2.3.1. Le indagini sperimentali sugli effetti della contenzione meccanica
o le misure di coercizione sono utili e necessarie, e impegno comune dell’assistenza è trovare un equilibrio tra
rischi e benefici della pratica, oppure, secondo la posizione no restraint, il loro uso è illegittimo ed è doveroso
auspicarne la definitiva scomparsa. Negli anni, la ricerca sugli effetti della contenzione ha cercato di trovare
una soluzione scientificamente orientata al dibattito presentato, utile a sciogliere le controversie che si sono
create sul tema. Come accennato, l’obiettivo è delineare un supporto empirico capace di descrivere la valenza
terapeutica della contenzione e, per questa via, stabilirne il ruolo all’interno della pratica medica, nel rispetto
del codice deontologico-professionale. A questo proposito, molti studi sul fenomeno sottolineano gli effetti
negativi determinati dall’utilizzo della contenzione meccanica all’interno dei servizi di cura (Kaltiala-Heino et
al., 2003, Mohr et al., 2003, Nunno et al., 2006). Ben documentati sono, ad esempio, i rischi per l’integrità
fisica del paziente: perdita di forza muscolare, ulcere causate da pressione, incontinenza, soffocamento e,
nei casi più estremi, morte (Berzlanovich, Schöpfer, Keil, 2012); effetti che si accompagnano alle misure di
coercizione anche nel contesto di un uso oculato, attento e limitato di tali strumenti. Risulta, inoltre, difficoltoso
stabilire gli effetti della contenzione sul più generale percorso terapeutico in cui è coinvolto il paziente. Se la
valutazione del beneficio terapeutico si basa sulla possibilità di condizionare il comportamento antisociale
dei soggetti, evitando al contempo le ricadute di azioni e atteggiamenti violenti, alcune ricerche sembrano
attribuire alla contenzione (spesso categorizzata in un’accezione più ampia: fisica, meccanica, ambientale)
un occasionale effetto positivo (Goren, Curtis, 1996, Whaley, Ramirez, 1980). Tuttavia, come mette in luce
Chamberlin (1985), un comportamento maggiormente accondiscendente dei pazienti, successivo all’utilizzo
della contenzione (spesso accompagnata da periodi di isolamento ambientale), sembra essere il risultato di
un rinforzo negativo: i soggetti imparano a eludere la contenzione giocando sulle aspettative del personale
assistenziale, benché non siano convinti degli effetti terapeutici di quest’ultima e sviluppando, allo stesso
tempo, un sentimento di rivalsa e frustrazione nei confronti dello staff.
In questo senso, la valutazione degli effetti della contenzione in relazione allo stato psicologico del paziente
evidenzia la profonda criticità di tali pratiche. Generalmente, le vittime della contenzione sono caratterizzate
da sentimenti di sconforto, rabbia, paura e risentimento (Scherer et al., 1993, Yang, Chung, 1996). Inoltre, gli
episodi di contenzione sembrano costituire un ostacolo aggiuntivo rispetto all’esperienza di cura, rinsaldando
la percezione dell’ineluttabilità della malattia e sviluppando, nei casi più estremi, una situazione traumatica
con gravi sviluppi nel lungo periodo a cui si accompagnano disordini da stress post-traumatico, soprattutto
laddove il paziente abbia avuto esperienze di abusi fisici o sessuali (Rakhmatullina et al., 2013). Generalmente,
l’utilizzo della coercizione (ad ogni livello) nel trattamento della salute mentale sembra mettere in moto
meccanismi di alienazione del paziente, riducendo il coinvolgimento di questi all’interno dell’interazione con
il personale assistenziale (Iversen, Høyer, Sexton, 2007, Kaltiala-Heino, Laippala, Salokangas, 1997).
Esiste, infatti, un circolo perverso della coercizione e della violenza all’interno della pratica psichiatrica che,
iniziando dall’ammissione involontaria del paziente, sollecita l’utilizzo degli strumenti di contenzione e finisce
con il produrre l’aumento degli episodi di ricovero coatto all’interno della storia clinica dell’interessato (Link
et al. 2008), anche dovuti alla percezione dell’intervento psichiatrico come un abuso operato dall’istituzione
medica e all’uscita dai percorsi esterni, di natura psichiatrica e psicoterapeutica, precedentemente intrapresi.
