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Cosa scoraggia la pubblica indignazione: silenzio forzato o intenzionale?

Nel documento integrale... (pagine 127-130)

3.6. Fattori ostativi: cosa contribuisce a negare il diritto dei pazienti psichiatrici

3.6.3. Cosa scoraggia la pubblica indignazione: silenzio forzato o intenzionale?

Giunti a questo punto dell’analisi, occorre chiedersi quali siano i fattori ostativi che a livello collettivo

impediscono la pubblica indignazione nei confronti della contenzione nei reparti ospedalieri psichiatrici.

Nel considerare le risposte a questo quesito dei soggetti esperti intervistati, il circolo si chiude e torniamo

ai fattori culturali e alle rappresentazioni collettive del malato di mente (cfr. par 3.2.). La contenzione, a

detta di tutti, non è al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, come anche delle istituzioni politiche e

giuridiche. Sul perché, nonostante Basaglia, non vi sia stata alcuna forma di opposizione della società civile

le forme più coercitive di trattamento dei pazienti psichiatrici nei SPDC, la risposta di Di Palma è esemplare,

per le implicazioni sociologiche che reca con sé. Il “diverso”, che non si attiene alle convenzioni sociali, deve

esistere per preservare la forza delle norme. Che poi soffra e venga fatto soffrire anche nelle istituzioni che

sarebbero deputate alla cura è anch’esso funzionale a preservare, nel cittadino metropolitano, un’immagine di

sé come persona che, nel rinunciare alla propria “libertà di movimento” e nell’interiorizzare le contraddizioni

sistemiche, ha guadagnato il diritto al benessere. Che poi si tratti di un benessere fondato sull’effimero, poco

importa. Contenere, anche legando, chi non si adegua ad un determinato sistema normativo serve dunque

anche a contenere il proprio senso di oppressione e di caducità e a credere di non potersi rompere, mentre il

paziente internato sarà portato a credere di essere fragile come il vetro, per richiamare l’immagine suggestiva

che lo stesso Di Palma richiama nel brano di intervista che segue:

I - Quindi quali sono i fattori che ostacolano una regolamentazione diversa della contenzione? Nel senso che l’impressione anche da quello che dice è che sia tutto molto sotterraneo. Per quale motivo non si arriva a decidere e regolare diversamente questo fenomeno che esiste?

Di Palma: Io credo che culturalmente noi non abbiamo superato, ma noi come società, non parlo dei giuristi né degli avvocati, né del legislatore, noi non abbiamo ancora superato il concetto manicomiale della psichiatria che è quello di tenere sotto controllo i soggetti diversi. E quindi questa cosa, anche al legislatore, non interessa molto sollecitarla dal punto di vista legislativo, non ha interesse a modificare la norma perché sa che va a toccare delle corde che fanno paura all’uomo della strada, perché quando uno ha una malattia psichiatrica è pericoloso, per posizione, anche se non è così nella realtà però poi succede questo. Noi non accettiamo facilmente la diversità. C’è stato il presidente della Corte Suprema USA, tale Huggs, morto nel 1948, quindi probabilmente parliamo del 1930, che ha detto una frase: “Se noi perdiamo il diritto di essere

Capitolo 3 - La dignità negata. Sguardi esperti e multifocali sui nodi della contenzione meccanica

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diversi, perdiamo il privilegio di essere liberi”. Però questa cosa non passa tanto, perché, nonostante tutto, il diverso ti fa venire qualche dubbio: “Perché questa persona è diversa? Perché non si attiene ai canoni? Perché costringe me uomo della strada a riflettere sulla possibilità che esistano modi diversi di vivere, che esistano esigenze diverse?”. C’è un libro molto bello, sempre sull’esperienza manicomiale, di un tizio che è stato dentro, mi pare si intitoli Il cavallo azzurro, in cui si racconta di un soggetto convinto di essere di vetro che sta nel manicomio, siamo prima della legge Basaglia, e siccome ritiene di essere di vetro non vuole essere avvicinato da nessuno perché, credendo di essere di vetro, ha paura di rompersi, quindi quando qualcuno si avvicina si agita e quindi è un malato psichiatrico che viene riempito di farmaci, sta in un reparto psichiatrico, etc. Voglio dire, non è un soggetto pericoloso, ma se noi gli diamo una stanza con tutti i materassi intorno, in cui è tranquillo, perché se sbatte cade su una superficie morbida, non è una soluzione al suo problema, senza traumatizzarlo quotidianamente con farmaci che servono a sedarlo, tanto è uno che ha comunque passato la vita in manicomio, ma nessuno gli ha dato i materassi, gli davano gli psicofarmaci. Non lo avremmo curato, se era una malattia, ma nemmeno lo avremmo fatto soffrire tanto, questo dico io.

