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Occasioni mancate. Un altro CSM è possibile?

Nel documento integrale... (pagine 139-143)

4.3. Percorsi dentro il sistema psichiatria

4.3.2. Occasioni mancate. Un altro CSM è possibile?

La psichiatria torinese, come credo anche altre, ha avuto un momento di grande entusiasmo negli anni della riforma, si sono affermati degli psichiatri molto capaci e molto umani, disposti ad ascoltare anche la psicologia del paziente, cosa che gli psichiatri tendenzialmente non fanno, un po’ perché non se ne intendono, e comunque non lo fanno [M3]

“Ascoltare la psicologia del paziente”: si annida qui, in questa frase, il cuore della critica che le biografie, in

modo certo sfaccettato ma in sostanziale sintonia, portano alla psichiatria territoriale. E si annida qui un

nodo paradigmatico, quello della cronicità versus la recovery, come descritto nei paragrafi che seguono.

4.3.2.1. Che cos’è la cura. Cronicità e guarigione

Una psichiatria territoriale non è oggi il problema, il problema poteva essere questo quando c’era da chiudere i manicomi, creare una psichiatria di comunità, oggi si tratta di rifondare una psichiatria che curi, che curi come deve, e deve farlo e farlo bene [M3]

Io non riesco a vedere altro che la tua storia nel tuo disagio, nel tuo dolore, pezzi della tua storia, hai avuto queste cose, in parte le hai dimenticate in parte puoi averle spostate, ci sono sistemi di autodifesa per cui le cose marciano ma tu ti porti dietro sempre le stesse cose, e allora se lo psichiatra non è in grado, fai una psicoterapia con uno che la sa fare! [M3]

Radicale questa definizione della frontiera della psichiatria oggi, vista dall’interno: come se nel tempo,

vinta la battaglia dell’istituzionalizzazione totale, si fosse persa quella del saper curare, con una drammatica

oscillazione verso il contenimento della cronicità come orizzonte pratico e di senso. La domanda di cura è

una domanda che esce forte dalle biografie e che orienta una critica pratica a tutto il sistema, di cui il CSM

è il regista. E se la regia non sa co-costruire con i pazienti una pratica della cura, si torna, magari in maniera

mistificata, a una missione di controllo e istituzionalizzazione:

Capitolo 4 - Biografie della contenzione. Una traccia di lettura tra vissuti, rappresentazioni e ipotesi interpretative

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“Contenere” la contenzione meccanica in Italia

Se non riesci a convincerlo [a curarsi] vuol dire che non te ne occupi abbastanza, e allora leghi, TSO, reparto, poi esci, poi dopo un po’ torni, a comando… ma questa non è una terapia, questa non è medicina, è un’altra cosa che non so cos’è, ma non è medicina [M3]

Una pratica della cura non può, per gli intervistati, espellere la prospettiva della guarigione, come oggi per

lo più avviene. Il tema della recovery è percepito e rappresentato non solo come un orizzonte di senso della

cura, ma anche come questione “politica”, un terreno di azione e di conflitto attorno a cui si gioca la partita

strategica per la psichiatria italiana. L’esperienza è, su questo piano, spesso negativa quando l’ambito è il CSM:

farmacocentrismo – come vedremo al paragrafo seguente - assenza di ascolto psicologico e, nella relazione

terapeutica, centratura sul deficit costruiscono la cronicità come destino, a cui i protagonisti contrappongono

una prospettiva evolutiva, in cui recovery può assumere molti significati, da quello di guarigione tout court a

quello di evoluzione personale giocata sul piano della qualità della vita.

