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Le baraccopoli rurali tra caporalato, reti comunitarie e isolamento sociale Da un punto di vista storico, il territorio in oggetto coincide approssimativamente con il

DALL’ACCOGLIENZA ALLA RECLUSIONE: IL CASO DEL VULTURE

5.1.3. Le baraccopoli rurali tra caporalato, reti comunitarie e isolamento sociale Da un punto di vista storico, il territorio in oggetto coincide approssimativamente con il

comprensorio Appulo-Lucano interessato dalla parziale riforma fondiaria introdotta con la legge stralcio n.841 del 21/10/50.

Tale riforma ebbe tra le proprie finalità quella di attuare una seppur minima ripartizione del patrimonio fondiario, l’infrastrutturazione delle aree rurali e la costituzione di consorzi di bonifica e di irrigazione.

L’Ente speciale per la Riforma fondiaria di Puglia, Lucania e Molise, tra le numerose attività di cui si rese protagonista, nel tentativo di disarticolare in modo clientelare le allora impetuose lotte bracciantili, realizzò la costruzione di Casali e Villaggi disseminati in tutta la zona per favorire l’insediamento delle famiglie contadine nei pressi dei terreni espropriati, riprendendo i provvedimenti di appoderamento che il regime fascista realizzò in misura ridotta nell’area.

Successivamente molte di queste costruzioni rurali furono abbandonate e oggi sono diventate luoghi di insediamento dei nuovi braccianti agricoli provenienti dal Sud del mondo: una sorta di riforma nuova, di tipo spontaneo, ha quindi ridato vita a manufatti ormai abbandonati. I casali della riforma sono semplici costruzioni in tufo, composte da 1 o 2 piani, spesso con un piccolo porticato esterno. Nell’area in questione i borghi attualmente abbandonati o sottoutilizzati sono concentrati nei Comuni di Venosa, Melfi e Lavello.

Boreano, Gaudiano, Leonessa sono borghi-fantasma, quasi completamente disabitati che a ridosso delle campagne del pomodoro diventano rifugio per centinaia di braccianti stagionali. Durante la ricerca sul campo nell.estate del 2010 sono stati individuati in particolare cinque nuclei abitativi di una relativa consistenza:

- il villaggio Boreano, nel comune di Venosa, con due gruppi distinti di insediamento, con all’incirca 200 persone collocate in 5 casolari di circa 45/50 mq l’uno;

127 - la masseria Sterpara Sottana, nel Comune di Montemilone, con tre gruppi distinti di

insediamento (Masseria, La Buca e la Buca Superiore) con circa 150 persone assiepate in un palazzetto di un piano con una camerata di circa 70 mq e altri 5 casolari di circa 40 mq;

- Grotta Paradiso, in località Masseria Facchinetti, con tre gruppi distinti di insediamenti (Grotta Paradiso, Grotta Superiore e Grotta Inferiore), con poco meno di un centinaio di migranti collocati in 4 casolari e una grotta;

- Casone Spinazzola, nel limitrofo comune pugliese di Spinazzola, una palazzina di 2 piani di circa 200 mq e con oltre 120 migranti stipati al suo interno.

In questi luoghi, come nei siti più piccoli e isolati di insediamento dei migranti, la fornitura di acqua e energia elettrica è da tempo inattiva, i minimi servizi igienici inesistenti. Nei periodi di maggior afflusso di braccianti, in molti si accampano a ridosso di questi luoghi, con tende, cartoni o altro materiale di fortuna. Gli agricoltori locali, residenti in prossimità di queste mini-baraccopoli rurali, hanno un rapporto ambivalente con gli insediamenti informali: nei pochi giorni deputati al raccolto agricolo usufruiscono con piacere della comodità di una forza-lavoro disponibile in loco, mentre nel resto dell’anno prevale l’indifferenza, accompagnata da relazioni di tipo speculativo come ad esempio la vendita a prezzi esorbitanti di taniche d’acqua,se non l’aperta ostilità con minacce a colpi d’arma da fuoco, muratura delle porte e finanche demolizione dei casolari più degradati per impedirne l’accesso.

Questo clima di ostilità, accompagnato da un’intensificazione dei controlli di polizia nei luoghi e nelle ore di riposo inversamente proporzionale ai controlli degli ispettorati nei luoghi e nelle ore di lavoro, ha orientato il re-insediamento in strutture più isolate e remote che rendono ancor più complesso l’accesso ai servizi più elementari, nonché i contatti con le poche associazioni locali che si preoccupano del monitoraggio e dell’assistenza.

Questi insediamenti informali si formano sulla base della connessione tra le reti comunitarie d’origine e quelle definite durante i differenti percorsi migratori, network che quindi si ritrovano, si allargano e si rafforzano nell’asprezza dell’esperienza stagionale del lavoro agricolo nelle campagne meridionali.

All’interno dei casolari e delle baraccopoli rurali c’è una precisa divisione del lavoro che scandisce la vita quotidiana dei migranti. C’è chi ha il compito di comprare il cibo e chi quello di recuperare l’acqua. Chi cucina abitualmente e chi mantiene i rapporti con

128 l’esterno. Quest’ultima funzione è quella di gran lunga più importante nei singoli insediamenti, da cui ne deriva lo stesso “successo” nel reperire ingaggi di lavoro per l’intera comunità.

