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Chatterjee dunque lascia intendere come la sua distinzione tra società civile/società politica risulti in un certo senso come terreno di sintesi tra la distinzione foucaultiana cittadini/popolazione e il dualismo gramsciano elité/subalterni.

E' uno schema questo che presenta diverse analogie con le riflessioni filosofiche di Jacques Rancierè sulla politica intesa come “parte dei senza parte”, allorquando “il

popolo si identifica con il tutto della comunità in nome del torto arrecatogli dagli altri elementi della comunità. Eppure è grazie all’esistenza di questa frazione dei senza parte, di questo niente che è tutto, che la comunità esiste come comunità politica, ovvero come comunità divisa sulla base di un litigio fondamentale (Rancière 2007, 31),

ma anche con le riflessioni negriane sulla “moltitudine dei poveri” (Hardt e Negri 2009, 50-66).

Tuttavia il punto originale del lavoro di Chatterjee è il suo sforzo continuo di immersione delle sue ipotesi teoriche all'interno di quel marasma vivente che è l'India

42 postcoloniale, ed in particolare il suo lavoro di “esplorazione” nei bassifondi della società alla ricerca delle pratiche specifiche di riappropriazione degli spazi di vita da parte dei dispossessati e dei subalterni, come terreno autonomo di espressione della società politica.

“Nel mio libro ‘Oltre la cittadinanza: la politica dei governati’, ho descritto la forma della regolazione governamentale di questi gruppi di popolazione, i venditori di strada, gli occupanti abusivi di case e altri la cui dimora o sussistenza si avvicinano ai margini della legalità, considerandoli parte della società politica.

Nella società politica le persone non sono trattate dallo stato come veri e propri cittadini titolari di diritti e appartenenti alla società civile propriamente costituita. Piuttosto, essi sono visti come parte di gruppi particolari di popolazione con determinate caratteristiche analizzate statisticamente ed empiricamente stabilite. Essi sono oggetto di particolari politiche governamentali. Poiché negoziare con molti di questi gruppi implica il riconoscimento tacito di diverse pratiche illegali, le agenzie governamentali trattano spesso questi casi come eccezioni, che giustificano sulla base di circostanze speciali contemplate al fine di non compromettere la struttura delle regole e dei principi generali. Quindi, agli occupanti abusivi di case potranno anche essere concessi l’acqua corrente o il collegamento alla rete elettrica, ma sempre su delle basi eccezionali, cosicché essi non possano essere considerati assieme agli utenti regolari aventi un titolo legale sulla loro proprietà. Oppure ai venditori di strada sarà permesso di commerciare in condizioni peculiari, distinguendoli dai negozi che fanno affari regolari rispettando le leggi e pagando le tasse. Tutto questo rende le pretese della gente della società politica una questione che richiede una costante negoziazione politica, i cui risultati non sono mai né sicuri né permanenti. Le loro prerogative, anche una volta riconosciute, quasi mai diventano diritti sanzionati legalmente” (Chatterjee

2008, 214-215).

La caratteristica continuamente ribadita da Gramsci della frammentazione e disgregazione dei subalterni è qui ulteriormente accentuata da una strategia governamentale tesa a spezzettare, per diminuirne l'impatto sociale, le istanze e le mobilitazioni sociali, che a loro volta però individuano e rivendicano la propria condizione come eccezionalità da sottrarre alla regolazione giuridica statuale.

“Quando lo stato riconosce tali richieste, si trova costretto a farlo non per via di una semplice applicazione delle regole amministrative, bensì prendendo una decisione

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politica e dichiarando lo stato d’eccezione. La risposta governamentale alle rivendicazioni della società politica, quindi, è irriducibilmente politica piuttosto che meramente amministrativa” (ivi, 219).

Nell'eccezione schmitthiana, si realizza dunque una vera e propria riappropriazione dei diritti formalmente riconosciuti ma materialmente negati, a volte anche attraverso un

“ingannare onestamente il legislatore” (Zincone 1999) da parte di agenzie

governamentali o degli apparati periferici dello stato alla ricerca di “un compromesso

continuamente oscillante tra i valori normativi della modernità e l'affermazione morale delle richieste popolari” (Chatterjee 2004, 54).

Chatterjee, nel descrivere meticolosamente queste pratiche di “politica popolare”, intende evidenziare il loro carattere non di sacche residuali di agitazionismo comunitario premoderno ma piuttosto come la risultante dello scontro tra queste soggettività subalterne e le strategie postmoderne di governamentalizzazione dello stato che a suo dire “riguarda la vita politica di tre quarti dell'umanità” (ivi, 19), escludendo evidentemente i paesi e le democrazie occidentali.

In questa perimetrazione geografica si avverte però una sorta di rovesciamento del rapporto manicheo del discorso coloniale di fanoniana memoria, nel quale a volte sembrano ricadere diversi autori dei postcolonial studies.

Attraverso questo lavoro di ricerca ci proponiamo di rompere questa sorta di

“provincializzazione dell'India”, per riprendere e rovesciare provocatoriamente la

famosa espressione di Dipesh Chakrabarty (2004), cercando di rintracciarne l'espressione di queste forme specifiche di “politica popolare” anche nelle periferie del vecchio continente, ed in particolare in quel meridione da cui prese le mosse l'analisi di Antonio Gramsci: riportare a casa Gramsci dunque, per cercare di leggere i percorsi e le pratiche di lotte della società politica dei subalterni che si pongono oggi nel sud Italia ben oltre l' esautorazione e la “decomposizione” delle forme tradizionali della partecipazione politica.

Ci sembrano infatti del tutto evidenti le analogie che intercorrono tra le pratiche di lotta e di resistenza dei venditori ambulanti di Calcutta, degli abitanti delle baraccopoli indiane con le lotte “postcoloniali” del movimento dei disoccupati organizzati di Napoli, degli occupanti di case, dei comitati contro le discariche in Campania, insorgenze che rispondono con maggior aderenza agli schemi della “politica popolare” indiana di

44 Chatterjee piuttosto che alle classificazioni e alle analisi su vecchi e nuovi movimenti sociali occidentali.

Abbiamo però scelto di concentrarci intorno alle esperienze di lotta di un ben definito segmento sociale, cioè il bracciantato migrante nei contesti rurali del sud Europa, perché riteniamo che, nella frantumazione dei confini e delle forme della cittadinanza e della democrazia occidentale, le loro biografie e i loro corpi ci riconsegnano forse con ancor maggior nitidezza le caratteristiche “postmoderne” della subalternità.

Insomma, dopo quasi un secolo dalle riflessioni di Gramsci sui gruppi subalterni, è ancora lì, nelle campagne del mezzogiorno, tra le schiene curve dei braccianti, che bisogna partire per rintracciare quelle gramasciane “tracce di iniziativa autonoma dal

valore inestimabile” (Q2284) di una subalternità dei poveri che non è “più confinata alle origini storiche o ai limiti geografici della produzione capitalista, ma è al suo cuore” (Hardt e Negri 2009, 65).

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