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Caratteristiche della domanda dei servizi di cura: fattori di rischio individuali legati

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2.4. Al di là del dibattito etico: fattori individuali e contestuali legati all’utilizzo della

2.4.1. Caratteristiche della domanda dei servizi di cura: fattori di rischio individuali legati

I risultati prodotti mettono innanzitutto in luce come l’utilizzo della contenzione (di diverso tipo) ricorra

maggiormente tra pazienti che condividono specifiche caratteristiche della propria storia clinica e determinate

caratterizzazioni a livello socio-demografico.

La ricognizione sistematica prodotta da Beghi et al. (2013) permette, a questo proposito, di tracciare una

panoramica generale dei fattori di rischio che rendono i pazienti più vulnerabili rispetto alla possibilità di

esperire la contenzione nella sua accezione più generale (Tavola 2.1).

Tav. 2.1 – Prospetto sinottico delle ricerche sulla contenzione comprensivo delle condizioni individuali riscontrate rispetto all’utilizzo di restraint (Fonte: Beghi et al. (2013), estratto)

Autore Caratteristiche dello studio Risultati più salienti

Husum et al. (2010) 3572 pazienti Associazioni positive fra contenzione e sintomi legati ad aggressività/iperattività o rischio di suicidio/violenza verso se stessi

Kaltiala et al. (2003) 1543 pazienti (follow-up 6 mesi) Restraint motivato da episodi di violenza. Stati di agitazione e disorientamento influiscono su episodi di contenzione e isolamento quando sono accompagnati da diagnosi di schizofrenia o da abuso di sostanze

Kaplan et al. (1996) 224 pazienti (follow-up 1 anno) Sono più frequenti episodi di contenzione tra pazienti caratterizzati da disordine dell’umore rispetto ad una diagnosi di schizofrenia

Keski-Valkama et al.

(2007) Follow-up 15 anni

I maschi sono maggiormente a rischio di contenzione e isolamento. La diagnosi maggiormente rappresentativa della contenzione è la psicosi e, in secondo luogo, l’abuso di sostanze

Keski-Valkama et

al. (2010) Studio restrospettivo (1 anno)

Maggiori rischi di contenzione in presenza di schizofrenia e abuso di sostanze

Knutzen et al.

(2007) 960 pazienti (follow-up 2 anni) Rischio restraint particolarmente elevato tra gli immigrati più giovani, di solito sottoposti a contenzione combinata di tipo farmacologico e meccanico

Korkeila et al.

(2002) Follow-up 6 mesi

Isolamento e contenzione sono più probabili fra pazienti ricoverati involontariamente, con precedenti esperienze di ricovero e d’abuso di sostanze

Migon et al. (2008) Follow-up 6 mesi e campionamento probabilistico dei servizi di cura

Contenzione fisica più frequente tra pazienti in stato d’agitazione prodotto da abuso di sostanze, demenza, difficoltà d’apprendimento e disordini organici

Minnick et al. (2007) 74 unità psichiatriche Episodi di contenzione sono maggiormente rappresentati tra la popolazione maschile

Odawara et al.

(2005) 1334 pazienti (follow-up 4 anni)

Episodi di contenzione sovra rappresentata fra i maschi, età avanzata, ricovero involontario, senza precedenti trattamenti, episodi precedenti di tentato suicidio, disfunzioni celebrali e aggressività

Papaliagkas et al.,

(2010) 342 pazienti Episodi restraint più frequenti fra la popolazione maschile e fra quanti soffrono di disordine psicotico

Porat et al. (1997) 1419 pazienti La contenzione è più frequente fra i maschi, i non sposati e fra quanti sono caratterizzati da disordine psicotico

Raboch et al. (2010) 1930 pazienti Diagnosi di schizofrenia maggiormente associata all’utilizzo di misure coercitive

