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Cartografie della crisi

Nel documento integrale... (pagine 145-150)

Le biografie narrano di numerosi episodi critici nel corso della vita e della loro gestione, secondo una

cartografia variegata di cause, vissuti e approdi trattamentali. Il ricovero in SPDC e, spesso, in strutture

private o convenzionate, è “la” risposta alle crisi che il sistema offre, se si fa eccezione per rari episodi

narrati di come sia stato possibile prevenire o governare la crisi senza ricorrere a un ricovero

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. Le narrazioni

56 F1 riporta numerosi ricoveri soprattutto in cliniche private e 3 TSO, M1 rispettivamente 3 e 2, M2 circa una decina di ricoveri anche volontari e 4-5 TSO, M3 16 ricoveri, tra SPDC e cliniche, e 3 TSO

Capitolo 4 - Biografie della contenzione. Una traccia di lettura tra vissuti, rappresentazioni e ipotesi interpretative

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descrivono ricoveri volontari, ricoveri e TSO accettati e/o negoziati più o meno attivamente o forzatamente,

di TSO subiti tout court.

4.4.1. Il ricovero volontario. Gli SPDC come luogo della tregua

Nelle biografie raccolte, nei vissuti della crisi gli episodi di ricovero volontario in SPDC, sebbene siano

minoritari rispetto alle modalità negoziate o obbligate attraverso TSO, rappresentano in alcune situazioni

una risorsa di tutela.

4.4.1.1. Un SPDC “ponte” per i periodi di transizione

Alcune delle situazioni descritte riguardano la “copertura” di un periodo di transizione, da una situazione a

rischio a una maggiormente adeguata, e in qualche modo il reparto diventa insieme tregua e “ponte” e risolve

problemi concreti di vita. In quest’ultima accezione c’è forse da chiedersi quanto questo sia un compito forse

improprio, di supplenza, a volte più sociale che sanitario:

L’ultimo ricovero perché non andavo d’accordo con i fratelli, io prendo il leponex, se io di notte mi sveglio malamente un po’ che sono emotivo un po’ il farmaco, non dormo più, e a casa mia c’erano delle cose fuori dal normale, potevi svegliarti di notte e dovevi magari togliere di mano il coltello al fratello, che si sarebbero ammazzati, eravamo in quella casa diciamo habitué di polizia, ambulanze e carabinieri, li conoscevo tutti quanti perché … io di notte mi svegliavo e dividevo i miei fratelli per queste cose. E sono andato al Giovanni Bosco e ho raccontato queste cose e mi hanno tutelato

I - In quel caso hai chiesto tu il ricovero?

Sì sì, ho chiesto io, hanno detto vuoi fermati un po’ qui? e ho detto di sì, mi sono fermato. Sono rimasto lì alla fine perché a casa non potevo tornarci. [M1]

La stessa biografia ben racconta di come, al di là della finalità sociale, e di quella dell’immediata tutela

personale, l’SPDC in questo caso sia stato una tregua, riprendere un ritmo di vita che il protagonista ricorda

come un passaggio per sé positivo:

Lo conosco [il reparto], e io stavo benissimo, i materassi erano comodissimi, l’unica cosa che non mi andava giù, nel primo periodo, perché io sono un po’ vergognoso per queste cose, ma forse era il farmaco, perché ho visto anche altri ragazzi che erano lì, che se la facevano addosso, praticamente di notte dormivo, dovevo andare al bagno ma invece la facevo nel letto, ed ero vergognoso, mi capitava solo di notte. Comunque per me già il solo fatto di avere una tranquillità, andavo a dormire e mi svegliavo la mattina, alle sette, ed ero lucidissimo e riposato, fisicamente e mentalmente, facevo la mia colazione e rispettavo degli orari, la sera a letto e la mattina mi alzavo, ed era una cosa fuori dal comune, non ero più abituato. [M1]

4.4.1.2. In reparto contro il disorientamento e la perdita di controllo

Il ricovero volontario è, poi, una risposta che la persona cerca quando percepisce e riconosce una perdita di

controllo e una temporanea incapacità a governare l’andamento della malattia. Entrambe le esperienze che

seguono descrivono l’impatto della perdita del controllo e il bisogno di un sostegno a partire da particolari

episodi critici. In un caso si tratta di un evento critico che incide sull’immagine stessa che il protagonista ha

di sé, in cui si innesta la pressione della famiglia, che egli assume come legittima:

È scattato quel meccanismo di passaggio dalla fase depressiva a quella euforica, per cui non essendo ancora padrone di questa situazione ho sospeso i farmaci in modo autonomo, e quindi sono passato in questa fase maniacale. No no,

non è stato un TSO, è stato volontario perché l’episodio era stato abbastanza violento

I - Ho capito. Non hai voglia di parlarmene?