È partita questa cosa delle storie di guarigione di cui si occupa Tibaldi, che dà visibilità alle storie di guarigione, perché la psichiatria funziona se c’è una alleanza tra paziente e medico e questa alleanza deve essere fondata anche su un sentire comune circa la possibilità anche della guarigione o comunque di un miglioramento, un miglioramento magari delle condizioni di vita, se non sarà la guarigione vorrà dire che sarà che io starò meglio, che non starò più come un cane come sto adesso.. E invece su questo dagli psichiatri che io sento a Torino non c’è un grande interesse [M3]

L’intervistata che dichiara “io non sono mai andata al CSM, mi sono iscritta al CSM perché servivano i soldi

per pagare la comunità, la psichiatra del CSM non è mai stata la mia psichiatra, lei faceva la scribacchina”

dà ragione delle sue scelte e del suo giudizio in base proprio al feedback di destino di cronicità ricevuto al

servizio:

E lei [psichiatra del CSM] mi diceva ma intanto tu con la storia clinica che hai sei destinata a rimanere malata per sempre, non troverai mai un lavoro, i soldi ti finiranno perché dovrai pagare le badanti ai tuoi genitori – che poi mio padre è molto più in gamba di lei, le stacca le orecchie a morsi se la sente… - e poi cosa vuoi avere una relazione sentimentale tu, che io che sono normale mi sono sposata ho fatto 4 figli e questo stronzo mo’ m’ha lasciata... e tu con questa storia clinica pensi di poter avere una vita sentimentale? [F1]

La cura che, in questa storia, si salva è quella di tipo sociale, per la quale riconosce al CSM un ruolo per lei

importante:

Il CSM mi è servito, uscita da Moncrivello non volevo tornare a casa dai miei e loro mi hanno messa in un gruppo appartamento, e quello mi è servito [F1]

Paradigma e approccio dunque, ma anche dinamiche in cui si intrecciano fattori di modello organizzativo,

gestione dei servizi e dei tempi dedicati ai pazienti, necessaria innovazione anche di management del servizio

qualora si voglia dare alla prospettiva della recovery le gambe per camminare. C’è anche, insomma, una

inerzia del modello operativo che avvolge e riavvolge il meccanismo già avvitato della cronicità:

Così sei stabile? Allora va bene. Così la situazione si cronicizza all’inverosimile, con queste persone che non vedono mai prospettive di cambiamento, di evoluzione. Anzi, nel momento in cui minacciano o rivendicano il loro diritto dicendo oh, ma io voglio cambiare… eh ma non ti agitare, se no te ne faccio un’altra! Perché? Perché fai perdere tempo, se poi stai male, mi scombussoli il programma della giornata […] Ho parlato tanto anche con Tibaldi, ma figurati, sì possiamo anche scalare ma poi dobbiamo parlarci, vedere come va, lo posso fare ma poi ti devo dare io come psichiatra la mia disponibilità a seguirti, nei momenti in cui si scala, alcuni psichiatri lo fanno, saranno due sul territorio nazionale? Due, non hanno tempo [F1]

Questa prospettiva di recovery – nelle sue diverse declinazioni soggettive - è possibile secondo le esperienze

degli intervistati dentro una relazione di alleanza con il terapeuta, dove una minor asimmetria consenta

apprendimenti reciproci e, insieme, dove la persona abbia l’opportunità di riconoscere e sviluppare le proprie

competenze, e “metterle al lavoro” per governare e gestire sia la sua malattia che la relazione terapeutica:

Io penso che il percorso che ogni paziente deve poter fare è quello di saper convivere con la sua malattia, perché questi disturbi, chi più chi meno ma tranne che per un 10% di remissività te li porti dietro tutta la vita. Devi dialogare con il mondo esterno e con le strutture ed è un percorso abbastanza complesso, spesso purtroppo non aiutato dalla controparte, intendendo come controparte la psichiatria in generale e a volte anche le associazioni [M2]

All’inizio io non sapevo qual era la domanda che facevo allo psicoterapeuta e lo psicoterapeuta non sapeva che risposta darmi, per cui parlavamo tanto ma io uscivo di lì dicendomi ma cosa ho detto? Non ho detto niente. Adesso ancora sono in psicoterapia ma adesso, dopo vent’anni, ogni volta che ci vado dico ah cazzo, sì… ci siamo parlati, ci siamo incontrati. [F1]