Sostanzialmente dello stesso avviso è Lorenzo Toresini, che sottolinea come nelle società contemporanee vi

sia un bisogno endemico di capri espiatori, verso i quali dislocare la propria aggressività, per le frustrazioni

vissute (Dollard et al. 1939; tr. it., 1967). A questo bisogno si connette strettamente quello di costruire la

propria identità per differenza da qualche categoria sociale dalla quale si intende prendere le distanze. In

questa cornice interpretativa, disegnata da Di Palma e Toresini, l’apparenza di libertà, tipica delle società

post-moderne, nella illusione di autodeterminazione delle proprie scelte e del proprio destino, assume una

consistenza (sempre apparente) fintantoché coloro i quali sottraendosi, seppure inintenzionalmente, alla

morsa di quelle norme e convenzioni sociali che contribuiscono a rendere solo illusoria la libertà del cittadino

post-moderno, continueranno ad essere legati.

Toresini: Secondo me, c’è qualcosa di estremamente attuale, nel presente, che è il bisogno di un capro espiatorio. O meglio, il bisogno di follia, da parte della società razionale o meglio ancora da parte della ragione, perché la ragione ha bisogno che ci sia la sragione – e non è un caso che il manicomio moderno sia nato con la Rivoluzione Francese, e quindi con il secolo dei Lumi eccetera, a mio modesto avviso - perché più esiste la sragione, più la sragione può essere definita pericolosa e in fondo la contenzione è il monumento alla sragione pericolosa, come l’OPG peraltro, e in questo modo la ragione si autolegittima. Come, mutatis

mutandis, i ricchi hanno bisogno dei poveri per essere ricchi. I - O come lo straniero…

Toresini: … in qualche modo è il capro espiatorio sul quale riversare, in qualche modo, l’aggressività. C’è una famosa frase di Hitler che citai qualche settimana fa all’Istituto Italiano di cultura di Monaco, che diceva: “è dentro di noi. È meglio che sia fuori da noi, così sappiamo come combatterlo”. Se noi al posto dell’ebreo mettiamo il folle, è la stessa cosa.

I - Se non avessimo nemici…

Toeresini: Quindi, questa è l’attualità del bisogno di contenzione, per cui la società non protesta. In una visione strutturalista, foucaultiana51, il fatto che ci siano dei soggetti deboli legati getta un’ombra su tutta quella collettività, evidentemente, no? La collettività è tutta legata, finché ci sono degli individui legati. Viceversa, la collettività si sente rassicurata dal fatto che esista la follia e che esista quindi la contenzione nei manicomi, eccetera. Ecco perché la chiusura del manicomio di Trieste, per un certo numero di anni gettò nell’insicurezza, no? Poi dopo l’abbiamo superato... l’ho raccontata stamattina, questa cosa. E questo è quello che sta succedendo con la 180 in Italia, salvo il fatto che le contenzioni sono sopravvissute, purtroppo. (…) C’è un famoso proverbio: “Matto da legare”. E i proverbi sono radicati, son ben radicati. Hai voglia a

51 Il riferimento a Foucault dà modo di segnalare due scritti dell’autore, cui si rimanda il lettore, che spiccano nel panorama della letteratura per la profondità sociologica con cui sono trattate molte delle questioni che sono emerse induttivamente quale oggetto del presente capitolo: Storia della

superarlo questo radicamento nella coscienza collettiva!

