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Una violenza necessaria? Problemi etici, effetti e pericoli della contenzione meccanica

Nel documento integrale... (pagine 53-56)

Il dibattito internazionale sulla legittimità della contenzione meccanica in psichiatria ruota attorno ad alcune

questioni principali, riassumibili nei seguenti termini:

• problemi etici legati all’utilizzo di strumenti atti a limitare la libertà individuale;

• presenza o assenza di effetti terapeutici legati a tale tipo di pratica;

• pericoli per la salute fisica del paziente risultanti dall’uso degli strumenti coercitivi;

• atteggiamento dei pazienti sottoposti a contenzione nei confronti dell’istituzione psichiatrica e della

propria malattia.

Il dilemma fondamentale sta nello stabilire come, e in che misura, l’uso di trattamenti coercitivi, quale

strumento a disposizione del medico, possa rispondere ed essere fedele ai codici dell’etica professionale

e al rispetto del paziente all’interno dell’attività di cura. L’emergere di una forte problematicità di ordine

deontologico, con conseguenze incisive anche a livello giuridico e medico-legale, si lega alla presenza,

all’interno della comunità psichiatrica, di due posizioni ideologiche contrapposte il cui confronto definisce

i margini di legittimità degli strumenti di contenzione.

2.2.1. La posizione giustificativa: l’utilizzo pragmatico della contenzione per la tutela in

situazioni di emergenza

Le argomentazioni a favore delle pratiche restraint si basano spesso sulla constatazione che le misure di

contenzione mantengono una propria funzionalità rispetto all’intervento terapeutico, in una gestione

“pragmatica” della sicurezza fisica del paziente (Gallagher, 2011). In questo quadro, l’uso della contenzione

meccanica risponde all’obbligo morale di ridurre la sofferenza del soggetto all’interno dei servizi di cura,

adeguandosi, per quanto possa sembrare paradossale, ad uno dei cardini del codice etico dell’attività

professionale legata all’assistenza medica: il principio di beneficenza. Nello specifico caso della tutela della

salute, tale principio è spesso utilizzato attraverso la massimizzazione dell’utilità derivante dall’intervento

terapeutico: lo staff medico è infatti raramente in grado di intervenire positivamente sulla salute senza creare

dei rischi aggiuntivi per il paziente (Mohr, 2010). In questo senso, è possibile ricondurre l’utilizzo della

contenzione meccanica all’interno del codice etico allorché si trovi un equilibrio fra la gestione della sicurezza

o del percorso terapeutico del paziente e i rischi e le criticità mediche che accompagnano l’uso di tali modalità

Capitolo 2 - L’analisi della contenzione meccanica in una prospettiva multidisciplinare

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“Contenere” la contenzione meccanica in Italia

di gestione del comportamento. A questo riguardo, il quadro deontologico e giuridico in Italia fornisce

spesso, anche se in forma generale, indicazioni sull’applicabilità delle forme di coercizione: la contenzione

fisica e meccanica può essere giustificata indirettamente all’interno del cosiddetto “stato di necessità” regolato

dall’articolo 54 del codice penale, attraverso cui si richiede che il personale assistenziale debba prodigarsi nel

preservare la salute e l’integrità fisica del paziente (Di Lorenzo et al., 2012). Da questa prospettiva, il mancato

intervento teso ad arginare i comportamenti aggressivi e violenti dei pazienti (la mancata contenzione) si

configurerebbe come crimine di omissione di soccorso e di abbandono di incapace (Cerasoli, 2007). Nel

momento in cui risultassero fallimentari i tentativi non coercitivi di gestione della situazione, l’utilizzo della

contenzione meccanica diventerebbe dunque un male necessario. Obbligo del personale è, in questo caso,

gestire l’intervento di contenzione rispettando alcuni standard capaci di ricostruire l’equilibrio fra bisogno

di sicurezza e tutela del paziente: la presenza di un numero sufficiente di personale per agire nel modo

più veloce possibile evitando altri possibili inconvenienti per l’incolumità del soggetto, la definizione chiara

dei ruoli di cui lo staff deve farsi carico nella gestione della contenzione, il controllo dello stato fisico del

paziente e della sua corretta posizione allo scopo di evitare infortuni, ecc. (Rocca et al., 2002). Tuttavia, il

rapporto fra coercizione e rispetto dei principi etici e pragmatici precedentemente descritti è sostenuto da

un equilibrio instabile. Molte sono infatti le critiche riferibili all’utilizzo dei mezzi di contenzione anche in

situazioni d’emergenza ed è diffusa la necessità di mettere a punto strumenti alternativi per la gestione dei

comportamenti aggressivi che accompagnano la domanda di servizi di cura in ambito psichiatrico.