4.3.2.2. Farmacocentrismo, la malattia dei CSM

La mancanza di uno sguardo attento alla psicologia e alla storia del singolo e di una prospettiva evolutiva,

è messa in relazione – ed anche questa è questione paradigmatica – con la centralità del trattamento

farmacologico. Non c’è una lettura ideologica contro il farmaco, in queste biografie: l’importanza dei farmaci

è anzi raccontata come contenimento della sofferenza e come sostegno, anche, nel saper condurre la propria

quotidianità:

Questo [il farmaco] almeno ti risolve questa incapacità di risolvere i problemi anche semplici, che noi siamo capaci quando stiamo bene di risolvere, se non stai bene non sei capace neanche di metterti i pantaloni per il verso giusto, perché sei fuori di melone… [M3]

E tuttavia il farmaco trova la sua collocazione dentro i limiti di questa descrizione, che parla di contenere

e alleviare, mentre viene decisamente criticato quando abbia la pretesa di rappresentare la cura, dentro una

lettura biodeterminista in cui storia e psicologia del singolo non sono in scena e, tantomeno, vengono prese

in carico:

Sarebbe lungo il discorso sugli psicofarmaci, comunque io non penso che funzionino più di tanto se poi non c’è una terapia psicologica non è possibile aiutare nessuno a uscirne, se sono appena un po’ gravi. Poi questo farmaco può anche servire, in modo strumentale, daglielo perché sia più tranquillo, o perché dorma regolarmente, però il nocciolo del malessere mentale non è un fatto biologico, è fatto di storia personale, cose che tu hai avuto e se non si possono rimuovere si possono però correggere gli effetti che tu hai ancora oggi, prendere coscienza che ancora oggi tu stai patendo alcune cose come il bambino incazzato che è stato sgridato ingiustamente… Ecco questo è quello che cura, non i farmaci che non sono previsti per questo, ma sono nati per contrastare alcune [situazioni] ma non sono quelli, che “curano”. [M3]

E rarissimo che ti paghino una psicoterapia, rarissimo, anzi ormai la tendenza è quella di darti gli psicofarmaci a depot, magari che costino anche poco come l’Haldol, ma se anche costano di più non cambia niente[M3]

Se questo è lo sguardo del paziente, attorno alla scelta del farmaco e alla decisione attorno ai dosaggi si

gioca una partita negoziale o conflittuale che è davvero, in prima battuta, una questione di senso: e si può

pensare a un effetto positivo di una terapia senza senso? Di una terapia che non passi attraverso un processo

di significazione – ben più e ben prima che di accettazione - da parte di chi la assume? E come si può pensare

a una terapia efficace se non si fanno i conti con la compatibilità con quella che, soggettivamente per la

persona, è la qualità di vita che intende perseguire?

D’altra parte nel cronico, e ho avuto modo di vedere persone che frequentano il CSM, che è orrendo, sono poi polli da batteria, entrano si fanno il depot, riprescritto il depot per il mese dopo, neanche la possibilità di discutere dosi e non dosi, sto bene sto male, gli effetti collaterali? tanto sono normali, scalare la terapia?, ma no, non scalarla… [F1]

Capitolo 4 - Biografie della contenzione. Una traccia di lettura tra vissuti, rappresentazioni e ipotesi interpretative

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“Contenere” la contenzione meccanica in Italia

Io mi rifiuto di prendere l’Haldol, che serve per i momenti di euforia, Serenase, Haldol, due nomi commerciali per lo stesso farmaco, perché provoca tremore continuo e balli sulle due gambe, sempre, e sono effetti che non intendo subire, dato che ci sono farmaci alternativi. Anche questo farmaco viene somministrato a lento rilascio, facendoti delle punture piuttosto robuste di questa roba, riesci a contenere anche persone fuori dal repartino, però tu vedi queste persone che traballano e tremano

I - E non hai avuto accesso a un farmaco alternativo?

