di significato. L’intera vicenda si svolge in un non-luogo, la na- ve, e in un non-tempo, la sospensione di vita che segna la navi- gazione, l’itinerario per mare, di notte, senza paesaggio o altro termine di riferimento, una pausa fra la partenza e l’arrivo, fra la vita fino allora trascorsa e quella futura, inimmaginabile nei suoi contorni.
Romanzo di viaggio, quindi, di un viaggio che non nasce da libera scelta, è imposto dagli eventi e non prevede il ritorno, che fornisce l’occasione e il momento per un bilancio dell’esperienza fino a quel punto compiuta.
Romanzo di memoria, di una memoria ancora una volta non lineare, frantumata e nervosa, affiorante per la sollecitazione de- gli eventi legati alla navigazione, l’allontanamento della nave dal porto, gli incontri casuali con i passeggeri (da cui derivano anche modificazioni del punto di vista narrativo), i piccoli accadimenti che possono determinarsi in quella situazione di inerzia forzata. Nell’apparente dispersione delle scene che affiorano alla coscien- za in prolungati flash back, a fungere da saldo punto di riferi- mento c’è il ritmo del viaggio, percepito e raccontato non nella dimensione festiva di chi occasionalmente naviga per una vacan- za, ma con la mentalità più esperta e prosaica dell’isolano abi- tuato a spostarsi per le usuali esigenze.
In principio del romanzo, subito dopo il nome del protagoni- sta, il riferimento all’esilio e alla città. Ed è questo solo in appa- renza un paradosso: la conquista dell’Incittà coincide con la sua perdita, anzi, il resoconto della perdita precede lo svolgimento di una trama che documenta il lungo e travagliato processo attra- verso il quale Ruggero Gunale aveva conquistato la sua città in una relazione amorosa non priva di pene.
Atzeni lamentava che Cagliari fosse stata poco descritta nelle pagine della letteratura e programmaticamente si era proposto di farlo. La soluzione che sceglie non ha nulla di esornativo ma ap-
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pare funzionale al successivo dispiegarsi della vicenda: “Bocca aperta alle mosche, Ruggero Gunale guarda con occhi umidi e impietriti la città che si allontana: la croce d’oro sulla cupola della cattedrale e attorno a corona digradanti i palazzi color ca- tarro dei nobili ispanici decaduti, circondati da bastioni pietrosi invalicabili a piede d’uomo, dove pendono chiome di capperi al vento, di un verde che ride. Guarda i quartieri moderni fuori le mura scendere dai colli al mare oleoso e verde cupo, i bei palazzi e portici dei tempi di Bacaredda (scrittore e sindaco, amato e ca- rogna) e il lascito architettonico di quest’epoca ai futuri: il cubo luttuoso e vitreo che nasconde i vicoli del porto e offende il mu- nicipio bianco e danzante cui si è affiancato con protervia da funzionario viceregio d’altri tempi (non è escluso che i futuri de- cidano d’amarlo e cantarlo... o lo smonteranno vetrata per ve- trata e lo sposteranno in campagna oltre Paulli e invece delle ne- re geometrie che spengono la luce e l’allegria vedranno panchi- ne, palme e jacarandas?)”45
.
Forse anche in questo caso, non senza il concorso della parola di Atzeni, la città è divenuta monumento. E irradia. Irradia la nostalgia del viaggiatore che la perde continuando ad amarla, ir- radia il senso di una storia lunga che ha incisa nell’architettura composita, irradia una vicenda politica amara e le sofferenze dei più umili fra i suoi abitanti, le contemporanee protervie di am- ministratori non meno ciechi di coloro che li hanno preceduti, irradia il suo clima luminoso di capperi e vento, palme e jaca- rande.
Atzeni sosteneva che chi voglia conoscere la verità deve met- tere da parte i trattati degli storici e interrogare le pagine degli scrittori: in queste sue poche righe c’è più verità su Cagliari e la Sardegna di quanta non ne sia contenuta nei documenti che gli studiosi diuturnamente si sforzano di illustrare. In più c’è un sentimento del luogo universalmente sentito dagli abitanti che si
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condensa nell’animo di Ruggero. Ruggero che della sua terra sa tutto (e la citazione del Von Maltzan, del Meloni Satta e del Manno, dell’Odissea di Antonio Rubattu, del poco noto libro di Giuseppe Cossu ne sono indiscutibile spia), che della città cono- sce le viscere per averla amata con intensità ed essersene sentito respinto, Ruggero esprime proprio quel sentimento diffuso.
Un sentimento contrastato e altalenante, contraddittorio ma saldo. Attraverso il collegamento dell’insieme dei ricordi, rico- struita una cronologia che le modalità narrative avevano scom- posta, è possibile seguirlo dalla prima giovinezza fino al mo- mento del distacco, nelle diverse tappe e nel contatto con i più disparati strati sociali: il sottoproletariato che nottetempo si ap- passiona alle lotte dei cani (e non ha niente della degradazione che segnava i popolani di Caglié nell’Apologo del giudice bandito, ma anzi esprime una forza positiva e una capacità di reazione), il mondo giovanile con le sue inquietudini e le confuse aspirazioni artistiche, la scuola che consente la frequentazione di compagni provenienti da ceti sociali più elevati, l’ambiente giornalistico e quello politico, ipocriti e cinici, l’universo quasi sommerso dei piccoli locali di ritrovo dove si accendono e si spengono sogni e speranze. Una città viva, percorsa e posseduta dal protagonista anche quando se ne sente escluso e respinto, perché quelle ripul- se possono essere sconfitte solo che si abbia internamente una molla più forte.
