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I CRITERI METODICI DI ANALISI E COMPARAZIONE DELLE LOTTE

7.2. Attivismo sindacale: il Soc di Almeria

Se il peso gracile ed evanescente dell’associazionismo rivendicativo dei migranti in Italia (Ambrosini 2001) ha indubbiamente contribuito a schiacciare le analisi sulla dimensione caritatevole dello stesso, tuttavia questa prospettiva rischia di sottovalutare e mortificare il protagonismo sociale dei migranti, relegati a meri fruitori di servizi, assistenza e benevolenza all’interno di un campo d’azione nel quale gli attori in gioco

154 sono da una parte i fautori locali delle politiche repressive e dall’altro i sostenitori delle politiche d’accoglienza.

In generale negli studi sul modello mediterraneo delle migrazioni, quest’interpretazione risulta ancor più accentuata: gli studi e le ricerche sul campo sulle condizioni dei migranti nel mezzogiorno hanno spesso evidenziato le difficoltà o addirittura l’impossibilità di implementare processi di organizzazione e sindacalizzazione dei migranti coinvolti nell’agricoltura meridionale (Pugliese 2002; Mottura e Leonardi 2002).

Così come le poche ricerche sui processi di organizzazione e di lotta dei migranti in Italia hanno baricentrato l’analisi esclusivamente sui percorsi di mobilitazione e di sindacalizzazione dei migranti nei contesti industriali o metropolitani del nord italia (Mantovan 2007; Sciortino 2003).

Il dibattito scientifico per certi versi “insegue” l’evidente propensione dei sindacati italiani verso la copertura delle fasce del lavoro più garantito che si riflette infatti anche nell’universo del lavoro migrante, al punto da registrare paradossalmente un maggior livello di tutela nei confronti delle figure più stabili e protette, e l’indifferenza sostanziale nei confronti di quelle soggettività che necessiterebbero invece di tutele e coperture sindacali: “la scarsa discriminazione retributiva degli immigrati

regolarmente occupati si può spiegare anche con la loro elevata sindacalizzazione. Nel 2004 Cgil, Cisl e Uil dichiarano di avere tra gli iscritti quasi 400 mila stranieri: considerando i lavoratori dipendenti regolari, sarebbe un tasso di iscrizione intorno al 40%, ben superiore a quello degli italiani occupati nel settore privato. L’occupazione irregolare invece penalizza duramente gli immigrati che vi sono inseriti” (Renyeri

2007, 25).

Gli alti tassi di sindacalizzazione del lavoro migrante ci delineano uno scenario di integrazione nella società civile delle figure del lavoro migrante più garantito, sul quale sarebbe interessante un lavoro di analisi a partire dall’ipotesi di un rispecchiamento della assenza di mobilità verticale per i migranti anche all’interno delle strutture e delle gerarchie sindacali.

Ma in questa sede abbiamo privilegiato l’attenzione sulla società politica e non sulla società civile, nel cui mezzo probabilmente si situa l’esperienza del Sindacato Obreros de Campo: l’effervescenza e la specificità rurale del sindacato andaluso, il suo carattere estremamente combattivo e militante, pone infatti tale soggettività sul terreno della

155 ricerca di una qualche forma di sindacalizzazione, di supporto e difesa di questa particolare “underclass” rurale.

E’ già un considerevole passo in avanti rispetto al desolante quadro sindacale italiano, ma la matrice tradizionale di intervento vertenziale del S.o.c. gli pregiudica però la capacità di “aggredire” nella sostanza i dispositivi governamentali di controllo e di imbrigliamento della forza-lavoro migrante.

La comparazione con il caso spagnolo ci ha permesso di cogliere come i limiti o addirittura la presunta impossibilità di costruzione di percorsi di sindacalizzazione del bracciantato migrante non siano assoluti ma il prodotto di una determinante soggettiva: non sono i presupposti oggettivi, ma le condizioni soggettive delle realtà sindacali organizzate italiane che non hanno permesso e non permettono di articolare un percorso di sindacalizzazione del bracciantato migrante nelle campagne meridionali.