Mah sì, adesso ci sono due farmaci antidepressivi che se non utilizzati in dose massiccia sono degli stabilizzatori, ma se salgono le dosi… [M2]

Paradossalmente, nonostante questa centralità del farmaco nel trattamento del disagio psichiatrico, il sistema

dei servizi sembra curarsi poco della continuità terapeutica, quando dal CSM si passi all’SPDC: come tra

due repubbliche, cambiano le terapie e cambiano i dosaggi, in funzione non solo di una discontinuità di

tipo organizzativo ma anche di diverse logiche, tempistiche e modelli operativi, come meglio vedremo nel

capitolo sui ricoveri:

Il CSM che ti segue può fare due firme e mandarti in repartino con il TSO, se serve, però quello che va detto è che gli psichiatri non seguono davvero i loro pazienti quando si profila una crisi, tanto è vero che poi fatto il ricovero non vengono in reparto a vedere come stai e come non stai, nel repartino c’è altro personale e altre terapie, soprattutto, tu non fai più le terapie che ti ha prescritto il tuo psichiatra [M3]

4.3.2.3. Fordismo al CSM: minutaggio assistenziale e serialità

E mi fanno fin pena questi che lavorano lì dentro, sono oberati, dovrebbero fare loro una rivoluzione e dire che cazzo!, non ci va più di lavorare così…[F1]

Alle ricorrenti variabili della centralità del farmaco e dell’assenza di sostegno psicologico si aggancia, nelle

narrazioni, un modello gestionale e organizzativo del CSM segnato da una tempistica affannata e contratta

e da una percepita serialità standardizzata degli interventi. Quello che va sotto il nome di minutaggio

assistenziale, nome assai evocativo e importato nelle aziende sanitarie dalla peraltro superata organizzazione

fordista della fabbrica, ingabbia la relazione terapeutica in una tempistica sincopata che lascia poco spazio

all’individuo ma anche alla coppia paziente-curante e ai loro tempi soggettivi:

È così, io ho visto tanta gente disperata, non parlo con uno psicologo, non posso parlare con il mio psichiatra, abbiamo gli incontri con una scadenza ogni 42 giorni e mezzo… per dire, di 17 muniti virgola 42 secondi. Andiamo lì, solo il tempo di farmi calare le braghe e farmi la siringa, riconfermarla per la volta successiva, tanto… […] Sentivo proprio ieri una mia amica seguita dal CSM e diceva io andrei anche al CSM a chiedere aiuto, perché ieri stava male, diceva vorrei vomitare tutto ho una rabbia dentro, una rabbia, e io le dicevo ti capisco, ma prova, no?, ad andare al CSM, trovi qualcuno con cui parlare. E lei ma no, se vado mi fanno la siringa e perché? perché devono fare altro e non hanno tempo. [F1]

Al contempo e coerentemente con gli imperativi del minutaggio, nel CSM si aggancia la risposta terapeutica a

una standardizzazione senza la quale quei tempi stessi non potrebbero essere rispettati, perché individualizzare

vuol dire, inevitabilmente perdere tempo per confezionare un prodotto sartoriale. Eppure, dice un intervistato,

in altri tempi è stato possibile. Cosa fa la differenza? Le risorse, certo, ma anche la volontà degli psichiatri,

dunque il fattore culturale e della responsabilità professionale.

