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Alternative. Prove tecniche di Rifugio urbano

Nel documento integrale... (pagine 169-200)

4.10. A proposito di alternative possibili. Dialoghi in gruppo a Segna/Ali

4.10.5. Alternative. Prove tecniche di Rifugio urbano

Se la contenzione è questione di culture, diritti, paradigmi, sistema e organizzazione, nel contemplare le

alternative possibili tutte queste variabili entrano in gioco, ed è un gioco complesso. Difficile immaginare

pratiche alternative in cui le risposte siano semplici. Di questa complessità parla un’esperienza torinese, di cui

alcuni protagonisti sono partecipi, quella condotta dal collettivo del MadPride con l’occupazione dei locali

Asl inutilizzati di via Gorizia (“La Repubblica dei Matti”), nel 2014 e la successiva sperimentazione, da parte

di un gruppo più ristretto di utenti, per alcuni giorni di una autogestione di Rifugio urbano

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L’idea del rifugio urbano viene da esperienze internazionali, i riferimenti portati nel gruppo sono quelli

relativi all’esperienza di Berlino, la Casa del fuggitivo, ma ci sono anche persone e realtà locali, perché, in

realtà, in altre epoche qualcosa di simile era stato sperimentato, addirittura in ambito istituzionale:

A Settimo Torinese Pascal aveva fatto una casa molto simile a quella che vorremmo fare noi, che si chiamava Centro crisi, dove non si veniva neppure iniettati di neurolettici, la gente era libera, con un infermiere vicino… C’è un classico storico, quel caso di un maniaco depressivo che viene lasciato tre giorni a parlare e parlare, e oggi non è nemmeno pensabile perché dopo un’ora ti legano! Ma allora nei repartini non c’erano quei famosi legacci, che se poi qualcuno li vede li usa anche...

La domanda posta al centro della sperimentazione del MadPride è

Come si fa una casa, un rifugio, dove uno possa andare e permettersi di star lì a parlare e delirare per tre giorni di 60 http://madpridesito.jimdo.com/rassegna-stampa

Capitolo 4 - Biografie della contenzione. Una traccia di lettura tra vissuti, rappresentazioni e ipotesi interpretative

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“Contenere” la contenzione meccanica in Italia

fila, avendo qualcuno vicino? E senza rischio contenzione?

E una prima risposta coglie tutta la complessità dell’idea, perché non si limita a pensare a un contenitore

diverso, o a una diversa relazione utente-operatore e nemmeno solo a dinamiche tra pari, ma include una

diversa relazione con la società, una nuova comunicazione trasformativa tra il matto e la città:

Alla base del rifugio urbano, sta il ragionare sul disagio in termini diversi. Di solito ci si occupa del problema come problema dell’individuo o al massimo delle persone che gli stanno intorno, nel rifugio urbano invece, oltre a dare un luogo a chi non può stare in famiglia o non ha una casa, si cerca di avere un contesto in cui poter collaborare con altre persone, e ragionare sul disagio non solo in termini medici ma, accanto al disagio individuale, vedere che ci sono anche altri fattori sociali sui quali si può lavorare. E si possono trovare lì anche germi di trasformazione sociale. E questa prospettiva può avere a sua volta anche un valore terapeutico. Cambiando la situazione sociale puoi in qualche modo cambiare e mettere in discussione anche il resto?

Gli occupanti di questa Repubblica dei Matti hanno premesse in parte diverse da quelle berlinesi: qui, è debole il riferimento all’antipsichiatria

Ed è anche interessante rifletterci, io penso che oggi una ideologia forte antipsichiatrica è debole, non ci sono più le istituzioni totali di quando c’erano forti movimenti antipsichiatrici, adesso bisogna capire dove andare e sarebbe stata una forzatura applicare le regole del rifugio urbano al contesto dell’occupazione.

