ministro Giacinto Bosco, complice e connivente.

Solo con la rivolta popolare del maggio del 1969, quando per tre giorni i castellani scesero in strada, occuparono il comune e bloccarono la statale e le strade del paese conquistando le prime pagine dei giornali nazionali, si riuscì a incrinare “il blocco di

potere del cemento” e denunciare come, con la valorizzazione turistica del litorale, agli

abitanti del luogo fu precluso qualsiasi accesso libero al mare e soprattutto, nel mentre si alzavano veri e propri grattaceli, hotel di lusso e villaggi turistici, la stragrande

62 maggioranza degli abitanti del luogo continuava a vivere nei tuguri del centro cittadino senza acqua corrente ed elettricità25.

Ma l'insaziabile voracità degli speculatori immobiliari determinò una progressiva e asfissiante cementificazione selvaggia del litorale, riproducendo lo stesso degrado e caos urbano dal quale si cercava di rifuggire: il progressivo degrado dell’area e il deprezzamento del valore degli immobili, subirono un’ulteriore e decisiva svolta con la promulgazione dei provvedimenti governativi di requisizione delle case per i terremotati delle due crisi bradisismiche di Pozzuoli e del terremoto in Irpinia del 1980.

Dal 1978 al 1988, nel solo Villaggio Coppola furono ospitate oltre 5000 persone e altre 20.000 trovarono alloggio tra Baia Verde, Baia Domizia e gli altri complessi turistici del litorale.

Le requisizioni accelerarono e, in qualche modo, esasperarono l’integrazione dell’area nella conurbazione metropolitana di Napoli: il trasferimento forzato degli abitanti dei quartieri popolari di Napoli venne vissuto dai protagonisti come una deportazione dai propri luoghi e spazi di vita, un malessere che si riversò ben presto nello sfregio, nello scadimento e nel saccheggio di case e luoghi ritenuti estranei, se non ostili.

“I nuovi residenti hanno portato con sé i problemi sconosciuti per una società contadina. Hanno manifestato subito un malessere metropolitano, frutto di altri bisogni e di altre esperienze, al quale si è aggiunto il disagio dovuto alle inadeguate condizioni ambientali” (Luise 2001, 148).

La retorica sull’ “invasione di contrabbandieri, ladri, prostitute e criminali” inizia già allora, baricentrata però non sui migranti e i clandestini, ma sui terremotati napoletani. Nella seconda metà degli anni ottanta, il rientro dei senza-casa nelle proprie abitazioni corrisponde con l’arrivo sul litorale dei migranti.

Si tratta dei primi pionieri che arrivano in Italia, ancor prima della promulgazione degli iniziali provvedimenti di gestione e controllo dei flussi migratori26 che accompagneranno il riposizionamento latitudinale dei confini della “civiltà” da Berlino al mar Mediterraneo: un insediamento storico che quindi anticipa e in un certo modo relativizza e decostruisce i dispositivi governamentali di inclusione differenziale

25 Per una ricostruzione della rivolta di Castel Volturno e della cementificazione selvaggia degli anni sessanta, vedi De Jaco (1972).

26 E’ bene ricordare come prima dell’entrata in vigore della legge n.943 del 30.12.1986 e soprattutto della legge n.39 del 28 febbraio 1990, la cosiddetta Legge Martelli, non esisteva alcuna forma di limitazione all’ingresso sul suolo italiano di cittadini extracomunitari.

63 incardinati nella successiva “coincidenza nell’esperienza italiana, tra «immigrazione» e

«immigrazione irregolare»” (Sciortino 2006, 1033).

Sono le “teste di ponte”, etichettati all'epoca come “vu cumprà” perché pubblicamente visibili nel ruolo terminale del commercio ambulante dell'industria sommersa del “falso”, dove “l'area napoletana già rappresentava una roccaforte per questo specifico

autoimpiego di rifugio” (Iori e Mottura 1990, 403), ma altrettanto intensamente

impegnati nell'avvicendamento molto più “invisibile” del bracciantato locale nelle attività stagionali di raccolta agricola nelle aree limitrofe.

Il centro dell’attività agricola della zona è chiaramente più spostato verso l’interno, in quelle aree dove il consumo del suolo a danno della superficie agricola è stato meno accentuato nel corso degli ultimi decenni27: con l'esaurirsi anche del ciclo di sostituzione di genere, fondato sul reclutamento di una manodopera stagionale femminile nelle migrazioni interne di breve raggio dalle aree rurali più disagiate, la consuetudine del mercato delle braccia nelle piazze principali dei borghi rurali trovò ulteriore slancio.