Smith (1997) 48 episodi di contenzione I pazienti coinvolti in episodi di contenzione sono in larga parte schizofrenici, maschi, coinvolti in assalti fisici verso terze persone

Steinert, Gebhardt

(2000) 193 pazienti Contenzione associata ad aggressioni e a gravi psicopatologie

Steinert et al. (2007) 370 pazienti

Fattori di rischio per la contenzione e l’isolamento sono: comportamenti aggressivi, ostilità durante l’ammissione ed esposizione a precedenti eventi traumatici

Sweet (1997) 370 pazienti Accertate associazioni fra contenzione e personalità borderline, giovane età e irritabilità

Way, Banks (1990) 657 pazienti sottoposti a contenzione vs. 22939 senza contenzione (case control)

Contenzione più frequente fra i più giovani, fra pazienti caratterizzati da lunga degenza, ricovero involontario e da diagnosi di ritardo mentale

Wynn (2002) 1269 episodi di contenzione Contenzione fisica maggiormente usata fra giovani maschi e tra pazienti non psicotici

Sebbene molti risultati siano limitati ad un contesto locale e nonostante le differenze inerenti al disegno

della ricerca, valutando preliminarmente il rigore metodologico degli studi e sulla base della ricorrenza dei

risultati, gli stessi autori evidenziano la sistematicità dei seguenti fattori di rischio:

Genere: i pazienti di sesso maschile sono maggiormente coinvolti in episodi di contenzione e l’aggressività tende ad essere indirizzata

verso persone dello stesso genere. In questo modo, la messa in pratica di misure coercitive caratterizza in maniera maggiore il personale assistenziale di sesso maschile, soprattutto per quanto riguardo l’uso della contenzione meccanica (Muir-Cochrane, Bowers, Jeffery, 2009).

Capitolo 2 - L’analisi della contenzione meccanica in una prospettiva multidisciplinare

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“Contenere” la contenzione meccanica in Italia

Gravi psicopatologie: diagnosi di schizofrenia e di altre forme acute di malessere psichico aumentano il rischio legato ad episodi di

contenzione anche al di là dell’incidenza di comportamenti aggressivi da parte dei pazienti.

Ospedalizzazione involontaria: in base anche a precedenti ricognizioni della letteratura (Cornaggia et al., 2011), il trattamento coatto è

associato a episodi di aggressività e all’uso di misure di contenzione. I pazienti ospedalizzati contro la propria volontà tendono ad essere maggiormente ostili nei confronti dello staff e, allo stesso tempo, il personale assistenziale risulta predisposto, indipendentemente dal comportamento del degente, ad averne una considerazione negativa e ad avere scarsa fiducia nelle sue risposte alle pratiche di cura.

Immigrazione-etnicità: gli episodi di contenzione sembrano maggiormente diffusi tra i pazienti non autoctoni rispetto al contesto

nazionale in cui sono state condotte le ricerche presentate. Non solo l’emergere di difficoltà comunicative incide sull’utilizzo di modalità coercitive d’intervento, ma è il più generale contesto della migrazione ad influire sulla percezione del “rischio” all’interno dei servizi di cura. È probabile che, in tale situazione, la pericolosità associata alla gestione dell’emergenza sia accentuata da pregiudizi etnici, diffusi nel contesto socio-culturale di appartenenza. Come affermano Price et al. (2004), gli appartenenti a gruppi minoritari sono di solito inaccuratamente percepiti come più violenti e, per questo, maggiormente esposti a pratiche di contenzione e isolamento durante il percorso psichiatrico.

Spostando il focus d’attenzione sul caso specifico della contenzione meccanica, una simile ricostruzione dei

risultati empirici compiuta da Stewart et al. (2009) integra la configurazione appena presentata attraverso le

seguenti condizioni di rischio supplementari:

Età: l’uso della contenzione meccanica sembra maggiormente diffuso nel trattamento dei pazienti più giovani. Inoltre, gli individui

compresi tra i 18-39 anni sono più soggetti alla contenzione meccanica rispetto ad altre modalità di coercizione (ad esempio, isolamento e contenzione farmacologica).