I - Un’immagine fissa, uno stereotipo…

Toresini: Eh, lo stereotipo che riveste il significato di cui dicevo prima, il bisogno di matti da legare, che abbiamo tutti, insomma, intorno a noi. Finché ci saranno dei matti da legare, noi non saremo da legare.

Più pragmaticamente, la tesi che sembra, invece, suffragare ripetutamente Di Fiandra è che la contenzione

meccanica, prima ancora che ignorata dall’opinione pubblica, non sia al centro dell’attenzione delle élite

simboliche e, quindi, dei decisori politici. Lungo questa linea interpretativa, la cortina di silenzio che avvolge

l’opinione pubblica potrebbe essere intesa come un riflesso del disinteresse che coinvolge, in modo pressoché

generalizzato, i detentori del potere politico e culturale verso questa questione. Questa disattenzione è tanto

più anomala se si considera che in ambito psichiatrico e giuridico il nodo della contenzione è, invece, oggetto

di un corposo dibattito, che recentemente è approdato a due pubblicazioni di ampio respiro che meritano

una specifica attenzione (Del Giudice, 2015; Rossi, a c. di, 2015) e che trovano svariati punti di convergenza

con i contenuti del presente report.

È poi significativo ricordare l’ipotesi avanzata da Sangiorgio, già richiamata nel paragrafo dedicato alla

rivoluzione basagliana, secondo la quale la chiusura degli ospedali psichiatrici avrebbe prodotto un effetto

perverso (non voluto) che è quello di aver sollecitato, nell’immaginario collettivo, la credenza secondo la

quale una volta chiusi gli ospedali psichiatrici sarebbero state automaticamente dismesse tutta una serie

di pratiche coercitive, come la contenzione meccanica. A indiretto supporto di questa ipotesi, da quando

abbiamo iniziato a condurre questa indagine, abbiamo personalmente più volte parlato di contenzione ai

nostri amici, colleghi e conoscenti. La reazione più comune è stata di incredulità, come a dire: “ma esistono

ancora queste cose?”. Altre volte, la risposta al nostro invito a riflettere è stato un silenzio assordante, che

parla di quanto sia difficile richiamare l’attenzione su un diritto, quando a violarlo siano persone specializzate,

deputate a curare la salute e implicitamente autorizzate a tale violazione e quando il soggetto violato sia,

nella rappresentazione collettiva, “matto da legare”, ingestibile, socialmente pericoloso, anomicamente non

in linea con il sistema morale e normativo che regola la vita collettiva e, come tale, da tenere lontano

fisicamente, dalla propria sfera emotiva, cognitiva e di azione. Non muta in modo sostanziale lo stato delle

cose a livello di opinione pubblica il fatto che, come emerso progressivamente, la contenzione meccanica sia

in antitesi rispetto a qualsiasi riferimento etico e costituzionale di rispetto del malato e della propria libertà

personale, che si ponga in rapporto di aperta collisione con il giuramento di Ippocrate dei medici e con

qualsiasi codice deontologico delle professioni medico-infermieristiche, che i pareri esperti e la letteratura

convergano nel negarne il carattere terapeutico e nel riconoscerne i pesanti effetti negativi sulla salute del

paziente, che eclatanti eventi di cronaca abbiano richiamato l’attenzione sui rischi che la negligenza nel farne

uso possa condurre addirittura al decesso di pazienti. Tutti questi argomenti rimangono solo potenzialmente

efficaci nel risvegliare il pubblico dissenso. Ammesso siano elementi di realtà conosciuti (e non lo sono

affatto in modo esteso), rischiano di avere risonanza nell’immediato ed episodicamente, senza però riuscire,

nella maggior parte dei casi, ad abbattere tra i cittadini contemporanei lo spesso e solido muro che la cultura

psichiatrica e mediatica, nonché la più generalizzata e ancestrale costruzione del tabù della follia (Foucault,

1972), hanno edificato tra chi ragiona e chi è relegato, senza diritto di revoca, nel dominio dell’irrazionale.