2.2.2. No restraint: la posizione critica e delegittimante della contenzione

Nell’ottica e nel pensiero dell’approccio no restraint, la giustificazione della contenzione in base al principio di

beneficenza risulta falsamente costruita, fondandosi spesso su assunti taciti derivanti da retoriche terapeutiche

e morali che motivano, grazie all’asimmetria di potere esistente fra istituzione e paziente, le pratiche di

degradazione (Dal Lago, 2010). Nonostante la garanzia di sicurezza costituisca la motivazione principale

per l’utilizzo della contenzione, gli studi sul tema evidenziano invece un’implicita necessità relativa al

mantenimento del controllo della situazione (Taxis, 2002). Spesso, l’uso della contenzione da parte dello

staff assistenziale esula dal riferimento a principi prettamente etici. Secondo gli studi di Perkins et al. (2012),

il diffondersi delle pratiche coercitive all’interno dei servizi di cura viene più volte giustificato in base alle

necessità derivanti dal contesto di assistenza e alla mancanza di alternative, allorché viene incrinato il rapporto

di fiducia professionale fra i membri del personale e fra questi e i pazienti. Sono cruciali, a tale riguardo, le

evoluzioni delle policies inerenti ai servizi di cura, nonché le loro conseguenze sulla qualità dell’intervento e

sul tempo disponibile per costruire un mutua fiducia fra i soggetti protagonisti del setting terapeutico. Sono

inoltre diffusi i casi in cui le indicazioni formali sulla valutazione del rischio e sulla gestione dell’aggressività

dei pazienti vengono lasciate in sospeso, in favore di un intervento guidato da intuizioni personali e dalla

percezione di un pericolo immediato per lo staff. Tali dinamiche contribuiscono a restringere i confini entro

cui è possibile compiere un’analisi lucida e razionale sull’uso e l’applicabilità della contenzione e, molto

spesso, sono le stesse tensioni che gravano sulla cura degli stati acuti della sofferenza mentale a giustificare la

continua necessità di avvalersi di strumenti coercitivi. Come risultato, la presenza effettiva di atti violenti da

parte del paziente è raramente menzionata come causa di episodi di contenzione (Ryan, Bowers, 2006). Le

ragioni principali sono più spesso legate al confronto con atteggiamenti e comportamenti dei pazienti che,

in maniera più generale, perturbano lo status quo dell’assistenza, implicando soluzioni spesso impegnative e

onerose a livello cognitivo ed emozionale.

Piuttosto che sottolineare le carenze organizzativo-gestionali dei servizi di cura, tali evidenze costituiscono

l’epifenomeno di una criticità ben più profonda caratterizzante la contenzione nel suo complesso, capace

di delegittimare l’utilizzo di strumenti coercitivi entro il paradigma dell’etica professionale. Sebbene la

prevenzione di comportamenti aggressivi, il rispetto dell’incolumità del paziente e la garanzia di tranquillità/

gestibilità del luogo di cura siano esigenze non eludibili da parte del personale sanitario, in virtù della posizione

di garanzia di cui sono investiti per legge (Dodaro, 2013), l’utilizzo della contenzione – e della contenzione

meccanica in particolare – sottintende la costruzione di un rapporto medico-paziente fortemente improntato

alla passività e remissività del secondo nei confronti del primo. In altre parole, l’idea è che i professionisti della

salute siano esperti del settore e i pazienti, nel loro ruolo di malati, debbano essere i recettori cooperativi delle

terapie messe in atto (Mohr, 2010). In tali condizioni, diventa difficile giustificare le pratiche di contenzione

anche facendo riferimento alla neutralità della medicina, in quanto prestazione di un servizio tecnico: il

propendere per un’azione di custodia e di contenimento è spesso proporzionale al potere contrattuale che il

malato ha nei confronti del medico e, proprio in tale rapporto di forza, viene ricostruita la cura della malattia

o, viceversa, l’ineluttabilità della sofferenza. Purtroppo, il ritorno a retoriche che favoriscono la custodia

e l’isolamento delle persone “pericolose a sé e a gli altri”, seppur in modo occasionale e senza il supporto

dell’istituzione manicomiale, si lega implicitamente alla storia della psichiatria e all’inserimento progressivo

del trattamento della follia entro la cura medica. Come suggerisce Foucault (2003, tr. it., 2006), uno dei

problemi fondamentali dell’evoluzione della disciplina psichiatrica è stato da sempre la mancanza di un