Dall’altro lato, il rapporto, pur nelle sue ambivalenze conflittuali, con (almeno alcuni) operatori e servizi

è aperto. Questo ha comportato un impatto con alcuni degli occupanti, con dinamiche di aperto conflitto

e aggressività nei confronti degli operatori che si sono affacciati al rifugio durante l’occupazione, ma

al tempo stesso ha tenuto aperta la sfida di incidere anche “dentro” la psichiatria, alludendo tanto a

una contro-organizzazione quanto a un processo di trasformazione più ampio, che può investire anche

l’istituzione-CSM:

Ma MadPride segue una linea diversa, mentre Berlino segue una linea di militanza antispichiatrica, ci sono regole rigide della casa e non si assumono farmaci e si fa una battaglia politica contro l’istituzione, noi eravamo in contatto con il CSM, anche per la locazione degli spazi occupati, il che da un lato ha provocato la deriva provocatoria ma d’altro canto ha rappresentato anche la possibilità della messa i discussione di alcune pratiche della psichiatria Questo del rapporto con gli operatori durante l’occupazione è argomento cruciale, nel gruppo si intrecciano sensibilità e valutazioni diverse, anche se nel complesso lo scarso interesse e per certi versi lo scarso coraggio degli operatori è colto da tutti i partecipanti e non soddisfa nessuno.

No, però ci sono stati diversi operatori che sono entrati al rifugio urbano

Sull’occupazione è stata fatta una riunione al CSM di via Gorizia, per capire le criticità da una parte e dall’altra, degli operatori e degli occupanti, e il direttore del CSM aveva proposto un tavolo di lavoro condiviso per capire l’esperienza

d’altro canto si è trattato di disponibilità individuali, non è scattato un movimento culturale, di riflessione e di assunzione di responsabilità pubblica da parte degli operatori, nemmeno tra quelli, più vicini, del sociale:

Gli operatori si adeguano allo psichiatra, trovare oggi un operatore che fa queste scelte è fantascienza!

C’è magari una sorta di dissociazione tra il discorso lavorativo e i tuoi ideali, e quello che manca è il discorso politico, collettivo, che è anche staccato dal mandato… E non c’è perché non c’è a Torino, c’era il gruppo degli Operatori- non –dormienti, ma adesso sono in quattro…

rapporto marginale

Dalla parte Asl nessuna collaborazione e anzi siamo stati osteggiati. Da un’altra parte Asl, interessi e manipolazione, interessi sulla stabile occupato, interessi che si scontravano.

I giorni dell’autogestione, come tutte le esperienze di frontiera, sono stati una sfida, un evento critico e

insieme un grande apprendimento da cui ripartire.

Da un lato, un protagonista sottolinea come questa questione del conflitto occupanti-operatori è stata gestita

a un certo punto rifiutando gli operatori, la contraddizione tra includerli ed escluderli è rimasta aperta e non

governata collettivamente.

A me viene anche da ragionare in termini autocritici: la situazione era anche esplosiva e provocatoria e contenerla era difficile, andavano e venivano alcuni operatori ma c’era anche esclusione da parte nostra, la soglia si era alzata Un’autodeterminazione come l’abbiamo attuata credo non possa funzionare, va pensata in modo più aperto perché così resta intrisa di rabbia e risentimento, ed è successo se in assemblea si presentava uno psichiatra c’erano insulti e aggressività.

D’altro canto, la gestione quotidiana è stata carente di regole condivise tra pari, e modalità esplicite per il

governo di una situazione in cui realtà individuali difficili e critiche non mancavano:

Nella sperimentazione mancavano del tutte le regole, nonostante i primi tre giorni si sia tentato di darle ma poi sono state del tutto abbandonate, ed è stata una vera autogestione, ma l’autogestione di pazienti psichiatrici con tutti i loro bisogni e necessità senza una linea condivisa non poteva reggere.

E tuttavia, l’occupazione di via Gorizia e la Repubblica dei Matti sono diventate, per il gruppo, un’esperienza

da cui ripartire e imparare, e l’idea-guida del Rifugio urbano è un riferimento contro la gestione violenta

della crisi e contro l’ipotesi che le crisi, in psichiatria, siano una faccenda per soli matti e per soli operatori.

Conclusioni: dall’insanity of place al luogo di cura

di Sergio Mauceri

Giunti a conclusione di questo preliminare percorso di studio, l’impressione maturata è di aver ricostruito

accuratamente gli elementi di pre-comprensione, necessari a orientare più precisamente il nostro impegno

futuro di ricerca-intervento rispetto al superamento delle numerose violazioni dei diritti prospettate dal ricorso

alla contenzione meccanica nei SPDC e dalle altre misure coercitive che sottraggono l’autodeterminazione

delle cure del paziente psichiatrico.

