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Fattori di rischio: cosa incentiva il ricorso alla contenzione nei SPDC?

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3.4. Strumenti di (non) garanzia: dall’occultamento delle prove alla subalternità del

3.4.1. Fattori di rischio: cosa incentiva il ricorso alla contenzione nei SPDC?

Nel capitolo precedente, sono stati ricostruiti i risultati più significativi delle ricerche condotte a livello

nazionale e internazionale circa i fattori di rischio che possono incentivare il ricorso alla contenzione

meccanica e che, senza bisogno di ripercorrerli singolarmente, gli stessi intervistati hanno richiamato come

significativi, corroborando ulteriormente la scientificità di questi riscontri empirici.

Ciò che dalle ricerche, soprattutto in quelle quantitative, resta necessariamente in ombra, nella spiegazione

della variabilità con cui nelle diverse strutture si pratica la contenzione meccanica, è il coacervo di fattori

che rimandano alla cultura di reparto e alle dinamiche relazionali tra i diversi attori sociali coinvolti che,

all’interno dei SPDC detengono un ruolo di rilievo.

Dalle interviste ad esperti, intanto emerge che la distanza e astenia relazionale che caratterizza il clima di

molti dei reparti SPDC - e che raggiunge i massimi livelli nei casi in cui infermieri e medici siano in

burnout - assume, in ipotesi, un ascendente molto forte nell’incentivare il ricorso alla contenzione. Il potere

di questi elementi psico-relazionali è dilatato indefinitamente dalla constatazione che chi è in una posizione

di vulnerabilità psicologica generalmente vive una sensazione di dilatazione della propria sensibilità nei

confronti degli stimoli esterni, al punto da alterarne o amplificarne, più o meno significativamente, il

contenuto di senso ordinariamente interpretato o che, comunque, nelle intenzioni della loro fonte si voleva

trasmettere. Per questo, come ci racconta il consulente regionale Corbascio, anche un’accoglienza fredda,

che comunemente in un reparto ospedaliero di altro tipo potrebbe generare vari ordini di reazioni (auto)

contenute, può verosimilmente generare uno stato di agitazione o aggressività anche acuto nel paziente

psichiatrico. La conseguente disposizione medica della contenzione meccanica, per far fronte a questo stato

emotivo reputato ingestibile, può, a sua volta, incentivare nel paziente la sensazione (legittima) di essere

“prigionieri” in un luogo particolarmente ostile. In funzione di questa immagine riflessa negativa dello spazio

sociale, nonché del senso di ingiustizia per essere stati legati con la forza e contro la propria volontà (appena

entrati o anche dopo), il rischio è che si generino nuove reazioni sempre più aggressive. La spirale che in

modo autopoietico può alimentare l’aggressività e la confusione del paziente a quel punto si sospende solo

con le dimissioni (provvisorie o definitive) dal reparto e con la connessa restituzione del paziente ai propri

familiari (sempre che li abbia) o agli altri servizi territoriali (sempre che vi sia un pregresso inserimento), in

uno stato probabilmente peggiore rispetto al momento del ricovero.

I - Possiamo dire allora che la contenzione nei SPDC è una questione di cultura ma anche molto di leadership?

Corbascio: Secondo me molto, è legata a chi c’è. E ad alcune modalità. A me è successo anni fa al Mauriziano, ho passato due ore con un ragazzino a convincerlo a ricoverarsi senza fare un TSO, e arrivato in reparto c’è stata la presa di coscienza di quello che stava succedendo, consapevolezza che avviene una volta in reparto, non in Pronto, e lui ha reagito, ed è stato bloccato, contenuto. Ma quella sua reazione fu dovuta a come era stato accolto in reparto, punto, ne sono sicura. Perché nessuno ti saluta quando arrivi, non salutano nemmeno me! È tutto così, con i pazienti, e quando l’impatto è così e al tempo stesso l’adesione del paziente al ricovero è debole, va a finire che il ragazzino spacca tutto. Quindi gli episodi di violenza o di supposta violenza sono spesso innescati dall’impatto di alcune modalità. Supposta violenza, perché poi negli ultimi anni c’è tutta questa partita del rischio, c’è una struttura complessa apposta sui rischi, si producono riunioni, carte, procedure, moduli… poi è giusto, c’è anche una psichiatra che è morta aggredita, trenta coltellate, e non è l’unica, quindi servono anche le precauzioni, però… Comunque la contenzione viene evocata dai

comportamenti di alcuni operatori.

