3.3. La (in)compatibilità etico-normativa della contenzione
3.3.2. Il ricorso alla contenzione meccanica come forma di extrema ratio, legittimata sul piano
di reparto
La posizione della dirigente del Ministero della Salute, Di Fiandra, in materia di contenzione meccanica è
piuttosto articolata perché opera una distinzione tra ciò che è legale e ciò che lei stessa riterrebbe giusto sul
piano etico ed operativo. Se sul piano giuridico-normativo, ritiene che la contenzione sia assimilabile ad
un trattamento senza consenso e, come tale, normato da appositi riferimenti giuridici, che hanno avviato e
regolamentato l’esperienza dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) e che disciplinano il Sistema Sanitario
Nazionale, dall’altra la profonda conoscenza delle linee guida a livello nazionale e internazionale, nonché
delle situazioni di molti dei SPDC nelle varie regioni, la induce sostanzialmente ad assumere una posizione
personale totalmente contraria all’uso della contenzione meccanica, in quanto ritiene che (quasi sempre)
si potrebbe e dovrebbe, in nome di un principio di rispetto del malato, prevenire l’insorgenza di quelle
situazioni estreme che inducono a legare i pazienti.
Di Fiandra: La contenzione può essere legittima all’interno intanto di una cornice che è quella delle limitazioni rispetto ai trattamenti senza consenso [precedentemente ha fatto riferimento alla legge 180 e alla legge 833 sul Sistema Sanitario Nazionale che la ricomprende]. Ci sono alcune situazioni, che in genere sono le situazioni in cui c’è, si ravvisa una pericolosità per sé e per gli altri, c’è un danno, un rischio possibile per l’incolumità della
persona; perché una delle prime cose è il danno su sé stesso, o a terzi, in cui si agisce senza il consenso della persona che in quel momento non è in grado di dare. All’interno di questa cosa, chiaramente bisognerebbe valutare il peso di ogni intervento. Personalmente sono contraria ad ogni forma di contenzione, perché … I: Per ragioni anche etiche?
Di Fiandra: Anche etiche, ovviamente, il rispetto del paziente …
I: La distinzione, chiaramente, tra il livello normativo e la legittimità è un livello etico …
B. Sì, che però non è che è normato. Almeno che io sappia, non esiste un codice etico che dica che non si deve fare così.
A: Lei dice che è contraria perché …
B: Ma perché fin dove è possibile prevenire, e ci sono amplissimi spazi dove è prevenibile, non si deve fare.
Pietro Sangiorgio, seppure si unisca alla condanna unanime della contenzione, adotta un punto di vista
definibile come pragmatismo critico. Il punto di partenza si raccorda ad una posizione molto diffusa che è
quella che giustifica il ricorso alla contenzione come extrema ratio, cioè solo in casi eccezionali, in mancanza
di alternative o in stato di emergenza. In accordo con questa posizione, come è stato ricostruito nel cap. 1,
lo stesso decreto regio, che regolava gli istituti manicomiali (per quanto sia da considerarsi decaduto), come
anche tutti i riferimenti normativi successivi che, pur non facendo riferimento esplicito alla contenzione,
regolano i trattamenti psichiatrici non volontari nei SPDC (e in generale nelle strutture ospedaliere), primo
fra tutti il ricovero ospedaliero coatto (TSO), risultano collocarsi sullo stesso registro. Questi riferimenti
normativi autorizzano, cioè, l’uso della forza e della coercizione solo in casi estremi, di riconosciuto rischio
per l’incolumità del paziente o di altre persone (altri degenti, personale, …) e la scelta di ricorrervi, nella
sua discrezionalità, dovrebbe sempre passare per il vaglio di una serie di autorità esterne (come è nel caso
dei TSO) o, comunque, da parte di dirigenti sanitari interni alle strutture. Il risultato dell’ambiguità con
cui lo stato di estrema necessità è stato di volta in volta interpretato - come lo stesso Sangiorgio riconosce
criticamente basandosi sui risultati delle ricerche personalmente condotte nei SPDC e come tutti gli
intervistati unanimemente sottolineano - ha causato, però, nella realtà dei fatti, un uso spesso indiscriminato
e abusivo della contenzione in Italia. Anche mantenendo il richiamo (da molti intervistati considerato
debole) ai riferimenti normativi che legittimano la sopravvivenza della contenzione, soprattutto nei SPDC
che ne fanno un uso routinario, è possibile giustificatamente parlare di grave abuso, dal momento che se ne
fa comunemente ricorso anche in situazioni che non configurano un effettivo rischio per la vita o incolumità
del paziente, di altri degenti o dello staff.
I - Senta, esprima liberamente, se vuole, qual è la sua posizione nei confronti della pratiche di contenzione, in particolar modo della contenzione meccanica, nei SPDC.