“corpo malato”, su cui ricostruire chiaramente l’eziologia patologica e la possibilità d’intervento. A meno

di non ridurre la sofferenza mentale a condizioni di natura strettamente anatomo-patologica o relativa a

disfunzioni di ordine neurologico

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, la realtà del problema psichiatrico si costruisce progressivamente solo in

un’ottica relazionale, soprattutto nell’incontro fra psichiatra e paziente. Purtroppo, la traslazione della malattia

dal contesto biologico-individuale a quello relazionale generalmente non ostacola il tentativo di iscrivere la

malattia mentale all’interno di una sintomatologia medica di carattere generale: l’incontro psichiatra-paziente

riduce ancora il malato ad uno strumento oggettivo attraverso il quale mettere alla prova la verità scientifica

della disciplina. Si presume l’esistenza di un “corpo malato” e, in base a questa presunzione, si tende ad

oggettivare l’individuo «[…] come se fosse malato, instaurando un rapporto che non ha nulla di terapeutico,

dato che perpetua l’oggettivazione del paziente, fonte essa stessa di regressione e malattia» (Basaglia, 2010, p.

406). Così, l’obbligo morale di ridurre la sofferenza viene condizionato da una rappresentazione di coloro che

sono afflitti da gravi disturbi mentali come persone incapaci di capire i bisogni del trattamento e, proprio per

tale motivo, passibili di essere soggetti ad un intervento paternalistico del servizio di cura (Høyer et al., 2002). In

questo senso, azioni – come quelle di contenzione – messe in atto nell’interesse del paziente possono condurlo

verso la mortificazione della propria libertà e autonomia decisionale e con essa all’annullamento di qualsiasi

capacità di reagire ai rischi disfunzionali, regressivi o degenerativi che generalmente i disagi psichici recano

con sé. Proprio in riferimento a quest’ultimo punto è possibile ridefinire l’utilizzo dei mezzi di coercizione

come eticamente illegittimo. La moralità occidentale, infatti, si basa in buona parte sulla valorizzazione della

libertà individuale, attraverso la difesa dell’autonomia dei singoli in quanto diritto all’autodeterminazione

senza interferenze e controllo esterno e quale capacità di decidere e agire intenzionalmente (Mohr, 2010). In

questo senso, la contenzione meccanica – se non la contenzione in genere all’interno dei servizi psichiatrici – è

in profonda contraddizione rispetto a tale principio di autonomia, in quanto limita la libertà del paziente e

agisce contro la sua volontà.

L’uso della contenzione meccanica, anche in un contesto che ne giustifica la legittimità, mette dunque in gioco

un ben più profondo empasse di natura etica: perseguire il principio di beneficenza in situazioni di emergenza

entra necessariamente in conflitto con il rispetto dell’autonomia e dell’autodeterminazione del paziente.

Quale sarebbe dunque il principale dovere del personale assistenziale? Agire nella salvaguardia dell’incolumità

del paziente oppure supportare e difendere l’autonomia di quest’ultimo? Tale dilemma persiste solo nel caso

in cui si consideri la contenzione meccanica come un atto tendenzialmente terapeutico. Proprio su questa

considerazione, la posizione no restraint esprime la critica più forte nei confronti dei trattamenti coercitivi:

non solo viene negata la valenza medica e/o terapeutica di tali strumenti, ma il loro utilizzo può configurare,

a livello giuridico, il “sequestro di persona” e, secondo le circostanze, la “violenza privata” aggravata da

maltrattamenti (Dodaro, 2013, Ferioli, 2013). Come già riferito in introduzione, secondo Grassi e Ramaciotti

(2009, p. 15, corsivo aggiunto):

37 Sebbene tali rappresentazioni della malattia mentale possano sembrare oramai datate e caratterizzanti una pratica tipica del XIX e della prima metà del XX secolo, la tendenza a ridurre la realtà della malattia mentale ad elementi di natura organica e biologica sopravvive ancora oggi. Come affermano Brutti e Parlani Brutti (2006), nonostante l’analisi critica portata avanti dai movimenti antipsichiatrici e antimanicomiali, si è progressivamente affermato un modello psichiatrico che tende a soffocare l’importanza della psicanalisi, quale strumento di intervento per la salute mentale e utile alla cancellazione di ogni orizzonte di violenza fisica e morale, in favore del modello della psicofarmacologia che riduce la sofferenza ai soli meccanismi celebrali.