Nell'area domizia, con la scoperta del cosiddetto “oro rosso”, cioè la crescente redditività della produzione di pomodoro, nei mesi estivi della raccolta si iniziano così ad addensare migliaia di migranti, senza alcuna corrispondenza con il fabbisogno reale di forza-lavoro.

L'estrema esiguità delle giornate lavorative comportava da una parte l'intensificazione soggettiva dei ritmi del lavoro a cottimo e dall'altra la compressione delle spese di sostentamento: si finisce quindi per dormire il più delle volte per terra, in sistemazioni precarie e autocostruite con cartoni e altri materiali poveri, nei pressi dei luoghi di reclutamento.

E' il caso soprattutto di Villa Literno, più nello specifico del quadrivio all'ingresso del paese dove termina la Strada Provinciale “Via delle Dune” di collegamento con Castel Volturno, chiamato comunemente il “tunno degli schiavi”, in quanto nodo nevralgico del caporalato. Per molto tempo, “l'importanza di Villa Literno dal punto di vista del

marcato del lavoro agricolo non consiste tanto nella sua capacità di assorbire mano

27 Alcuni studi negli anni settanta (Manzi 1974) già evidenziavano la discrasia tra i diversi comuni dell'area del Basso Volturno, dove al consumo del suolo della fascia costiera domiziana corrispondeva una tenuta della tradizione e della vocazione agricola delle fasce più interne.

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d'opera, quanto nel fatto che rappresenta un grande centro di smistamento di forza lavoro per l'intera area” (Pugliese 1997, 26).

In corrispondenza del “tunno degli schiavi”, ogni estate, una improvvisata e autogestita ristrutturazione rimetteva in piedi una vera e propria baraccopoli: parliamo del "ghetto

di Villa Literno", diventato famoso nell'agosto del 1989 dopo l'assassinio di Jerry

Maslo, un richiedente asilo in fuga dal regime razzista di Pretoria finito anch’egli a raccogliere pomodori a Villa Literno.

L'assassinio per mano di un gruppo di giovani balordi locali scosse l'opinione pubblica nazionale “come un velo che si squarcia su di uno scenario che mostra le condizioni

spaventose in cui sono costretti a lavorare e vivere le migliaia di immigrati impegnati nella raccolta dei pomodori” (Sciortino 2003, 360).

Malgrado la sua notorietà anche internazionale, il ghetto di Villa Literno, la bidonville rurale più strutturata ed estesa che si è avuta fino ad oggi in Europa, con i suoi oltre duemila abitanti assiepati in una distesa di baracche di fortuna, senza corrente elettrica e con un'unica fontana d'acqua potabile a disposizione, rimase in piedi per molti anni, fino all'incendio doloso al termine della stagione della raccolta del 1994, incendio che segnò simbolicamente il passaggio dalla stagionalità alla semi-stanzialità.

Lo sgombero del ghetto di Villa Literno, infatti, piuttosto che allontanare definitivamente i migranti dalla piana, contribuì ad accelerare il progressivo processo di sedentarizzazione del bracciantato migrante.

I numeri del censimento 2001 (Istat 2001) ci aiutano a comprendere come l’incidenza dell’offerta abitativa abbia svolto un ruolo centrale non solo nella concentrazione spaziale dei migranti nell’area ma anche nella ricollocazione dell’epicentro da Villa Literno a Castelvolturno. Se infatti le 3.179 famiglie residenti ufficialmente a Villa Literno potevano contare su un patrimonio immobiliare di 3.521 unità abitative, a Castelvolturno nello stesso anno ai 6.611 nuclei familiari corrispondevano invece 24.711 abitazioni.

Malgrado l'impegno praticamente inesistente degli enti locali sul terreno dell'accoglienza, se si esclude l'apertura da parte dell'arcidiocesi locale del centro di prima accoglienza Fernandez nel 1996 e l'intensa attività dell'ex-sindaco comunista Luise nel “controllare e murare ogni cascinale abbandonato che potesse diventare un

tetto per spacciatori, prostitute e sbandati” (Luise 2001, 185), il bisogno dei migranti di

65 turistiche fallite e abbandonate. Ma ben presto gli stessi proprietari di alloggi si resero conto che i migranti potevano rappresentare l’unica soluzione per valorizzare il proprio patrimonio immobiliare, estorcendo canoni d'affitto particolarmente esorbitanti rispetto al prezzo di mercato, canoni che a loro volta i migranti abbattevano attraverso l'impressionante moltiplicazione dei posti letto all'interno di ogni singolo vano.

3.1.3. La Soweto italiana: statistiche e ricognizioni sulla presenza migrante nell'area

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