Sangiorgio: Mah, la mia opinione è un’opinione, diciamo, abbastanza laica. Cioè, in questi sei anni in cui ho fatto la ricerca io mi sono reso conto che è possibile, in molte circostanze, limitare l’uso della contenzione a situazioni, diciamo, di assoluta necessità, dove per assoluta necessità intendiamo quelle in cui effettivamente si può creare una grave forma di pericolo per la vita del paziente. E tuttavia, quindi, sono convinto, da questa osservazione generale, che è possibile mantenere nei reparti un clima di relativo rispetto della dignità dei pazienti, della loro vita, e quindi fare a meno delle contenzioni in moltissime situazioni. In poche situazioni credo che questo sia, e sarà difatti, inevitabile, per cui io non credo sulla base della mia esperienza che è possibile eliminare tout court l’uso della contenzione nei reparti psichiatrici, perché si creano in circostanze particolari, nella relazione tra paziente aggressivo o agitato che sia, e struttura un clima in cui, diciamo, la forza è come la forma di cui parlava Winnicott quando pensava al bambino agitato, il genitore ha bisogno in alcune circostanze di poter limitare il malessere del bambino tenendolo fermo, constringendolo e impedendogli di farsi del male. E quindi credo che in situazioni estreme, come quelle che si possono verificare con una
Capitolo 3 - La dignità negata. Sguardi esperti e multifocali sui nodi della contenzione meccanica
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“Contenere” la contenzione meccanica in Italiacerta frequenza, sia utile ricorrere alla contenzione. Tuttavia ritengo … diciamo che l’80%, diciamo, un altissimo numero delle contenzioni che si verificano oggi, sono prevalentemente forme di legittimazione della coercizione che diventano abuso rispetto alla dignità, rispetto ai diritti del paziente, rispetto ai quali, diciamo, nulla si fa perché questo non accada.
L’abuso, di cui parla Sangiorgio, non risiede esclusivamente nella estrema discrezionalità, con cui in diversi
SPDC - proprio a partire dall’interpretazione dello stato di necessità - si decide di ricorrere alla contenzione,
ma investe anche i modi in cui essa viene effettivamente praticata nella vita quotidiana di reparto. A questo
livello, è d’obbligo sollevare almeno due questioni: 1) la durata della contenzione; 2) la sorveglianza sulla
stato di salute e sui bisogni del soggetto contenuto.
Al primo livello, i nostri intervistati convergono nel riconoscere quanto efficacemente messo in rilievo, tra
gli altri, da Dodaro:
“Abusiva è tanto la contenzione ingiustificata quanto, ovviamente, una contenzione che si protrae oltre la situazione di necessità che l’aveva originariamente giustificata. Ma quanto può durare la contenzione meccanica? Nessun protocollo operativo è in grado di fissare a priori la durata massima della contenzione, non potendosi sapere in anticipo per quanto si protrarrà lo stato di necessità. I protocolli si limitano a prevedere che la contenzione trovi applicazione limitatamente al tempo necessario per la risoluzione delle condizioni che l’hanno motivata e fissano un tempo di validità dell’atto prescrittivo che in media non supera le 12 ore. Scaduto il termine, l’atto può venire riconfermato per un numero di volte e per una durata complessiva che di fatto è indefinita. Una così ampia discrezionalità affidata al personale medico, sostanzialmente al di fuori di controlli stringenti di legalità da parte della magistratura, ha reso di fatto possibile che la contenzione si protragga al maggior numero di volte per molte ore o giorni. Dall’indagine PROGRES-ACUTI del 2001 è emerso infatti che nei 289 SPDC censiti la contenzione ha avuto nel 36% dei casi una durata pari o inferiore a sei ore, mentre nel 42% dei casi ha avuto una durata compresa tra sei e ventiquattro ore e nel 23% dei casi si è protratta persino oltre le 24 ore” (Dodaro, 2015, pp. 331-2).
Ad un secondo livello, è da sottolineare che se si seguissero le pratiche protocollate da molte delle linee
guida stilate a livello regionale o di reparto, anziché supplire alla carenza di personale, l’applicazione della
contenzione meccanica dovrebbe richiedere, sia al momento di avviare la pratica che in itinere per evitare gli
effetti più dannosi, prestazioni di cura (assistenza infermieristica e check up medici continuativi) che a ben
vedere si rivelerebbero ben più onerose sia di quelle effettivamente messe in atto sia di quelle che sarebbero
richieste da pratiche alternative di “contenimento” dell’angoscia e dell’aggressività su base relazionale.
Che questa richiesta rimanga in buona misura sistematicamente elusa e che spesso la contenzione sia un
espediente per non occuparsi di degenti troppo “impegnativi” è quanto sostanzialmente emerso nelle analisi
precedenti, che hanno associato la contenzione routinaria del paziente ad una sorta di misura di garanzia
del riposo del personale. Questa stessa indicazione di incuria per il degente contenuto si è derivata anche
dialogando con persone che hanno vissuto la contenzione e che hanno il preciso ricordo di essere stati
abbandonati, una volta legati, e di come le loro urla per essere slegati, o a volte anche solo per ricevere
dell’acqua da bere, rimanessero inascoltate (si veda anche al riguardo l’eloquente raccolta di testimonianze
in Manicardi, 2010).