Da una parte, coloro che accedono involontariamente ai servizi di cura sono infatti maggiormente propensi
a sviluppare sentimenti di vergogna riguardo alla propria condizione e più vulnerabili alla stigmatizzazione
e alla mortificazione della propria autostima (Rüsch et al. 2014); dall’altra, il ricovero involontario aumenta
la possibilità di subire episodi di isolamento e contenzione, spingendo il paziente verso la percezione di
un’ulteriore umiliazione, oltre ad enfatizzare stati patologici legati alla rabbia, alla confusione e alla solitudine
(Hoekstra et al. 2004). In questo modo, il trauma legato alla contenzione non permette di riconoscere in
maniera chiara le ragioni sottostanti all’intervento e conduce a considerare la contenzione – soprattutto
meccanica – come una punizione esercitata dallo staff clinico o un’ingiustificata forma di tortura (Meehan et
al. 2004, Holmes et al. 2004, Frueh et al. 2005).
Tuttavia, non mancano in letteratura alcuni risultati in controtendenza rispetto alle considerazioni esposte.
Alcune ricerche mettono in luce come, al di là dei rischi fisici inerenti alla contenzione, alcuni pazienti
riescano a recepire le motivazioni della coercizione subita, arrivando a considerarla come parte integrante
Capitolo 2 - L’analisi della contenzione meccanica in una prospettiva multidisciplinare
56
“Contenere” la contenzione meccanica in Italiadella cura ospedaliera (Vartiainen et al., 1995, Repo-Tiihonen et al., 2004, Kuosmanen et al., 2007). Non
manca, in questi casi, la percezione a posteriori di alcuni effetti positivi legati al bisogno di sicurezza e
tranquillità durante i propri stati confusionari (Meehan et al., 2000, Kjellin et al., 2004). In questo contesto,
il circolo perverso della contenzione può, a volte, non trovare corrispondenza nell’esperienza dei soggetti
coinvolti nella pratica di cura. Una ricerca svolta in Gran Bretagna (Priebe et al., 2009) non evidenzia, ad
esempio, associazioni significative tra sperimentare esperienze coercitive legate all’intervento psichiatrico e
l’aumento delle ospedalizzazioni all’interno della storia clinica dei pazienti
38. In accordo con tali risultati, una
ricerca finlandese (Soininen, 2013) ha rilevato come gli episodi di isolamento e contenzione siano associati
alla percezione di una migliore “qualità della vita” da parte dei pazienti
39. Tuttavia, come affermano gli stessi
autori, esistono dubbi sul fatto che tale relazione possa essere considerata di natura causale. Una minor “qualità
della vita” rilevata tra soggetti non sottoposti a restraint potrebbe infatti derivare da effetti di mascheramento
legati alla patologia degli intervistati
40, senza contare che un effettivo controllo del risultato dovrebbe basarsi
su una rilevazione longitudinale non presente all’interno della ricerca.
La letteratura sugli effetti della contenzione interessa, oltre che i singoli individui, anche il più ampio
contesto sociale in cui questi sono inseriti. Alcuni studi, ad esempio, evidenziano come l’utilizzo di misure di
contenzione influenzi la percezione dell’efficacia inerente l’intervento di cura anche da parte della famiglia del
paziente. Nella maggior parte dei casi, i familiari esprimono un generale sentimento di ansia e preoccupazione
rispetto all’utilizzo di tali misure coercitive sui propri cari, non riuscendo a ricostruire una motivazione
sottostante l’intervento e risultando poco informati sugli effetti della contenzione rispetto alla salute
psico-fisica dei pazienti (Hardin et al., 1993, Kanski et al., 1996).
Non mancano, inoltre, studi che evidenziano criticità rispetto agli atteggiamenti e alle percezioni maturate
dal personale assistenziale all’interno dei servizi di cura. Ricerche sistematiche sul tema hanno ad esempio
messo in luce come, al di là dei contesti nazionali in cui la contenzione è praticata, il personale infermieristico
e assistenziale sviluppi un insieme di credenze e atteggiamenti non coerente nei riguardi della contenzione,
evidenziando, tuttavia, i risultati negativi apportati da tali pratiche. A livello generale, infatti, lo staff riconosce
che gli effetti più evidenti prodotti dall’utilizzo della contenzione siano sostanzialmente il rischio per la salute
fisica del paziente e lo sviluppo di sentimenti come rabbia, risentimento e depressione (Bower et al., 2003).