L’obiettivo è capire quale sia la cura e quali siano i tuoi obiettivi personali, ma non ci sono i tempi tecnici per riuscire a farlo, ci sono dei tempi che sono dovuti alla possibilità di interfacciarsi con un medico una volta al mese, mentre in certi periodi il paziente dovrebbe essere seguito più da vicino e magari con un supporto psicologico adeguato. Certe persone lo hanno, un supporto psicologico, a me non è mai capitato… Sarebbe possibile se ci fossero le risorse per

farlo. Magari anche le volontà degli psichiatri che non sono tutti uguali [M2]

4.3.2.4. Quando il CSM funziona (funzionava?): la relazione e il sistema

Le risorse e la volontà degli psichiatri, allora, cioè una scelta politica e una scelta culturale (o due scelte

politiche). Sul piano terapeutico, le biografie sembrano indicare un trend in discesa, negli ultimi anni, verso

un crescente disimpegno del servizio territoriale dalla relazione individualizzata. Il ricordo non molto recente

di un CSM che “funzionava” è legato a questa variabile, nonché alla continuità terapeutica e, insieme, alla

capacità del Centro di avere una presa in carico globale, integrata, della persona, che in questa testimonianza

è positivamente contrapposta al vis a vis con il solo terapeuta privato. Quando il CSM funziona la posizione

di utente diventa – rovesciando il precedente giudizio - una posizione di vantaggio rispetto a quella di cliente:

L’ho avuto [il supporto psicologico] solo all’inizio dallo psichiatra stesso, in corso Novara all’inizio con questa psichiatra con cui facevo le sedute psicologiche. […] Corso Novara, il primo servizio, terapia e poi rispetto al privato ho notato che nel pubblico c’era un po’ di attenzione alla persona, nel senso che con il privato facevo un incontro di un’ora, qualche domanda poi farmaci e via, mentre con la psichiatra del centro pubblico ho avuto la sensazione di essere più seguito, colloqui settimanali e poi certo l’aspetto farmacologico sempre, d’altronde gli psichiatri se non scrivono qualche ricetta non son contenti… Comunque erano gli anni ’90 e ho trovato una risposta un pochino più completa, quel centro era citato come quelli un po’ più all’avanguardia, era la Asl To4, allora. [M2]

In questo senso, il presente pare, a leggere le biografie, fatto di rare eccezioni, di cui si sottolinea l’aspetto

cruciale e decisivo della soggettività degli psichiatri, dei loro approcci e dei loro atteggiamenti personali e

professionali. Come di seguito si dirà rispetto alle pratiche di contenzione negli SPDC, anche nei CSM la

questione delle risorse mancanti disegna certo un contesto ostile e influente, ma di per sé non basta a spiegare

un orientamento e una pratica di aridità relazionale. Ci sono buoni esempi a dimostrarlo:

La situazione della psichiatria torinese è drammatica sul punto cure ma anche risorse, se vogliamo, anche se quello delle risorse è un discorso anche sbagliato… Z. è un bravo psichiatra, ha fatto tutto in questi anni anche se non c’erano soldi, non è che è cambiato qualcosa, se uno vuole fare lo fa, chiacchierare con i pazienti non è una cosa che costi molto, eh? Cerchiamo di non prenderci in giro su queste cose. [M3]

E, comunque, a voler parlare di risorse, esiste un patrimonio professionale nel pubblico che è e sarebbe

spendibile verso una psichiatria che cura:

Oggi ci sono psicologi che sono in grado di fare terapie idonee, non è come una volta che si diceva lo psicoanalista costa tanti soldi, ci sono psicologi anche nelle Asl, che ascoltano, ti dicono e ti curano. [M3]

Dall’esperienza vissuta arriva un ammonimento cruciale: il nesso tra povertà dell’offerta di cura da parte

dei servizi territoriali porta con sé un elevato rischio di re-istituzionalizzazione, perché se si crea un “buco

nero” di una psichiatria che non cura e che non promuove la qualità della vita, la bilancia dei vantaggi e

degli svantaggi potrebbe pendere (già pende) clamorosamente a favore di un contenimento più secco, meno

ambizioso (e più lucroso):

Questa è la via per mantenere una psichiatria territoriale, perché se no finisce che riaprono o fanno sempre

più utilizzo di strutture di contenimento, come già ce n’è tante, tantissime. [M3]

Nel documento integrale... (pagine 139-143)

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