Proprio contro le modalità con cui della contenzione meccanica si fa effettivamente uso all’interno dei SPDC
si è pronunciato fermamente, nell’aprile dell’anno in corso, il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB),
sottolineando, in questo modo, come la incompatibilità, prima ancora che giuridica, sia di natura prettamente
etica e quanto, come già evidenziato nei paragrafi precedenti, il riferimento allo “stato di necessità” sia stato
declinato di frequente, nella pratica, come mera “questione di comodo”. Si tratta di un documento di sedici
cartelle che, per il modo in cui documenta precisamente la situazione italiana e nel resto di Europa e per
la significatività che riveste nel percorso di riconoscimento dei diritti del malato psichiatrico, si è deciso di
riportare in appendice (cfr. Appendice 3.2.). Oltre a raccomandare la lettura di questo documento in forma
integrale, rispetto al discorso collettivo che qui si sta ricostruendo, è opportuno soffermarsi su alcuni passaggi
salienti dello stesso, che suffragano molti degli aspetti che il nostro report ha affrontato e affronterà.
Intanto, si tratta di un pronunciamento che parte dalla constatazione circa il carattere vano assunto dai
precedenti documenti prodotti dallo stesso CNB (1999; 2000):
“Il CNB si è già pronunciato diverse volte in merito alla contenzione, invitando al suo superamento. Questo nuovo pronunciamento nasce dalla constatazione che, nonostante gli anni intercorsi, la contenzione è ancora largamente applicata senza che si intravedano sforzi decisivi alla sua risoluzione e neppure una sufficiente sensibilità alla gravità del problema” (CNB, 2015, p. 1).
Oltre a dare accuratamente conto dei riferimenti normativi, più volte richiamati nel nostro report a sostegno
del carattere illegittimo della contenzione o comunque di un suo uso indiscriminato e approssimativo, e alla
serie di raccomandazioni importanti che a livello internazionale sono state emanate per scoraggiare l’uso
della contenzione, il CNB dimostra di essersi documentato accuratamente, prima di esprimere il proprio
parere, su come la contenzione sia praticata nelle strutture psichiatriche pubbliche e private e sulle strategie
alternative, ispirate ai SPDC no restraint.
La descrizione dello stato dei fatti nelle strutture italiane, che il CNB riporta a premessa del suo parere sulla
contenzione meccanica e che ricalca i risultati delle poche ricerche a disposizione a livello italiano già riportati
nel cap. 2, conferisce al parere espresso dal Comitato un carattere avveduto. Il fondamento del documento
prodotto dal CNB, prima ancora che su considerazioni d ordine etico sugli imprescindibili diritti universali
dell’uomo e del malato, poggia sulla conoscenza maturata in ambito nazionale e internazionale sulle modalità
di utilizzo della pratica posta come oggetto.
Di questa molteplicità di vedute rende conto, d’altra parte, la lettura dello stesso parere finale espresso dal
CNB, che si distingue, anche comparativamente rispetto alle raccomandazioni di altri Organismi regionali o
nazionali, per la consapevolezza e il realismo con cui si preoccupa da un lato di auspicare la necessità ferma
di superamento della contenzione meccanica, condannando di fatto la violazione dei diritti umani che essa
implica, e dall’altro di condannare e contenere il carattere indiscriminato e approssimativo che caratterizza
“l’attuale applicazione estensiva della contenzione”:
“In questo quadro il CNB:
- Ribadisce la necessità del superamento della contenzione, nell’ambito della promozione di una cultura della cura rispettosa dei diritti e della dignità delle persone, in specie le più vulnerabili.
- Condanna l’attuale applicazione estensiva della contenzione. È vero che la possibilità di usare la contenzione meccanica non è stata mai esclusa in via assoluta. Ma ciò dovrebbe essere interpretato come una cautela, rispetto a eventuali situazioni estreme di pericolo che i sanitari non siano in grado di fronteggiare in altro modo. Invece, questa “uscita di emergenza” – la si potrebbe definire -, assolutamente eccezionale, che permette ai sanitari di derogare dalla norma di non legare i pazienti contro la loro volontà, si è troppo spesso tramutata in una prassi a carattere routinario. La tolleranza, concessa in casi estremi per un intervento così lesivo della libertà e dignità della persona, è stata erroneamente interpretata come una licenza al suo ordinario utilizzo. - Ricorda a chi si prende cura delle persone sofferenti, ma anche alle istituzioni sanitarie competenti, che l’uso
della forza e la contenzione meccanica rappresentano in sé una violazione dei diritti fondamentali della persona.
La consapevolezza di questa violazione, con la responsabilità che ne discende, dovrebbe guidare l’azione quotidiana degli operatori sanitari e costituire uno stimolo alle istituzioni per adottare in maniera impellente tutte le misure possibili per raggiungere l’obiettivo del superamento della contenzione” (CNB, 2015, pp.15-6).
Capitolo 3 - La dignità negata. Sguardi esperti e multifocali sui nodi della contenzione meccanica