Capitolo 2 - L’analisi della contenzione meccanica in una prospettiva multidisciplinare

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“Contenere” la contenzione meccanica in Italia

Una psichiatria senza contenzione costituisce un obbligo giuridico e prima ancora deontologico. […] La contenzione meccanica, oltre a essere illecita, è anche segnale dell’inadeguatezza tecnica e organizzativa della struttura sanitaria ove sia praticata […] ancor più ingiustificata quando abbia luogo presso strutture quale i centri di diagnosi e cura, istituite proprio allo scopo di far fronte a situazioni di crisi.

A partire da queste considerazione emerge un altro interrogativo: come è possibile non rinvenire una

contraddizione in un sistema di cura psichiatrica che da un lato dovrebbe lavorare per promuovere l’autonomia

del paziente nel far fronte alle difficoltà e dall’altro nelle strategie di cura include la sottrazione della libertà

di movimento e di espressione?

Questa stessa perplessità è stata condivisa nel tempo anche a livello internazionale, come emerge da un report

redatto per conto del Californial Senate Office of Research (Mildred, 2002, cit. in Norcio, 2006, p. 3):

[…] queste misure non alleviano l’umana sofferenza o i sintomi psichiatrici, non modificano i comportamenti e causano invece frequentemente nei pazienti […] lesioni traumi emotivi e morte. Gli aspetti anti-terapeutici di queste misure consistono nel fatto che cercare di imporre trattamenti coercitivi produce sempre umiliazione, risentimento e resistenza ad ulteriori (e successivi) trattamenti che potrebbero essere di maggiore aiuto.

Considerare la valenza anti-terapeutica della misure coercitive permette, in sostanza, di scindere nella

consuetudine assistenziale la pratica della contenzione da quella del contenimento (Brutti, Parlani Brutti,

2006). Se con la prima si intende l’intervento violento teso al blocco della crisi, con la seconda si possono

raggruppare le procedure tese a definire il contesto applicativo di compiti utili a facilitare l’intervento di

cura; intervento necessariamente supportato da una trama comunicativa sviluppata tra medico e paziente

e fra questi e l’istituzione assistenziale più generale. Rifiutare la contenzione meccanica come prassi medica

conduce, dunque, la disciplina psichiatrica a sottolineare, laddove ce ne fosse bisogno, la distinzione fra

custodia, controllo e cura, al fine di evitare l’attribuzione alla custodia valore di cura e alla cura quello di

controllo (ibidem). Una condizione che, nell’ottica no restraint, si adatta maggiormente al nuovo ruolo che

deve assumere lo psichiatra in un panorama della sofferenza mentale radicalmente diverso rispetto ai secoli

precedenti: non si chiede più il controllo della pericolosità, quanto affrontare un arco ben più ampio di

forme di disagio mentale e la diffusione di entità psicopatologiche che abbracciano anche condizioni di

momentaneo malessere e infelicità. In un contesto europeo in cui alla rapidità evolutiva dei dispositivi e delle

strutture politiche ed economiche si accompagna una mancanza relativa all’analisi delle questioni sociali e

della vita collettiva, l’assistenza psichiatrica è costretta a fare oggetto d’intervento il più ampio panorama della

salute mentale, attenuando i processi di stigmatizzazione verso i degenti psichiatrici e impegnandosi per la

prevenzione e il recupero della sofferenza (Atti di convegno, 2006).

La posizione no restraint spoglia, dunque, l’uso della contenzione da ogni argomentazione che ne possa

valorizzare la legittimità: è uno strumento obsoleto, non al passo con le nuove richieste che coinvolgono i

servizi di cura, e tendenzialmente estraneo ad una corretta prassi medica. Se la contenzione meccanica non

ha effetti terapeutici, non ha senso interrogarsi sul suo inquadramento all’interno dei principi professionali;

costituisce semmai una palese infrazione dell’autonomia individuale o, addirittura, una violazione del

principio etico della non maleficenza, mettendo a rischio la salute e l’integrità fisica del paziente.

2.3. Alla ricerca di soluzioni al dibattito: lo studio empirico degli effetti

Nel documento integrale... (pagine 53-56)

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