Ciò che non può essere vinto è il tratto dominante del tempo in cui Ruggero vive, una stagione in cui “la mitezza non incute rispetto né suscita vero compatimento. Anzi: godono a schiac- ciarti”46. E Ruggero è, sotto questo profilo, schiacciato, come un’intera generazione disadattata che ha concepito sogni e li ha visti fallire, che sentiva di avere potenzialità creative e non ha avuto modo di affermarle, che nutriva un’autentica gioia di vive- re e ha potuto esprimerla soltanto in uno spazio marginale e al
46 ivi, p. 8.
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di fuori delle regole sociali. Da qui nasce una visione quasi paso- liniana che privilegia mondi sottoproletari e malavitosi ancora carichi di una originaria forza indomita, sottoboschi non orga- nizzati e ricchi di una vitalità anche lessicale che affonda nel tur- piloquio alle volte anche greve, ma capace di frantumare i codici di comportamento e di inquietare il lettore. Questo mondo la città non lo accoglie e non lo riconosce. Come accadeva in anti- co, ancora Cagliari, rigidamente costituita, cerca di espellere co- loro che non appartengono ai ceti privilegiati, li confina nelle periferie, li scaccia dagli stabilimenti balneari eleganti: ma non riesce più a confinarli in una dimensione subalterna ed anzi lo scrittore li rappresenta dotati di capacità di reazione e di qualità espressive incoercibili.
In questa generale cornice ideologica e nella struttura scandita dal ritmo del viaggio Il quinto passo è l’addio si sviluppa nella successione dei capitoli, si frantuma in brevi paragrafi separati dallo spazio tipografico, una frase, una sola parola, il susseguirsi delle date che, come in una cronaca, articolano la narrazione. Il primo ricordo che affiora riguarda l’amore per Monica e la mor- tificante esperienza dell’ufficio; poi, a ritroso nel tempo, gli anni degli studi, la frequentazione degli amici che per la prima volta segnala l’esistenza delle barriere sociali, l’osservazione sempre più attenta del proprio e dell’altrui destino, il desiderio di trovare realizzazione nel lavoro giornalistico negato dall’ini-quità di concorsi dall’esito predeterminato.
Potrebbe scaturirne un’atmosfera carica di amarezza e disillu- sione, ma ciò non accade perché Atzeni sa trasmettere anche al suo nuovo personaggio un tratto che già compariva nei prece- denti romanzi: la disponibilità nei confronti del reale. Gli irrigi- dimenti e le schematicità sono, certo, un aspetto della vita; for- tunatamente non l’unico né il più significativo. Perché a guar- darla bene, la gran pentola che bolle della storia ha dinamica- mente contenuto un insieme composito del quale possiamo non
vergognarci ma anzi sentircene orgogliosamente figli ed eredi. Come Ruggero che guarda la sua città oltre la scia della nave: “La nave bianca si allontana e dietro un dente alto e bianco di cal- care sparisce l’antica fortezza vedetta dei Fenici, l’avamposto d’Europa al respiro dell’Africa e d’Oriente alle porte d’Occidente, popolato da un’oscura genia parente di Annibale, adocchiato da predoni scalzi, battuto da tutti i venti, abitato da tutti i profumi e i fetori e da ogni genere d’ingegno e vizio e da qualche virtù, come ovunque siano uomini. Ruggero conosce i venti, i profumi, i pre- doni. Si crede principe di antica stirpe, è figlio di un fabbro e di una bruscia, è ignobile e folle come un muflone”47.
Un melting pot da cui è difficile che qualcuno ricavi titoli di nobiltà e che però tutti ci nobilita, se sappiamo accettare la fi- sionomia che ne deriva. E la lingua. Come fa Atzeni con la sua, vera e inventata, priva di patenti nobiliari, significativa. Un sar- do non aulico e non classificato in nessuna grammatica che s’intrufola nell’italiano e lo rende più secco ed efficace, diretto al concetto. Lingua di una città levantina che molte genti ha visto venire dal mare per conquista disperazione o commercio. Che tutte le ha accolte con tolleranza, inglobandole fino a confon- derle in sé, facendole sue, dando e ricevendo. Anche parole. Quelle che ancora, fino a non molto tempo fa e forse anche og- gi, era dato sentire nelle calate del porto e nei vicoli. Lingua ba- starda, “ignobile e folle”, capace di rappresentare il concetto. A- tzeni ci scherza, e quando la traduce in nota a beneficio del let- tore non cagliaritano, aggiunge lo sberleffo di una resa italiana assolutamente sproporzionata per tono, magniloquente e ridi- cola, in contrasto con l’originario suono triviale. Ed è forse que- sto l’aspetto che meno persuade, che sembra male accordarsi con il progetto narrativo in cui si inserisce.
Ma ci sono i casi in cui non traduce, equipara al contesto ita- liano il suo vernacolo, nega la comprensione specifica del voca-
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bolo a chi già non la possieda ma non sottrae niente alla generale intelligenza del testo.
Che è, quale appare, sfrontato e plebeo, estremo alle volte: pur sempre tale da rappresentare appieno il dramma di una ge- nerazione nata in un “avamposto d’Europa” e quindi, per certi aspetti, di specifica fisionomia, per molti altri fragile, disillusa e dolente né più e né meno di quanto sia accaduto nel resto d’Europa e del mondo.