È stato una notte, con la mia ex moglie ho avuto un attimo di crisi per cui l’ho presa per i capelli, l’ho tirata e questo è stato sconvolgente, per me. Non era il mio modo di essere, ed è stato un episodio per me davvero strano. Ho chiesto io il ricovero su consiglio di tutta la famiglia [M2]

In un’altra biografia si tratta del disorientamento provocato dal riemergere di un disagio acuto dopo anni

di stabilizzazione; il ricorso al (allora neonato) SPDC però dura poco, il bisogno di sostegno è reale ma la

struttura si rivela troppo chiusa e inadeguata:

Nel ‘79 a quasi quattro anni dalla crisi di Grugliasco sto di nuovo male […] Dopo il ’79, dopo la riforma, c’era ancora G., piazzato ora nel repartino delle Molinette, il primo che hanno fatto a Torino, e allora io sono andato lì.

I - Sei andato di tua volontà, in quel caso?

Sì, di mia volontà però poi sono scappato, poi sono tornato, non ricordo, ricordo che stavo sempre vicino alla porta che aveva un comando elettrico e quando entrava qualcuno che andava a trovare qualcuno io passavo… e uop! E c’era un compagno, P., con un camion sotto le Molinette e mi ha portato al bar in via Tarino! [M3]

In un caso infine l’SPDC ha offerto la possibilità di gestire una situazione famigliare tesa, sul crinale; il

protagonista non descrive una situazione fuori controllo, quanto piuttosto riconosce percezioni e necessità

famigliari e legittima così la scelta responsabile di “dare respiro” ai suoi. Ciò che trova disponibile e accessibile,

a questo scopo, è il reparto:

C’è stato un minimo di responsabilità anche nei confronti della famiglia, dopo un po’ la moglie si innervosisce diciamo così per usare un eufemismo, quindi togliere quei 15 giorni di ricovero allenta la tensione e può essere utile anche per i rapporti sociali. Non essendo in euforia gigantesca per cui uno si crede il padrone del mondo, però un po’ sopra le righe, ma se riesci a prendere coscienza è possibile anche giungere a un compromesso di questo tipo [M2]

4.4.2. Ricoveri “negoziati”. Un consenso asimmetrico senza troppe alternative

La richiesta di adesione da parte delle equipe curanti alle proposte di ricovero - in SPDC o in strutture

private – è, nelle biografie raccolte, pratica frequente, oggetto di una adesione che, pur nella netta

asimmetria della relazione medico-paziente che non ne fa propriamente una “negoziazione”, implica

comunque una comunicazione e una gestione ragionata della decisione. È, cioè, una adesione per lo più

senza alternative reali, che tuttavia nei racconti offre lo spazio per la comprensione degli obiettivi e delle

ragioni di una proposta:

Ci sono stati dei momenti, e sempre più frequenti nel corso dell’università, dei momenti in cui crollava la mia situazione clinica e crollando questa crollava anche quella psicologica perché voleva dire che stavo perdendo il controllo, e dovevo essere ricoverata. E dunque sono stata ricoverata a Fara per un mese, poi a San Giorgio, a Viverone, sono stata ricoverata, avendo dato gli esami di medicina, sul lago di Garda

I - Scusami, questi ricoveri erano richiesti da te o predisposti da altri? Erano sollecitati dall’equipe, dal mio

psichiatra e dal mio nutrizionista [F1]

4.4.2.1. Ricoveri-parcheggio, ricoveri-transito

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al percorso trattamentale stabilito. In questi casi entra prepotentemente in scena il sistema privato, anche

a causa dei limiti di quello pubblico, e questo implica una variabile in più, la qualità spesso scarsa se non

ai limiti dell’illecito delle strutture private. È soprattutto rispetto a questa rete che si verificano le maggiori

criticità e che si rivela la scarsa o nulla capacità negoziale del paziente:

In attesa di Moncrivello e anche perché dopo 4 mesi volevano liberare posti per magari qualcuno che se ne faceva qualcosa, e sono stata mandata a Villa Cristina. 4 mesi a Villa Cristina. Quella è stata davvero una deportazione. Mi ha mandato il CSM, dovevano fare le pratiche burocratiche per Moncrivello e non sapevano dove farmi stare, alle Molinette non potevo più stare, era un parcheggio [F1]

Poi G. [SPDC Molinette] mi dice vuoi andare al Fatebenefratelli? E io ma se vuoi che vada, vado… era un posto assolutamente impossibile… E cosa avresti dovuto fare lì? Boh, stare lì, allora non si usava affatto, adesso si usa molto, dopo il repartino ti fanno fare un periodo di post acuzie, la chiamano, e in genere in una casa di cura, allora non si usava e non so perché G. mi avesse proposto il Fatebenefratelli che faceva pena come Villa Cristina, più o meno, non era una caserma ma… Comunque quello era un postaccio. [M3]

4.4.2.2. TSO e silenziosi assensi

Contraddizione in termini, anche sul TSO viene a volte chiesto una sorta di consenso e di adesione, i

medici offrono al paziente una motivazione esplicita dell’opportunità di questa scelta e cercano di motivarlo

ad accettarla senza resistenza. In questo caso quello che è in gioco non è il consenso, ovviamente, ma la

possibilità di gestire la procedura del trattamento obbligatorio in maniera meno violenta, di addolcirne

l’impatto evitando una rischiosa catena di azioni e reazioni. In questa testimonianza questo dispositivo

di indotto “silenzioso assenso” è ben raccontato, e si intuiscono le buone ragioni che stanno alla base

dell’adesione:

Ho avuto poi altri TSO qui a Torino, 4 o 5 [...] Ovviamente pochissimi in fase depressiva, che per lo più me li passavo a casa, ma nelle fasi maniacali, erano dei TSO abbastanza concordati

I - Mi spieghi bene cosa vuol dire TSO concordati?