La disponibilità di tempo, insieme all’umanità del personale, risultano in questo senso due deterrenti importanti

rispetto al ricorso alla contenzione e alla stessa creazione dello stato di crisi acuta che ne costituisce la

giustificazione formale.

Giacopini: Come dicevo prima, sul piano territoriale, il tempo che si dedica al paziente critico nel contesto in cui lo si vede star male e l’intelligenza e l’esperienza che si mette nella gestione di questo paziente, fanno assolutamente la differenza sull’arrivo in ospedale, eventuale, perché poi a volte la gestione è territoriale e non necessariamente comporta l’ospedalizzazione, anzi. Però è una questione di esperienza e di umanità, perché poi c’è chi ce l’ha e chi non ce l’ha, e di grande disponibilità di tempo. Un servizio organizzato sul “sono le quattro e mezza e devo andarmene”, magari perché ho il mio studio privato che mi aspetta, è molto …

I - Questo aspetto del poco tempo dedicato dalle persone che frequentano i centri è molto sottolineato, l’idea è che si va lì, si conferma una prescrizione e…

Giacopini: Mi viene in mente un aneddoto. Un pomeriggio verso le due arrivò in reparto un paziente nordafricano aggressivo, arrivò contenuto dalla polizia, passato dal pronto soccorso, il medico di turno lo ha fatto arrivare contenuto in reparto, è rimasto contenuto per circa un’ora e poi, con l’approccio di chi crede nella psichiatria di un cero tipo, è stato anche scontenuto. E c’era da parte mia la percezione netta che la

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[cessata] contenzione e il farmaco che il paziente ha poi accettato di prendere fossero i due elementi vincenti, che insieme avevano fatto accettare al paziente il ricovero in reparto. Stavo per uscire dal reparto e una collega mi disse: “sia chiaro che io con quel paziente non contenuto, io qui non ci sto”. Al di là dell’irritazione che uno può provare a sentire questo discorso… io avevo qual giorno la possibilità di stare più a lungo in reparto, potevo non averla, e sono rimasto a piantonare questa situazione fino alle otto di sera. Quel giorno a quel paziente è andata bene così.

A fronte dei fattori di rischio emersi nel corso delle interviste e del capitolo precedente, occorre considerare

come il ricorso alla contenzione, così come delle altre misure coercitive, trovi la più considerevole giustificazione

in un principio pragmatista, che è quello della economizzazione dello sforzo, che avrà un ascendente tanto

maggiore quanto più carenti saranno le risorse a tutti i livelli (strutturali, risorse umane, formazione, etc.).

Come scrive Pullia, alla luce della sua esperienza in qualità di Dirigente di diversi SPDC veneti:

“La soluzione più facile (nei SPDC) è quella di limitarsi ad una funzione di controllo dei sintomi e dei comportamenti disturbanti ad essi correlati ricorrendo ad una contenzione fisica e farmacologica riproducendo, di fatto, i meccanismi di tipo manicomiale ed ostacolando di realizzare una psichiatria realmente attenta ai bisogni e alle sofferenze del paziente e rispettosa dei diritti della persona.

È molto più facile legare il paziente piuttosto che utilizzare strategie di contenimento basate sulla relazione e tecniche non violente di intervento sulla crisi. La gestione di un paziente aggressivo senza strumenti di contenzione fisica è più complessa, ma è l’unico modo per stabilire una compliance sulla quale innestare la nascita di un processo terapeutico. È molto più facile chiudere le porte di un SPDC che convincere il paziente a non fuggire, è molto più facile prorogare un TSO piuttosto che farlo accettare volontariamente al paziente. Infine è molto più facile autorizzare una terapia elettroconvulsivante piuttosto che convincere i familiari sulla sua inutilità e sulla sua dannosità” (in Attenasio e Di Gennaro, a c. di., 2012).

Se si considera il sistema di sorveglianza, che nei reparti è assicurato da telecamere posizionate in tutte le

stanze e negli ambienti comuni, nonché la funzione latente punitiva che la contenzione spesso riveste, il

richiamo al Panopticon, che Foucault (1977) descrive in Sorvegliare e punire, è immediato.

