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Lotte popolari e appropriazione strumentale della società civile

POLITICA POPOLARE E SUBALTERNITA’

9.2. Lotte popolari e appropriazione strumentale della società civile

Se “la macchina antipolitica sembra sospendere la politica anche dalle operazioni più

175 società politica e società civile si esplicita invece nella capacità di politicizzazione che le soggettività popolari riescono a determinare anche all’interno dell’arena tradizionale della società civile, attraverso anche una sua capacità di appropriazione indebita e strumentale di questa.

Da questo punto di vista Zibechi, nell’analizzare la relazione tra la politica popolare e la politica istituzionale nelle periferie dell’America Latina, ci fornisce un’interessante prospettiva allorquando esplicita come “l'esistenza di relazioni strumentali indica che

gli abitanti non cercano di essere rappresentati in queste istituzioni, perchè sostanzialmente si sentono autonomi e distanti da queste. Certamente questo tipo di relazione suole essere definito come "clientelare" ma in realtà è strumentale, giacchè rappresenta la forma in cui due mondi diversi e opposti entrano in relazione e dove l'uno non si aspetta molto dall'altro, salvo ricavare qualche vantaggio o beneficio”(Zibechi 2011, 33).

Questa prospettiva, che abbiamo rinvenuto anche nelle pratiche di lotta del movimento di Caserta, si inserisce nel punto sul quale i subaltern studies arricchiscono la prospettiva gramsciana, incuneandosi in quello spazio che il fondatore Ranjat Guha ha definito come “dominio senza egemonia” (Guha 1984): se infatti “i gruppi subalterni

subiscono sempre l'iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono” (Q2271), resta tuttavia in campo l’impossibilità di un articolazione

totalizzante di assoggettamento. E’ la presenza di questo spazio autonomo, di queste

“tracce di autonomia dei subalterni dal valore inestimabile” (Q2231) che confuta – o

quanto meno pone in discussione - l’approccio alla politica popolare di Manuel Castells, per il quale queste lotte rappresentano “uno strumento di integrazione sociale

e di subordinazione all'ordine politico esistente invece che un agente del cambiamento sociale” (Castells 2004, 131).

Nel caso del movimento di Caserta, come abbiamo visto nel terzo capitolo, questa capacità si manifesta nella “cattura” in chiave controegemonica dell’impegno sociale del vasto mondo dell’associazionismo e della società civile locale, all’interno delle periodiche vertenze di lotta del movimento: in questo caso la relazione tra società civile e società politica, tra assoggettamento e soggettivazione, si muove in modo diametricalmente opposto alle traiettorie dominanti di cattura e di imbrigliamento della potenza sociale.

176 E’ la politica popolare dei subalterni che utilizza strumentalmente gli spazi della società civile.

Zizek ci fornisce un prezioso arricchimento dell’impostazione di Chatterjee allorquando ci aiuta nel definire la “potenza” implicita in questo meccanismo di appropriazione indebita, a partire dalla “radicale ambiguità della concezione marxista del divario tra

democrazia formale con il suo discorso dei diritti umani e della libertà politica, e la realtà economica dello sfruttamento e del dominio. Questo “gap” tra l’apparenza di uguaglianza e libertà, e una realtà sociale caratterizzata da differenze economiche e culturali , può essere interpretato in due modi: il comune modo sintomatico, per cui la forma dei diritti universali – uguaglianza, libertà e democrazia – sarebbe soltanto una necessaria ma illusoria espressione del suo concreto contenuto sociale, l’universo dello sfruttamento e del dominio di classe; oppure può essere interpretato nel senso più sovversivo, come una tensione in cui l’apparenza di egalibertè non è esattamente una mera apparenza bensì un potere proprio. Questo potere consente di mettere in moto il processo di effettive relazioni socioeconomiche mediante la loro progressiva “politicizzazione”: perché non dovrebbero votare anche le donne?” (Zizek 2008, 153)

e, aggiungerebbero i migranti casertani, “perché non dovremmo avere anche noi la libertà di muoverci?”.

Nel caso dei migranti è ancor più evidente come le loro lotte mettono “strutturalmente

in discussione il fondamento della democrazia e ne riaprirebbero il movimento oltre la sua configurazione istituzionale, in direzione di un approfondimento e di una riqualificazione tanto in senso intensivo quanto in senso estensivo (Mezzadra 2005, 16)

In queste “zone di confine dove costellazioni politico-giuridiche di natura ibrida

mescolano entità eterogenee che funzionano per disintegrazione” (Santos 2011, 166)

entra in campo un utilizzo strumentale della retorica della democrazia e della cittadinanza che queste stesse lotte mettono in continua tensione e discussione.