In tale contesto, lo stesso personale assistenziale può diventare una vittima delle dinamiche socio-relazionali
messe in gioco dall’utilizzo di tali pratiche (Lai, 2007). Il rifiuto etico di affrontare l’emergenza psichiatrica
attraverso la contenzione viene, infatti, quotidianamente offuscato dalla necessità di prevenire incidenti e
preservare la tranquillità dell’ambiente di cura; ciò comporta il diffondersi di un sentimento di inadeguatezza
relativo alla pratica d’assistenza, accentuato spesso da una comunicazione difficoltosa con il management dei
servizi di cura e dalla presenza di posizioni contrastanti inerenti alla legittimità delle misure coercitive.
Alla luce dei risultati fin qui esposti, è opportuno domandarsi se la ricerca empirica sul tema permetta
di stabilire una posizione dominante nel dibattito sull’uso della contenzione all’interno dell’intervento
psichiatrico. È certo che la contenzione rappresenti una pratica essenzialmente rischiosa per la salute fisica dei
pazienti, responsabile, nei casi estremi, di episodi di decesso. Tuttavia, rimangono ancora dubbi e perplessità
sul suo valore terapeutico: la contenzione costituisce un ulteriore evento traumatico nel medio e lungo
periodo? Gli effetti negativi sull’equilibrio psicologico dei soggetti sono sempre maggiori rispetto alla garanzia
dell’incolumità di pazienti e staff? Esistono metodi alternativi, scientificamente ed empiricamente supportati,
di gestione dell’emergenza capaci di espellere la contenzione fisica e meccanica dalla pratica quotidiana
38 È doveroso puntualizzare come l’intervento psichiatrico in Gran Bretagna sia, da molto tempo, particolarmente sensibile alla riduzione delle forme di contenzione. La contenzione meccanica è, infatti, raramente applicata se non proibita all’interno delle procedure cliniche.
39 Il concetto di “qualità della vita” utilizzato all’interno di tale ricerca è stato rilevato tramite il “Quality of Life and Satisfaction Questionnaire” composto da 16 items capaci di rendere conto delle emozioni, delle relazioni sociali, della salute fisica e di altre tematiche relative alla vita dei pazienti. Tale questionario è stato somministrato ad un campione di pazienti al termine del periodo di degenza.
40 Nella ricerca, infatti, il sottogruppo del campione caratterizzato da episodi di contenzione è sovrarappresentato fra i degenti con diagnosi legate a “disordini dell’umore”; patologia che, come affermano gli autori, può influire indipendentemente sulla percezione della QoL.
dell’assistenza?
A livello generale, rispondere in maniera definitiva a tali domande è ancora una questione controversa. Al di
là del materiale empirico prodotto sul tema, molti sono ancora i problemi di ordine metodologico sottesi allo
studio della contenzione: i dati sono spesso incompleti, basati a volte su campioni limitati e spesso derivati
da studi retrospettivi. In generale:
[…] sappiamo che i pazienti sviluppano sentimenti negativi nei confronti della contenzione e, contrariamente a quanto si può credere, la contenzione può essere sia pericolosa, sia protettiva. Sappiamo che l’utilizzo di tali pratiche è molto diffuso, ma non sappiamo perché ne viene fatto un uso continuativo. Sappiamo inoltre che alcuni programmi educativi e alcune alternative alla contenzione hanno avuto successo ma, allo stesso tempo, non sono stati utilizzati in un contesto più generale. Sappiamo anche che il personale infermieristico è gravato da traumi e stress quando applica la contenzione ai pazienti, ma allo stesso tempo crede che sia una pratica necessaria per proteggere l’istituzione e se stessi da controversie anche a livello giuridico. Sappiamo molto di ciò che non è utile. Dobbiamo conoscere più a fondo il tema, affinché gli interventi possano basarsi su giudizi razionali (Bower et al., 2003, p. 14; traduzione nostra).