Interessante, nell’esperienza di chi - pur essendo contrario alla contenzione e pur avendo rivestito una

posizione dirigenziale in un SPDC - narra di come spesso la contenzione “appaia” ineluttabile nei casi

in cui il ricovero ospedalierio obbligatorio (TSO) avvenga secondo modalità che trasmettono l’immagine

di un individuo pericoloso e questa rappresentazione riflessa si cristallizzi nella mente del personale per

concretizzarsi poi in una serie di pratiche da riservare a chi è considerato “mal tollerato”:

I: Essendo propenso a considerare la contenzione meccanica una extrema ratio, quali sono stati i fattori che l’hanno costretta, a questo punto, a ricorrervi?

Giacopini: Innanzitutto, la violenza esercitata sul paziente in arrivo al pronto soccorso dell’ospedale. Il paziente che arriva in ospedale, accompagnato dalla polizia ammanettato, è un paziente mal tollerato dal pronto soccorso. Il pronto soccorso è abituato a una certa contenzione fisica [meccanica] quando c’è un tossicodipendente agitato o un anziano che si toglie la flebo, al di fuori di questa routine del pronto soccorso, l’arrivo del paziente urlante, ammanettato, con le sirene, la polizia… è una situazione in cui tu come psichiatra devi fare i conti con i carabinieri che hanno molta fretta di andarsene via, con il fatto che quasi sempre non ti arrivano gli elementi conoscitivi per iniziare col paziente una relazione che sia una relazione sul piano umano, della serie tu sei qui, io so perché sei qui, io sono il medico che adesso ti accompagna in reparto e vediamo quale soluzione riusciamo a trovare rispetto alla tua aggressività. Il contesto del pronto soccorso che dice allo psichiatra – mediamente non sempre ma spesso – il più in fretta possibile, questo paziente deve andare in repartino perché qui disturba… la scelta di scontenere in pronto soccorso un paziente di quel tipo è una scelta che io qualche volta ho fatto ma rischiando io, mi è andata bene qualche volta, qualche volta meno,

qualche volta invece mi son trovato nelle condizioni di non poter scontenere il paziente, e di doverlo portare in reparto contenuto. Io penso, dalla mia esperienza, che se si riuscisse a gestire il momento cruciale del TSO in pronto soccorso con la capacità dello staff del pronto soccorso di collaborare con la psichiatria, cosa che passa solo attraverso anni e anni di formazione reciproca, io dopo sei anni di Mauriziano, avendo accettato di fare formazione per i colleghi di ospedale, si è creata una dimensione che ci ha poi molto favoriti, c’era la possibilità che il paziente agitato finisse di essere tale già in pronto soccorso e lo si potesse scontenere. È chiaro che un paziente agitato lo scontieni e poi lo contieni con i farmaci, non ci sono grosse alternative, ma poi se un paziente è più tranquillo e arriva in reparto così, in reparto inizia il suo percorso in modo molto, molto diverso dal paziente che arriva ammanettato e contenuto.

Dalla stessa intervista apprendiamo quanto già emerso dall’analisi della letteratura nel capitolo precedente,

ossia il carattere parziale di qualsiasi analisi riconduca il ricorso alla contenzione a indicatori quantitativi,

come ad esempio la numerosità del personale. Giacopini sottolinea come, nella sua esperienza, siano, semmai,

le specifiche qualità del dirigente sanitario e del personale infermieristico, anche niente affatto riconducibili

al profilo formativo quanto piuttosto al fattore umano, a costituire un potente deterrente al ricorso alla

contenzione:

I - E una volta in reparto cosa succede?

Giacopini: Una volta in reparto, una cosa che io ho imparato è che la collaborazione con l’agente o gli agenti della polizia presenti in pronto soccorso è fondamentale. Curare questo aspetto avendo un atteggiamento di trasmettere informazioni e persino un po’ di formazione all’agente ti permette di entrare in pronto soccorso con un agente capace di dare sicurezza al personale del reparto, dà sicurezza al medico che sta ricoverando il paziente e dice al paziente “ti saluto” e al medico e agli infermieri “se c’è bisogno di me chiamatemi” e questo dà sicurezza e si lavora meglio. Sono queste le condizioni grazie alle quali spesso abbiamo scontenuto in pronto soccorso e scontenuto in reparto. L’altro fattore è la presenza di personale per quanto riguarda il numero, che è un problema non al 100%, io non penso che la contenzione sia sempre il risultato di … c’erano troppo pochi infermieri per gestire diversamente, penso che c’entri soprattutto la qualità, più del numero. Io ho collaborato benissimo in ospedale psichiatrico con infermieri che non avevano alcun tipo di formazione infermieristica, arrivavano dalla Val di Susa, assunti in quanto robusti… E quando questi infermieri assunti in quanto robusti, di formazione contadina, si appassionavano alla psichiatria, con loro non c’è mai stato bisogno di contenere nessuno. Le sto dicendo una cosa grossa…