Infatti all’interno di ogni casolare c’è sempre un grand frère, cioè un responsabile scelto dalla comunità sulla base del maggior radicamento territoriale del proprio percorso migratorio, che agevola i contatti e le informazioni con i datori di lavoro per il reclutamento della manodopera o anche l’orientamento sui servizi del territorio, sui mezzi di trasporto o sulle strutture sanitarie più vicine.

In genere è una figura di mediazione importante per i migranti ma va anche notato che spesso svolge la sua opera di intermediazione speculando sulla modalità di ingaggio. Finanche il trasporto dei migranti dai luoghi di domicilio ai luoghi di lavoro è a pagamento e organizzato nei minimi dettagli da questa persona. Dalla sua autorità dipende anche la gestione delle relazioni interne agli insediamenti e tra questi e la popolazione circostante.

Va notato infatti che, nonostante le difficili condizioni di vita e di lavoro dei migranti, sono molto rari gli episodi di litigiosità interna che sfociano in atti intolleranti o violenti. Nella maggioranza dei casi le controversie vengono composte bonariamente attraverso il coinvolgimento dell’intera comunità di insediamento.

Queste “autorità”, piuttosto che la figura storica del “caporale” nostrano, di cui riveste indubbiamente molte caratteristiche, ci ricorda più da vicino i pionieri delle migrazioni meridionali, cioè quelle soggettività che, attraverso il duplice radicamento delle loro relazioni – quelle geograficamente “corte” sul territorio e quelle “lunghe” nelle comunità di origine – determinarono nel secondo dopoguerra un vero e proprio processo di “colonizzazione” di interi spazi urbani e produttivi nelle metropoli settentrionali50

. Kofi, Stefan, Sissoko lasciano alcune settimane prima le loro abitazioni e i loro impieghi nelle campagne del casertano per pianificare logisticamente l’arrivo dei loro “compaesani” ghanesi, maliani e sudanesi. Si prende possesso del casolare abbandonato, si ricontattano i proprietari agricoli conosciuti nelle precedenti stagioni di

50

“Da Pietraperzia l’esodo iniziò nel 1947. Tremiladuecento immigati raggiungerso Pioltello. D.

Antonio, di anni 71, abitante in Via Santuario – frazione Seggiano – e il capo riconosciuto. Lo chiamano il “patriarca”, e a detta dei suoi compaesani, è una vera e propria autorità. Riesce a trovare un lavoro, un alloggio a chi ne è privo. […] La sua attività non si limita alla ricerca di un lavoro, per chi ne è privo, ma si articola nei vari momenti di vita: consigli, prestiti di denaro, soluzione delle immancabili controversie che sorgono anche sul piano delle relazioni affettive. Una specie di organo di consulenza”

129 raccolta per comunicare la disponibilità e conoscere il quantitativo di lavoro di cui necessitano, si ricontratta il prezzo e il numero della “squadra”.

In mancanza di uno strumento pubblico che agevoli la mediazione culturale tra le comunità migranti, il mondo del lavoro e i diritti ad esso connessi, il ruolo del grand

frère assume anche una funzione di utilità sociale e di indirizzo per i migranti non solo

verso il reperimento di una casa o di un lavoro, ma anche per interfacciarsi con servizi sociali e sanitari locali, difficilmente accessibili a causa di barriere linguistiche e culturali.

L’esperienza sul campo ha evidenziato, come anche nel contesto del lavoro stagionale per la raccolta del pomodoro, quello che solitamente viene definito come “caporalato” in realtà è un fenomeno di riorganizzazione dell’intersezione fisica tra domanda e offerta di lavoro che si basa sul duplice accordo fiduciario tra proprietari terrieri e singoli lavoratori migranti di più lungo insediamento e tra questi ultimi e i network migratori nei quali sono inseriti: piuttosto che alla criminalità organizzata è nella costruzione di questi rapporti fiduciari nel tempo che bisogna volgere lo sguardo per cogliere le modalità di organizzazione di un caporalato ormai sempre più etnicamente connotato.

Il caporalato per molti migranti, prim’ancora che una scelta, è una necessità: una parte ragguardevole dei lavoratori intervistati presenti nelle campagne del Vulture durante le settimane della raccolta del pomodoro, risulta analfabeta o con pochissima dimestichezza con la lingua italiana.

Molti di loro sono giunti da poco in Italia e comunque tutti frequentano abitualmente appartenenti alla stessa comunità di origine.

Se a tutto ciò uniamo le complicazioni della nostra burocrazia e le difficoltà della normativa in materia di immigrazione, è facile intuire perché a questa situazione di diritti negati di fatto, le comunità migranti rispondano affidandosi ad una persona che per esperienza o per altri motivi lascia intendere di poterli tutelare. Quanto poi ciò corrisponda al vero è difficile definirlo in termini generali.

5.2 I Percorsi di lotta dei migranti sul territorio

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