Si tratta di una negazione di diritti che fa capo principalmente alla salvaguardia della salute, della libertà,

della dignità personale dei pazienti acuti. Congiuntamente, l’intento di contenere la contenzione richiama il

diritto delle famiglie dei degenti di richiedere prestazioni di cura dei propri cari che mitighino le sofferenze

e le conseguenze gravose che sul piano esistenziale una patologia psichiatrica può arrecare su quanti ne sono

vittime e su coloro che vi sono a stretto contatto. Come sostiene Erving Goffman, il paziente psichiatrico

“rendendo il suo sé disadattato alla sua persona, rende disadattate al loro sé le persone che gli stanno intorno.

Qualunque cosa faccia, ne consegue sempre disordine” (1971; tr. it., 2008, 300). Non attenendosi alle

regole del gioco sociale che dà ordine e senso alle nostre vite, egli diventa nella percezione degli altri che

lo circondano, una persona che non sa stare al proprio posto. In questo senso, la malattia mentale può

essere considerata sociologicamente come un’infrazione alla definizione della situazione condivisa, ovvero

al sistema delle norme e delle aspettative sociali. Stante la temporanea incapacità, ascrivibile a molte delle

diverse forme di psicosi, di adeguarsi al sistema normativo, anche le regole di natura medico-ospedaliera

relative al processo di cura possono essere percepite dal paziente come un limite intollerabile. Il limite

che si paventa nel percorso medico standardizzato confligge col libero gioco “inventato” dal degente per

porsi in una posizione che, per quanto possa collimare con la propria immagine di sé in quel momento,

si rivela sconveniente rispetto allo status che gli altri vorrebbero che egli/ella tornasse ad occupare. Questa

rappresentazione goffmaniana della malattia mentale induce a considerare il paziente psichiatrico come

persona che non vuole o non riesce a stare al proprio posto e, in questo senso, le misure coercitive – come

quelle assimilabili alla contenzione – rappresentano strumenti di potere per far sì che l’individuo resistente

alle regole torni nei ranghi sociali e cessi di invadere lo spazio fisico ed emotivo dello staff medico e delle altre

persone con cui egli entra in contatto. All’interno di questo frame, la contenzione meccanica svela la propria

carica sanzionatoria rispetto all’infrazione dell’ordine simbolico perturbato e contaminato dalla presenza di

individui che rifiutano, intenzionalmente o meno, di condividere le coordinate di senso (temporali, spaziali,

culturali, esistenziali) ordinarie. L’aggressività del paziente, cui normalmente fa capo la pratica di legare mani

e piedi il degente in ospedale, genera a sua volta l’aggressività dello staff medico, che considera inattuabili

strategie alternative che facciano leva sulla componente relazionale. La spirale dell’aggressività reciproca

– fatta di sollecitazioni del paziente alla riacquisizione della libertà violata e da speculari forme violente

di repressione da parte di chi ritiene che quello specifico tipo di libertà reclamata sia incompatibile con il

processo di riabilitazione – porta a considerare la malattia psichiatrica e le strategie di cura come facce della

stessa medaglia. L’SPDC rischia, in questo senso, di diventare un luogo patologico, nel senso in cui lo stesso

Goffman introduce, relativamente alla malattia mentale, il riferimento all’insanity of place. Si tratta di una

configurazione sociale particolarmente pertinente laddove un SPDC faccia uso ordinario e frequente di

misure coercitive. In questi casi, è come se il tentativo di restituire al degente un senso di sé più vicino ad

uno status socialmente accettabile passasse paradossalmente attraverso l’uso di strumenti che negano il sé del

paziente. Per questa via, alla incapacità del degente di controllare le proprie emozioni si contrappone una resa

incondizionata alla constatazione che come staff ospedaliero la situazione specifica sia totalmente sfuggita al

controllo e richieda costitutivamente il ricorso alla violenza.