Comportamento antecedente: alcuni studi mettono in evidenza come la contenzione meccanica sia associata ad aggressioni fisiche e

minacce verbali messe in atto dal paziente nei confronti del personale o degli altri degenti. Tuttavia, gli eventi scatenanti gli episodi di contenzione esulano spesso dalle condizioni della sofferenza mentale (ad esempio, specifici sintomi psichiatrici) e sono maggiormente legati al contesto dell’intervento e alle sue inadeguatezze. Nella maggior parte dei casi si tratta dell’emergere di un conflitto paziente-staff o di un conflitto fra l’interessato e gli altri degenti che il personale non è in grado di gestire se non ricorrendo alla contenzione.

Sebbene le conclusioni di Stewart siano più caute in merito ad alcuni risultati emersi dalla ricognizione

presentata da Beghi e colleghi (soprattutto per quanto riguarda genere ed etnicità), il complessivo panorama

empirico presentato risulta congruente rispetto ai risultati di ricerche condotte nel nostro paese.

Di Lorenzo et al. (2014), attraverso una retrospettiva di 8 anni sull’uso della contenzione all’interno del

SPDC di Modena, evidenziano come la contenzione meccanica sia utilizzata soprattutto nei confronti dei

degenti di sesso maschile durante i primi momenti dell’ospedalizzazione, come risposta ai comportamenti

aggressivi dei pazienti. A questo proposito, avere disordini neurocognitivi o soffrire di schizofrenia o altre

gravi psicosi sono emersi come fattori di rischio privilegiati. Inoltre, una provenienza non-europea influenza

significativamente la probabilità di essere sottoposti a contenzione, sottolineando la difficoltà nella gestione

dell’emergenza in un contesto di differenza culturale e linguistica.

Tuttavia, alcuni dei risultati sistematici poc’anzi presentati non trovano un’esplicita conferma nella più recente

ricerca transnazionale compiuta all’interno del contesto europeo (Kalisova et al., 2014). In particolare, non

vengono riscontrate associazioni fra uso della contenzione e caratteristiche socio-demografiche dei pazienti

(nello specifico: età, genere), benché venga corroborata la presenza tra i fattori di rischio di caratteristiche

legate allo stato patologico (soprattutto disordini psicotici)

42

.

La percezione dell’aggressività dei pazienti e la gestione del rischio rispetto alla propria o altrui incolumità

fisica giocano, dunque, un ruolo cruciale nell’uso della contenzione meccanica.

Spesso, infatti, non sono gli effettivi comportamenti violenti a costringere il personale all’utilizzo della

42 Il report cui si fa riferimento, basato sul progetto di ricerca EUNOMIA, non tratta singolarmente le varie forme di contenzione. Procedura che, come esplicitato dagli stessi autori, può nascondere la rilevanza di alcuni fattori su tali pratiche coercitive.

contenzione, bensì la mera percezione dell’eventualità che tali atti possano verificarsi nell’immediato,

evidenziando come, in alcuni casi, le pratiche restraint siano più spesso utilizzate per difendere l’equilibrio

socio-organizzativo dei servizi di cura piuttosto che per sedare la violenza dei pazienti (Marangos-Frost, Wells

2000, Soloff, 1979).

Oltre che su condizioni di natura contestuale, legate alla gestione dei reparti, la gestione del rischio

si costruisce, in misura importante, in base ad elementi di natura personale: un complesso di intuizioni

cognitive e predisposizioni emotive che generalmente derivano da inferenze avanzate sulla base di esperienze

precedenti del personale assistenziale e da una più generale rappresentazione sociale della figura del malato

mentale, declinata in termini di pericolosità e marginalità sociale.