Non è nulla di nuovo da questo punto di vista. Era la marsigliese cantata dai giacobini neri durante la rivolta di Haiti, il richiamo al primo emendamento durante la campagna free speech fights da parte degli Wobblies o per andare ai giorni più recenti, l’inno americano tradotto in lingua spagnola e intonato durante le massicce manifestazioni degli ispanici “alieni” per le strade di Los Angeles nel 2006. E’ il tentativo di superare la sottomissione della frusta e lanciare la sfida della spada attraverso non solo “un uso

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politiche più ampie le quali possono includere sia azioni legali che illegali” (ivi, 159),

ma anche degli ordini discorsivi dominanti.

E’ interessante notare come, dinanzi alla debolezza performativa dell’inno di Mameli, i migranti di Caserta prediligano l’appropriazione dei ben più solidi “diktat europei”: nel momento in cui giocano un ruolo sempre maggiore i confini diacronici dell’Europa (Rigo 2007), la retorica controegemonica del movimento dei migranti di Caserta si aggancia strumentalmente ai dispositivi governamentali e alle “raccomandazioni” sull’inclusione e la coesione sociale dell’Unione Europea.

Possiamo leggere questa appropriazione all’interno dello schema tradizionale della

“opportunità politiche”, come semplice modalità di riposizionamento all’interno dello

schema di intervento multilivello, come del resto abbiamo già verificato nell’utilizzo altrettanto strumentale del gioco su due tavoli locale/nazionale a seconda dell’apertura o meno di rispettive “finestre di opportunità”.

Ma in verità il punto che ci interessa in questa sede evidenziare è la capacità del movimento di Caserta di sapersi muovere strumentalmente all’interno di quell’

“antinomia tra l’omogeneo nazionale e l’eterogeneo sociale” sul quale si fonda la

distinzione fondamentale per Chatterjee tra “cittadini” e “popolazioni”, tra il “maestoso

immaginario politico della sovranità popolare e la mondana realtà amministrativa della governamentalità” (Chatterjee 2006, 52).

Contestazione e negoziazione paralegale si giocano anche attraverso l’utilizzo dell’artificialità e della finzione che lo stato deve mantenere nella costituzione giuridica dell’uguaglianza: abbiamo così la possibilità di assistere a più riprese non solo all’incontro nel Palazzo del Governo di Caserta tra il Questore, il presidente della provincia, il prefetto di Caserta e una delegazione di migranti senza permesso di soggiorno, le cui autorità presenti dovrebbero a norma di legge invece procedere all’arresto e al rimpatrio forzato, ma anche al costante richiamo di questi ultimi alle libertà e ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta Costituzionale e dall’Unione Europea, alla direttiva europea 2009/52/CE sulla lotta allo sfruttamento dell’immigrazione irregolare.

Sono gli stessi migranti che, all’indomani della strage del 18 settembre 2008, prendono parte e organizzano una vera e propria rivolta con auto danneggiate, cassonetti dati alle fiamme, blocchi stradali: se guardiamo a quella giornata di scontri e violenze in modo

178 decontestualizzato e isolato, possiamo leggere e interpretare la rivolta di Castel Volturno come un atto istintivo di rabbia e di collera proto-politica (Castel 2008). Ma, riprendendo la critica di Thompson al grafico della tensione sociale di Rostow (Thompson 2009, 14), sarebbe alquanto riduttivo soffermarsi nel leggere queste rivolte come una reazione incontrollata di rabbia pre-politica contro la tanatopolitica (Esposito 2004) del clan dei Casalesi.

Così come nelle parole dei protagonisti di quella giornata diventa difficile rintracciare quel messaggio che Lee Rainwater leggeva a proposito delle violente sommosse nei ghetti neri americani “più grande è il danno, in termini di costi finanziari, dei saccheggi

e degli incendi, è più le cose sono state chiarite” (Feagin e Hahn 1973, 121) o l’espressione di un presunto “potere destituente” che Pier Andrea Amato rintraccia nelle più recenti rivolte delle banlieu parigine (Amato 2007).

Piuttosto, al pari delle rivolte del grano inglesi del XVII secolo, nel caso della rivolta dei migranti di Castel Volturno, i benefici si concretizzano non attraverso gli effetti concreti e immediati, ma piuttosto attraverso il perdurare della minaccia sul lungo periodo (Thompson 2009, 68) che allargherà la disponibilità e le elargizioni delle agenzie governamentali: se Chatterjee è testimone oculare di un “caso di una donna a

cui venne assegnato un terreno per ragioni umanitarie anche se non aveva i requisiti”

(Chatterjee 2006, 88), i duemila permessi di soggiorno per motivi umanitari rilasciati dal ministero degli interni sono il risultato di una lunga trattativa sui migranti vulnerabili di Rosarno seguita non a caso dal movimento dei migranti di Castel Volturno53: durante gli incontri e i tavoli istituzionali il tema e la preoccupazione della controparte istituzionale era sempre esplicitamente espressa come il tentativo di

“evitare un’altra Rosarno”, fantasma del resto agitato ripetutamente dai rappresentanti

del movimento durante gli stessi incontri.

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