In effetti, come argomenta Di Palma, oggi ridestare l’attenzione della pubblica opinione e delle élite simboliche

sulla violazione dei diritti dei malati psichiatrici, dentro e fuori i reparti ospedalieri, è paradossalmente molto

più difficile rispetto a quando esisteva l’istituto manicomiale, dove i maltrattamenti e le condizioni deplorevoli

erano così eclatanti da reclamare una sollecita risposta a livello di coscienza collettiva e di interventi politici:

I - Quindi negli anni, non so quanti anni si è fatto largo una posizione di reazione al movimento basagliano nella società italiana? Cioè possiamo immaginare una parabola da questo punto di vista, una parabola discendente che è arrivata al suo culmine negli anni 70/80’ con l’approvazione della legge Basaglia, un nuovo sistema sanitario di trattamento e di concezione del disagio psichico che però è andato nel tempo scemando quasi addirittura un ritorno

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indietro, una spirale circolare di un ritorno al passato, è così? Stiamo tornando al passato?

Di Palma: Sicuramente si, siamo in una fase discendente, anche perché non dimentichiamoci che quando Basaglia, che poi non è l’unico… andrebbero nominati altri psichiatrici tutto fa sempre capo a Basaglia ma non è solo Basaglia, quando Basaglia fa la sua apparizione come era la realtà dei manicomi? È naturale che qualcuno a un certo punto sia entrato e abbia detto: “Ma cosa stiamo facendo?” Una cosa che leggendo i libri di Basaglia e gli articoli di quegli anni, la prima cosa che dicono loro è: “Quando entri nel reparto psichiatrico la puzza di cacca è terrificante, la gente è nuda, non ha posto per sedersi, si rotola in mezzo alle feci”. Lo dicono gli psichiatri, io non ho mai visto queste cose, è chiaro che è talmente avvilente una cosa del genere che uno spirito un minimo sensibile dice dobbiamo fare qualcosa. Oggi questa realtà (a parte gli OPG, dove ancora succedono cose terrificanti) è più contenuta, è più nascosta, se ne parla di meno, è più nascosta. Ma perché non è in un’accezione più generalizzata un manicomio quello di ritenere una persona a priori necessitante di stare sotto farmaco per 50 anni, anche se per questo non subisce violenze fisiche quali quelle di essere nudo, abbandonato, non avere un letto, non poter mangiare o cose del genere? Quelle sono cose talmente forti che qualunque persona direbbe: “Dobbiamo fare qualcosa”. Non a caso, perché nasce la legge Basaglia? Perché c’era stato il movimento referendario promosso dai radicali che voleva chiudere i manicomi, ma come sarebbe finito quel referendum? Sicuramente con la chiusura del manicomio perché basta vedere due immagini, due e qualunque uomo, qualunque esso sia, per quanto spaventato, dice: “Un uomo non può stare in queste condizioni; sicuramente dobbiamo chiudere il manicomio”, perché è troppo forte, è un cazzotto nello stomaco l’immagine del soggetto legato, rasato, buttato per terra, che si ciondola in continuazione, che sbatte contro il muro senza che nessuno lo controlli. È chiaro che il manicomio va chiuso, è chiaro che interviene lo Stato e fa una legge che evita il ricorso al referendum per la chiusura del manicomio, ecco perché nasce la legge Basaglia. Ma gli animi più sensibili, più attenti anche nella discussione in Parlamento di quella che diventerà la legge Basaglia cosa fanno? Rilevano tutte le incongruenze giuridiche e di mancata tutela di quella persona e soprattutto del fatto che si delega allo psichiatra una funzione di controllo che non gli spetta. Se voi rileggete i lavori del parlamento del 13/12/1977, nell’aula c’è un parlamentare Radicale che solleva tutte queste questioni e dice: “Ma noi non possiamo affidare allo psichiatra queste funzioni di ordine pubblico. Ma non può essere questa cosa”.

3.7. Azioni sinergiche verso la co-costruzione di una rete per slegare i

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