Proprio in quest’ottica possiamo interpretare la ricorrenza dei fattori di rischio descritti nelle pagine precedenti:

l’ospedalizzazione involontaria, ad esempio, comunica di per sé una possibile ostilità dell’individuo, creando

nello staff la percezione che l’intervento terapeutico possa trasformarsi plausibilmente in uno scontro fra

istituzione e paziente. La percezione da parte del personale di un rischio di escalation della violenza può

essere, inoltre, accentuata dal genere, dall’età e/o dallo status di “immigrato” del degente, in quanto tra i

giovani o gli stranieri di sesso maschile l’aggressività rappresenta spesso una risposta culturalmente valorizzata

all’interno delle dinamiche di socializzazione, che dà corpo alle aspettative sociali anche in un contesto

come quello degli SPDC. Tali elementi si inseriscono nel contesto di interazione fra paziente e personale

assistenziale, amplificando i minimi segnali predittivi o diagnostici di comportamento ostile e attivando con

più probabilità risposte “terapeutiche” non in linea rispetto alla effettiva pericolosità della situazione.

L’utilizzo di forme estreme di contenzione nasce dunque nell’immediato della relazione fra paziente e staff

e, come accennato nelle pagine precedenti, in relazione al rapporto di forza che si viene a costruire. In

tale contesto, anche l’aggressività da parte dei pazienti non è solo una risposta determinata dalla patologia

mentale, quanto l’effetto di una ricerca d’emancipazione dalla marginalità della propria condizione. Spesso

l’aggressività trascende la malattia e si pone quale risposta ad un generalizzato sentimento di ingiustizia

(Basaglia, 2005) che, anche in un contesto estraneo all’internamento manicomiale, viene amplificato dalla

subalternità percepita nei confronti dell’istituzione psichiatrica e da una risposta paternalistica alla propria

sofferenza mentale. Gli studi di Laiho e colleghi (2014) mettono in evidenza come anche lo stesso personale

assistenziale condivida concezioni divergenti in merito all’ostilità dei degenti psichiatrici: da una parte, è

possibile ricostruire un’impostazione che fa dell’aggressività un’esperienza tendenzialmente distruttiva

(inaccettabile, non necessaria, frutto di un atteggiamento non cooperativo e della necessità di dominare

il prossimo), mentre, dall’altra, la stessa può assumere, agli occhi dello staff, connotati di natura protettiva

(legata alla minaccia del proprio spazio fisico ed emotivo) o comunicativa (quale possibilità di cogliere il

paziente da un diverso punto di vista e tappa iniziale per sviluppare una più positiva e proficua relazione).

Talvolta, però, è la sola inclusione del malato in specifiche categorie patologiche, spesso diagnosticate in

modo alquanto provvisorio, a sollecitare l’utilizzo della contenzione. È plausibile, in questo caso, pensare

che l’uso di pratiche coercitive all’interno dei servizi di cura sia imputabile ad una surrettizia volontà di

ricondurre l’aggressività messa in gioco dal paziente agli elementi costituitivi dell’entità patologica. Si tratta,

in sostanza, di una “oggettivazione dell’uomo in sindrome” (Basaglia, 2005), attraverso cui «il malato,

strappato alla sua realtà ed estraniato dal contesto sociale in cui vive, viene etichettato, “costretto” ad aderire

ad una malattia astratta, simbolica e, in quanto tale, ideologica» (ibidem, p. 43). In questo caso, alla violenza

della contenzione si associa la violenza dell’indifferenza e della rassegnazione:

[…] non sempre si ascoltano i pazienti, non sempre si analizzano i modi di essere delle emozioni deformate e incendiate, non sempre si tiene conto dell’influenza semantica e del valore delle parole che possono attenuare e/o accrescere la condizione di sofferenza, non sempre si rispetta la dignità dei pazienti frantumabile dalla fretta e dall’impazienza, dalla distrazione, dalla fatica, dall’ansia e dalla perdita di speranza (Borgna, 2006, p. 17).