Entro queste coordinate interpretative, occorre situare la forma retorica utilizzata di frequente dallo staff

ospedaliero a giustificare l’uso della contenzione, fondata sul riscontro di carenze e disfunzioni di natura

socio-organizzativa, come ad esempio la carenza di personale. Il discorso, nella parte conclusiva di questo

lavoro può essere rovesciato e considerare che, se oramai è condiviso che il paziente “è portatore dei sintomi

Conclusioni

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“Contenere” la contenzione meccanica in Italia

di un contesto malato” (Goffman, 1971; tr. it., 2008, 278), è possibile considerare che la stessa struttura

ospedaliera possa diventare da contesto di cura a luogo patologico nel momento in cui pretenda di curare un

disagio, che spesso nasce da traumi e violenze sociali, attraverso l’uso della coercizione e della violenza stessa.

Piuttosto che di una terapia d’urto, il perdurante ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica assume

le forme di una privazione non solo della libertà, ma anche delle chance riflessive per il paziente di considerare

se stesso in modo diverso da vittima di una cospirazione ai propri danni, o comunque secondo una immagine

che lo avvicini a quegli universi di senso perduti a causa della patologia mentale. Per evitare di produrre

semplificazioni generalizzanti indebite, occorre considerare che nel tipo ideale qui tratteggiato del contesto

patologico può essere classificato un numero, per ora indefinito, di strutture psichiatriche che privilegiano

le pratiche di coercizione rispetto quelle psico-relazionali per “gestire” i pazienti con manifestazioni di

crisi e che, più estensivamente, li sottraggano di qualsiasi chance di autodeterminare il proprio percorso

terapeutico. Entro questa classe, che costituisce polo di un continuum, si collocano non solo una parte,

comunque limitata dei SPDC, ma anche i CSM e le altre strutture interne ai DSM che sono accomunate

da una visione bio-deterministica che guarda al paziente acuto come individuo incapace di intendere e di

volere, laddove invece la persona può di fatto legittimamente nutrire insofferenza nei confronti di cure o

trattamenti contenitivi, imposti senza che vi sia un tentativo incisivo di tipo negoziale, basato su pratiche

psicodinamiche che gli restituiscano un ruolo decisionale (inter)attivo. Sull’altro polo del continuum, quello

dei contesi di cura, si collocano invece i SPDC no restraint e le altre strutture psichiatriche, come i CSM, che

operano sinergicamente per riconoscere al paziente la facoltà di poter negoziare decisioni sui trattamenti da

ricevere e tutti i diritti che generalmente sono riconosciuti ai malati di altra patologia. Essere ricoverati in un

reparto ospedaliero che opera a porte aperte, esattamente come tutti gli altri reparti e senza ricorrere all’uso

della contenzione, rappresenta effettivamente il requisito minimo affinché per l’SPDC sia possibile operare

un passaggio dall’insanity of place, che Goffman riferiva all’istituzione totale, alla sfida della cura, menzionata

a più riprese da Toresini durante l’intervista e nei suoi scritti. Lungo il continuum che separa questi due poli,

è possibile immaginare di poter collocare la parte più numerosa dei SPDC, approssimandosi, più o meno in

modo marcato, ad uno dei due tipi ideali tracciati. Rispetto a questa polarizzazione, non si ritiene superfluo

chiedersi quanto i SPDC che fanno più uso della coercizione si avvicinino al modello della istituzione totale,

che saremmo portati a pensare non essere più presente nell’esperienza psichiatrica italiana contemporanea

61

.

Per rispondere a questo quesito in modo rigoroso, il riferimento non può che essere nuovamente a Goffman,

in particolare alla sua ricerca del 1962, Asylums, specificatamente dedicata alle istituzioni totali nel campo

psichiatrico e in particolar modo a come l’internato vivesse soggettivamente la propria situazione. Il nostro

sociologo canadese, poi migrato in America – dove svolge nel distretto della Columbia questa ricerca –

così introduce per la prima volta nella storia la locuzione istituzioni totali, specificando quale sia il tratto

definitorio che rende tale una organizzazione sociale:

Nella nostra società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con potere inglobante – seppure discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione: porte chiuse, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o brughiere. Questo tipo di istituzioni io lo chiamo «istituzioni totali» ed è appunto il loro carattere generale che intendo qui analizzare.