Per quanto gli elementi quantitativi siano da più parti considerati fattori causali deboli, è singolare come, nei

casi Mastrogiovanni e Casu, gli elementi giustificativi della prolungata contenzione invocati dal personale

medico-infermieristico, talvolta anche in sede processuale, facciano prevalentemente capo a fattori

socio-organizzativi come il sovraffollamento del reparto e/o la carenza di personale. Durante le udienze del processo

di primo grado, il medico di guardia dell’SPDC cagliaritano, in cui fu ricoverato e trovò la morte Giuseppe

Casu, dichiarò che: “la pratica della contenzione fisica anche oltre le 48 ore era frequente in quel reparto, che

presentava dei problemi legati al sovraffollamento. Eravamo costantemente sotto organico dal punto di vista

del personale infermieristico (…) la mancanza di personale per noi è una costante”. Come sottolineato da

Toresini, intanto, è precisamente da sottolineare che il sovraffollamento in strutture psichiatriche, per come

esplicitamente sancito attraverso la legge 180, non dovrebbe presentarsi e sarebbe, a sua volta, sanzionabile.

Soprattutto, quello che emerge complessivamente dalle interviste è che in un SPDC elementi come la carenza

di personale o il sovraffollamento aumentano sensibilmente la probabilità di incorrere nella contenzione solo

se accompagnati da una cultura di reparto incline a risolvere i problemi con la forza e la coercizione a danno

dei pazienti. In tal caso, gli stessi elementi concorreranno ad un uso indiscriminato della contenzione e a un

abuso rispetto alle buone prassi regolative (ricorso in caso di estrema necessità, di durata breve e con controlli

a priori e continuativi sullo stato di salute del paziente).

È d’obbligo precisare, a questo riguardo, che assumere l’incidenza della contenzione come indicatore del

malfunzionamento del servizio non significa affatto legittimare che le carenze strutturali, umane e formative

Capitolo 3 - La dignità negata. Sguardi esperti e multifocali sui nodi della contenzione meccanica

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di un reparto possano costituire “alibi” a giustificazione del suo ricorso o del suo uso indiscriminato, come

nella cultura di reparto spesso si tende ad argomentare. Come si avrà modo di appurare più avanti, se proprio

si volesse invocare lo stato di necessità, i moventi a giustificazione della contenzione dovrebbero essere di ben

altra natura e rilievo, di modo che, semmai, le disfunzioni di reparto andrebbero normativamente interpretate

come aggravanti piuttosto che attenuanti rispetto all’uso indiscriminato e abusivo della contenzione.

Alle interpretazioni emerse in questa direzione durante le nostre interviste agli esperti, si unisce il giudizio

espresso dal giurista Giandomenico Dodaro, in uno dei suoi ultimi scritti sulla contenzione:

“Immaginiamo, a esempio, un reparto che ha sempre praticato la contenzione e in cui gli operatori non siano preparati a rivedere le proprie pratiche, essendo alte le resistenze a modificare assetto e distanza della relazione terapeutica e a giocare elementi più empatici e familiari, in ultima analisi a ridefinire il paradigma sul quale si è costruita la propria professionalità; o un reparto sovraffollato con équipe sotto organico e pensate su livelli minimi di assistenza sanitaria e relazionale, con una inadeguata turnazione nella giornata tra medici e infermieri, con personale non formato a tecniche di gestione del paziente aggressivo o agitato, e in cui sia povera l’offerta socio-riabilitativa. All’interno di servizi che oppongono così forte resistenze umane, culturali o scientifiche all’abbandono di pratiche neo-manicomiali, o caratterizzati da rilevanti problemi organizzativi, dove quindi le pratiche assistenziali rendono probabile e prevedibile il verificarsi dell’emergenza, appare assai problematica la configurabilità di uno stato di necessità in grado di giustificare la contenzione meccanica del paziente proprio per la possibilità, da accertare nel caso concreto, di rimproverare al personale sanitario a titolo di colpa il verificarsi della situazione di pericolo” (2015, pp. 330-1).