Capitolo 2 - L’analisi della contenzione meccanica in una prospettiva multidisciplinare

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“Contenere” la contenzione meccanica in Italia

Molto spesso, la violenza associata alle forme acute di disagio mentale si costruisce all’interno della

situazione terapeutica e nel mancato riconoscimento delle richieste che si definiscono nell’interazione fra

medico e paziente. Se, come riscontrato empiricamente, una diagnosi di schizofrenia sollecita l’utilizzo della

contenzione meccanica proprio in relazione alla gravità della patologia, dobbiamo considerare che:

[l’]autismo schizofrenico non è pietrificato; non sfugge ad una sua emblematica connotazione relazionale, nonostante l’aggressività schizofrenica sia imprevedibile e incalcolabile […]. [I] pazienti si confidano con alcuni medici, mentre con altri sono impenetrabili. Delirano con alcuni e non con altri. Aggrediscono alcuni e non altri, si lasciano medicare solo da certe persone […]. (ivi)

Che la struttura della situazione terapeutica e le condizioni interne di natura relazionale siano elementi

importanti per affrontare il fenomeno della contenzione meccanica è ben esemplificato dall’associazione

accertata fra utilizzo di misure coercitive e presenza di una alterità linguistica e culturale. Il problema

dell’immigrazione all’interno dei servizi di cura mette in gioco non solo la possibilità di avere a disposizione

capacità tecniche e operative non comuni, ma anche la necessità di riesaminare il ruolo delle strutture

psichiatriche all’interno del contesto sociale in cui sono inserite. È probabile che, sempre più spesso, siano

demandati al servizio di cura la gestione e il contenimento di una marginalità non più – e non solo –

patologica, ma afferente ad un contesto socio-economico più ampio. La difficoltà nel delegittimare le

pratiche di contenzione si lega, in questo caso, all’emergere di situazioni multiproblematiche in cui il disturbo

psichiatrico viene sempre più ricondotto alle ridotte capacità adattive dei soggetti, alla presenza di stigma

sociali, all’esperienza di uno svantaggio culturale, a una rete sociale carente, ecc. Condizioni che il servizio di

cura spesso non è preparato ad affrontare, soprattutto in alcune realtà del nostro paese dove, ad esempio, gli

SPDC sono ritenuti il luogo del fallimento terapeutico o una scomoda necessità (Ferioli, 2013) e la gestione

di una marginalità multiproblematica viene spesso affrontata tramite il gigantismo dei bacini di utenza, con

sovraccarico del servizio, alto numero di ricoveri e riduzione di informazioni e tempi utili ad affrontare la

crisi (Sangiorgio, Sarlatto, 2008/9).

L’analisi dei fattori caratterizzanti la domanda dei servizi di cura permette, dunque, di capire come l’uso

della contenzione, al di là delle motivazioni esplicitate (controllo dell’aggressività, gestione di un rischio

imminente, ecc.), risponda a dinamiche socio-relazionali che si costruiscono nel doppio mandato

caratterizzante l’intervento psichiatrico: controllo della marginalità e cura delle patologie. Il servizio di cura si

pone dunque come luogo di confine fra la società – e i suoi meccanismi d’esclusione – e il disturbo mentale,

quale marginalità concretizzata a livello individuale. In questo scenario, la dimensione spazio–temporale

dell’intervento diventa rilevante. La necessità d’efficienza rischia, ad esempio, di accelerare i ritmi della

pratica assistenziale, restringendo le possibilità legata alla dimensione temporale dell’ascolto. D’altra parte,

anche lo spazio della cura tende ad estendersi ben al di là dei ristretti confini del servizio, mediante un

“lavoro di rete” che, seppur indispensabile, contiene aspetti problematici direttamente legati all’ampliamento

del campo d’azione (Ruta, 2006).

Nel documento integrale... (pagine 60-64)

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