In un certo senso alcuni richiami di Fanon ancor oggi appaiono di estrema attualità: “le

masse rurali, disprezzate dai partiti politici, continuano ad essere tenute in disparte. Ci sarà, certo, un sindacato dei lavoratori agricoli, ma questa creazione si accontenta di rispondere alla necessità formale di presentare un fronte unito. I responsabili sindacali che han fatto pratica nel quadro delle formazioni sindacali metropolitane non sanno organizzare le masse rurali. Hanno perso ogni contatto con il ceto contadino e si preoccupano in primo luogo del reclutamento dei metallurgici, degli scaricatori di porto, degli impiegati” (Fanon 2007, 72)

Al processo più generale di indebolimento e burocratizzazione dei percorsi sindacali tradizionali, alla mancanza di volontà di intervenire incisivamente nei processi di razzializzazione della forza-lavoro, si affianca infatti anche il progressivo abbandono delle campagne da parte dei sindacati confederali in Italia, o meglio l’abbandono anche nei contesti rurali delle fasce lavorative meno garantite: lo scioglimento nel 1984 della Federbraccianti può essere da questo punto di vista letto come uno spartiacque che segna non tanto il disimpegno sindacale, ma il rovesciamento di prospettiva.

L’assemblea del 31 agosto 2008 indetta dalla Flai-CGIL a Caserta, così come l’incontro il 4 maggio 2010 a Battipaglia dopo lo sgombero del “ghetto” di San Nicola Varco (una bidonville che ospitava circa 800 braccianti marocchini nella piana del Sele) sono state particolarmente indicative da questo punto di vista: al di là della retorica solidaristica dei vertici sindacali, la stragrande maggioranza dei delegati e degli iscritti intervenuti, erano proprietari e piccoli produttori che rivendicavano maggiori sussidi comunitari e

156 che spiegavano, a volte anche con toni velatamente razzisti, l’impossibilità di garantire un alloggio e un contratto ai braccianti secondo la normativa in vigore.

In Spagna due elementi complementari hanno invece permesso la sedimentazione di percorsi organizzati di sindacalizzazione del bracciantato migrante.

In primo luogo la presenza ravvicinata dal punto di vista storico del ciclo di lotte bracciantili “autoctone” che ha permesso la continuità e la persistenza ancora oggi di forme sindacali organizzate di jornaleros: a differenza dell’Italia, dove i protagonisti delle occupazioni di terre e delle battaglie per la riforma agraria in Italia nel dopoguerra oggi sono quasi tutti prima emigrati ma ormai anche defunti, in Spagna fu solo dopo la caduta del regime franchista che riuscì ad esplodere un movimento di lotta dei braccianti anche nelle campagne e nei latifondi andalusi.

A questo elemento storico, c’è da aggiungere un elemento soggettivo altrettanto importante: il SOC.

Questo sindacato si presenta ancor oggi fortemente caratterizzato da dinamiche di “militanza conflittuale” molto dissimili dai percorsi del sindacato confederale in Italia: la sua matrice ideologica maoista inoltre accentua ancor di più il peso e la rilevanza del lavoro sindacale di internità nel bracciantato agricolo.

Ne viene fuori la sperimentazione dell’intervento sindacale tra i lavoratori marocchini degli invernaderos almeriensi che però registra tutti i limiti dell’azione sindacale tradizionale rispetto ai bisogni di una soggettività migrante per la quale “le regole dello

sfruttamento non si determinano sul piano dei rapporti economici, come avviene nel caso della forza lavoro autoctona, ma innanzitutto su quello politico e istituzionale: gli immigrati hanno di fronte lo Stato prim’ancora del capitale” (Sivini 2000, 28).

Ecco perché le battaglie del soc per il rispetto degli accordi contrattuali, per i pagamenti del lavoro straordinario, restano vertenze sindacali circoscritte a segmenti molto ristretti, spesso in termini anche di vertenzialità, e relativamente già coperti e tutelati.

Sebbene l’attività diffusa di ascolto e di sportellistica nelle sedi sindacali registri una percentuale anche superiore al 70% di problematiche connesse alla condizione giuridica per l’esercizio della libertà di movimento, il sindacato non riesce a individuare o impiantare vertenze collettive in grado di andare oltre la dichiarazione generica di intenti (papel para todos, documenti per tutti) sulla libertà di movimento.

Possiamo sinteticamente individuare tre tipologie di azione e di intervento che maggiormente caratterizzano questo percorso di azione:

157 - Vertenze individuali e collettive di lavoro

- Assistenza informativa su procedure di regolarizzazione

- Campagne di denuncia e di mobilitazione contro la discriminazione razziale

Seguendo l’approccio classificatorio tradizionale, il Soc rientra tra i “gruppi strutturati di pressione”.

Se utilizziamo invece i criteri metodici di Gramsci possiamo classificare questo percorso di lotta a cavallo tra la quarta definizione – “le formazioni proprie dei gruppi subalterni per rivendicazioni di carattere ristretto e parziale” – e la quinta definizione – “ le nuove formazioni che affermano l’autonomia dei gruppi subalterni ma nei vecchi quadri”

(Q2288).

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