Su questa base, assumendo il carattere inglobante (anche discontinuo) come criterio di classificazione, è

possibile concludere che le porte chiuse dei reparti dei SPDC costituiscano il criterio per definirli istituzioni

totale, laddove le uniche eccezioni sono costituiti dai circa 20 SPDC che in Italia operano a porte aperte, in

regime no restraint. “Porte aperte”, come ci ha spiegato bene Toresini durante l’intervista, non significa che i

degenti possano uscire quando vogliono, ma che possano negoziare con lo staff delle libere uscite, laddove le

condizioni di salute lo consentano. Nei reparti che operano a porte chiuse, invece, la porta è chiusa e dotata

di dispositivi di allarme, di modo che – se il reparto non dispone di uno spazio aperto – non è consentito

61 Il riferimento al contesto italiano è d’obbligo considerato che in quasi tutti i paesi europei, non essendo avvenuto niente di analogo alla “rivoluzione basagliana”, ancora esiste l’istituzione dell’ospedale psichiatrico, piuttosto che essere previsto un reparto psichiatrico negli ospedali generici.

neanche di respirare una parvenza di libera uscita. Le porte chiuse sono chiuse anche per chi voglia andare a

trovare i degente, o meglio spetta alla discrezionalità dello staff decidere quando il paziente è nelle condizioni

di ricevere visite da familiari e amici. Come si è avuto modo di appurare, ancora più impenetrabili sono questo

tipo di reparti per avvocati o figure che potrebbero tutelare i loro diritti. Potrebbero, dunque, sostenere che

più il potere di discrezionalità dello staff nell’aprire anche solo temporaneamente le porte è alto è più il

reparto ospedaliero si avvicina al tipo ideale dell’istituzione totale. Si tratta di un criterio di classificazione

dei SPDC che non ha solo natura definitoria, quanto piuttosto contribuisce a: 1) applicare anche ai SPDC

alcune delle numerose considerazioni, di natura etica, teorica e pragmatica, che Basaglia e il suo gruppo

avanzano con riferimento alle istituzioni totali manicomiali, con tutte le cautele di riadattamento che questa

operazione di traslazione richiede; b) conferire credito a quanto autori come Dell’Acqua e Toresini scrivono

in ordine alle funzioni di deistituzionalizzazione assolta dal modello di SPDC no restraint; c) svelare quale sia

la funzione latente delle porte chiuse, che seguendo Goffman (ibidem), è di proteggere la società dal pericolo

che seppure non intenzionalmente soggetti incapaci di badare a se stessi rappresentano fattivamente o nelle

rappresentazioni psichiatriche e collettive.

Se la porta chiusa rappresenta già una privazione della libertà, il carattere coercitivo del trattamento di “cura”

in buona parte dei SPDC non potrebbe dirsi totale se la porta chiusa non servisse anche a occultare verso

l’esterno le pratiche di contenzione cui il paziente ha probabilità di incorrere all’interno del reparto (con

una probabilità che si eleva in concomitanza di ricovero in TSO e di alcune caratteristiche come il genere

maschile la condizione di migrante straniero, ecc.; vedi cap. 2).

Come si è considerato, nel presentare le ricerche svolte (cfr. cap. 2), anche a parità di risorse interne all’SPDC

e di caratteristiche individuali dei degenti, un ruolo innegabile nell’incentivare il ricorso alla contenzione

meccanica, è svolto dalla cultura autoritaria di reparto, il che include gli atteggiamenti e tutte le variabili

disposizionali che incidono sullo stile e il clima di lavoro. In questa compagine, la ponderazione dei fattori

di rischio è certamente sensibile ai rapporti gerarchici, di modo che la presenza di un Dirigente sanitario

particolarmente incline alla coercizione del malato assumerà un ruolo di primo rilievo nel determinare

frequenza e durata degli episodi di contenzione. In questo senso, l’associazione statistica tra disfunzioni

organizzative e alta frequenza di ricorso alla contenzione, anche laddove riscontrabile empiricamente,

potrebbe essere spuria o fittizia. La fallacia interpretativa potrebbe nascere dal fatto che, ad esempio, una

cultura organizzativa particolarmente autoritaria potrebbe essere associata in modo costitutivo a entrambi

gli attributi considerati nella relazione statistica originaria: l’autoritarismo potrebbe indurre a non gestire

creativamente e in modo flessibile le risorse a disposizione, generando disfunzioni organizzative, e – nel

contempo - potrebbe concorrere in modo significativo a incrementare la stessa probabilità di ricorrere

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