Diciamo che venivano accettati da me, non è che fossero violenti o con intervento di polizia, di forze dell’ordine.

I - Però se è un TSO non è che lo decidi tu…

No, ti viene proposto dallo psichiatra, e ti viene detto o lo facciamo così e ti accompagniamo con gli infermieri oppure… e diventa violento, con polizia o carabinieri e ti portano con la forza. Io tendenzialmente dicevo di no, non volevo ricoverarmi, poi davo non dico un consenso ma un assenso silenzioso, per lo più. [M2]

4.4.3. La gestione delle crisi tramite TSO (senza adesione alcuna)

Le persone intervistate hanno inanellato nel corso della vita un buon numero di esperienze di TSO, oltre

a quelle che hanno implicato una pratica delle contenzione, descritte più avanti. I racconti descrivono i

TSO “puri”, subìti senza adesione, come risposta a tre diverse tipologie di situazioni: il rischio sanitario, la

ribellione alle terapie e le pressioni famigliari.

4.4.3.1. L’alto rischio sanitario

Il rischio stesso della vita, in un caso, o comunque una situazione fortemente compromessa sono alla base

della decisione di questi TSO: nel primo caso la protagonista riconoscerà ai medici ex post lo “stato di

necessità”, nel secondo resta aperto il dubbio sul fatto che forse un’alternativa si poteva trovare.

Nel 2007 ho cominciato a perdere il controllo di queste cose e siamo arrivati al TSO, a un certo punto. E me ne hanno fatti tre di seguito, di TSO […] Io mi sono prescritta – perché ero medico e mi prescrivevo i farmaci – mi ero prescritta una cartina di Lasix, perché avevo preso due etti… e mi son trovata con il potassio a zero da arresto cardiaco [F1]

Uno mi è successo qui [a casa], è arrivata la SUP [Servizio Urgenza Psichiatrica], io non è che mi ricordi che ci fosse troppo casino, e anche qui mi han fatto l’iniezione e mi hanno imbragato e sono arrivato al repartino al Mauriziano dove c’era una dottoressa che era una brava dottoressa ma non aveva molta idea di come aiutarmi, guarda te lo faccio fare io il TSO, se no ti rovini [M3 ].

4.4.3.2. Contro la ribellione alla terapia

L’esplicito rifiuto del, e la resistenza al, trattamento motivano la scelta del TSO, in mancanza di una adesione

alla proposta terapeutica. In un caso anche come reazione alla ribellione radicale della paziente:

Poi mi hanno portata una seconda volta lì, sperando che… però io ho dato di testa, ho distrutto tutto, non ci volevo stare, perché mi han detto stavolta stai alle nostre regole.

I - Ti sei ribellata…

Sì, ha voluto dire che ho distrutto il reparto, ho buttato giù le piante, ho strappato tabelloni dalla parete mi sono anche fatta male a un piede e sono finita al pronto soccorso… non volevo starci e allora il medico del reparto mi ha detto in ambulanza e su a Torino in TSO e sono arrivata alle Molinette in TSO. [F1]

Il primo TSO l’ho avuto alle Molinette, nel 79, perché come fanno tutti io ho detto se voi mi tenete qui ancora o mi fate il TSO oppure è sequestro di persona e allora la A., che è una palluta, ha preso il modulo ha firmato e ecco qua il TSO, sei contento? E così me la sono tirata. [M3]

4.4.3.3. Le pressioni esterne. La famiglia

La resistenza al TSO ha, in questo vissuto, le sue ragioni nel non riconoscere il proprio momento come

momento di perdita di controllo e di acuzie, dunque nel non riconoscere il fondamento della decisione.

Qui, le pressioni sui medici da parte della famiglia, allarmata da alcuni comportamenti, porta a una dinamica

violenta, che lascia dietro di sé la percezione di un atto ingiustificato:

Ce n’è stato uno con i carabinieri, però, perché in quel momento non mi sentivo, cioè ero in fase maniacale ma non con punte, episodi diciamo eccessivi, secondo me. E lì è stato via San Secondo, un po’ perché era intervenuta la moglie di mio fratello che è avvocato ed è andata a intervenire presso la direzione, a rompere… e al distretto si sono sentiti obbligati a fare questo TSO.

I - Ma era accaduto qualcosa di preoccupante?

Ma diciamo che loro mi vedevano in questo stato di euforia e hanno pensato di intervenire, io ero già con mia moglie, che non è che abbia spinto ma insomma… c’è stato questo TSO [M2]

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