La voce autorevole di Sangiorgio, nella sua duplice veste di Dirigente di DSM e ricercatore sul tema, consente

di rilanciare l’elemento, legato alla selezione e formazione del personale, anche qui intesa come know how

legato più al saper essere che al saper fare. Dal suo punto di vista, il problema maggiore, che incentiva il

ricorso alla contenzione, risiederebbe nella impreparazione e nello stress del personale infermieristico che, a

differenza di quello medico – che generalmente si limita a un contatto circoscritto alle visite giornaliere e a

colloqui (sporadici) – opera un lavoro di assistenza diretta e continuativa, gestisce operativamente la messa

in atto della contenzione e dovrebbe – il condizionale è d’obbligo - vigilare sullo stato di salute del degente

contenuto. Il personale infermieristico viene, in questo senso, significativamente descritto da Sangiorgio

come “il braccio armato della contenzione”:

Sangiorgio: Allora, la maggior parte dei pazienti psichiatrici, e non solo, sono soggetti fortemente traumatizzati, nel senso… sono soggetti che hanno subito abusi nella loro infanzia, che hanno vissuto delle esperienze di maltrattamento, che hanno avuto esperienze fallimentari… Il paziente psichiatrico si presenta già nelle sue prime, diciamo, manifestazioni esteriori, come una persona fortemente traumatizzata. Questa persona fortemente traumatizzata, nel momento in cui incontra i servizi psichiatrici, avrebbe bisogno di un contesto in cui fosse, come dire, compreso nei suoi aspetti traumatici. Lungi che questo accada, accade invece proprio il processo contrario, quello che è stato chiamato il processo parallelo. Spesso nell’ambito delle strutture psichiatriche, si incontrano persone che non solo non hanno questa percezione, competenza, conoscenza, ma sono persone altrettanto stressate. Quando parlo del fatto che queste strutture sono strutture organizzative stressate e ad alto rischio di abuso, non lo dico sulla base di una cattiveria degli operatori, ma sul fatto che manca a quegli operatori una consapevolezza culturale, e manca soprattutto agli infermieri. Perché non è un caso che il braccio armato della contenzione sia quello degli infermieri. Sono loro che spesso per esempio, non dico producono la contenzione, perché quello è un atto, quasi sempre, come dicevo prima, condiviso anche se lo spunto viene da parte loro, ma mantenere, spesso, un paziente per soltanto pochi giorni oppure per dieci giorni spesso dipende dalla volontà, o per meglio dire, dalla paura, dall’angoscia, dallo stress che chi vive con quel paziente ha rispetto all’esistenza alienata che non riesce, in qualche modo, a capire. E che vive come riflesso anche dei propri traumi. Perché sia per una sollevazione naturale, nei reparti psichiatrici dovrebbero mandare delle persone che hanno un alto livello di self control, una forte consapevolezza di sé, una fortissima autostima, una capacità di elaborare il lutto e le frustrazioni. Nei reparti psichiatrici finiscono invece a caso persone spesso incompetenti, spesso potenzialmente criminali, che vanno in quelle situazioni proprio perché

sanno che lì potranno esercitare un potere assoluto senza che si eserciti alcun controllo. I - Questo soprattutto nel personale infermieristico …

Sangiorgio: Certo. L’esperienza di Mastrogiovanni a mio avviso è emblematica. Mastrogiovanni è morto non tanto per la contenzione, ma è morto per l’indifferenza, il disinteresse, l’odio, come dire, nascosto dietro la passiva acquiescenza degli infermieri che… voglio dire, un infermiere sta in una struttura non per prescrivere farmaci, né per fare diagnosi, né per fare… ma assistere. Cioè, è la sua mission. Ora, una persona che resta dieci giorni e che viene, come dire, lentamente portata alla morte, cioè non viene deliberatamente assistita. Questo richiama fortemente sul fatto che le condizioni di vita di queste strutture, spesso condizioni alienate, alienate nel senso di una perdita di consapevolezza dell’esistenza di un altro, fino a considerarlo insignificante,

privo di storia, privo di una vita stessa.

La disumanizzazione del paziente acuto torna così a figurare in filigrana come l’elemento propulsivo, ad un

livello emotivo-ideologico, della contenzione e dei suoi effetti deleteri, mentre il quadro delle responsabilità

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