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Atzeni, con questo suo lavoro non pubblicato da

Nel documento A lonely Man (pagine 169-172)

“L’Unione sarda” e non più riproposto ad alcun editore206 ha costruito una prospettiva di lettura critica delle opere compilate dai viaggiatori che visitarono la Sardegna. Egli, senza dimentica- re le caratteristiche personali e stilistiche di ogni singolo autore è, però, in primo luogo, interessato all’oggetto del racconto, a quell’universo isolano moderno che i sardi non descrivevano e che quindi compare solo nelle stranianti descrizioni del touriste.

Prospettiva rafforzata dall’espediente letterario che indica la Sardegna come il luogo in cui si compie l’atto della scrittura207, mentre queste pagine, come la lettera che le accompagna, sono stese, con buona probabilità, a Torino. Anche stavolta, come poi

206

Rimasto tra le carte dello scrittore, il testo verrà pubblicato dall’editore Sellerio nel corso del 1999.

207

“E la frutta sarda non è paragonabile a quella tedesca, se non altro perché quag-

giù il sole asciuga i frutti senza privarli degli zuccheri e delle sostanze nutritive e li

porta facilmente a maturazioni in Germania molto improbabili” (Flora, par. II. Il corsivo è mio).

accadrà in Passavamo sulla terra leggeri, colui che racconta appar- tiene a una comunità della quale si sente il portavoce: per tale motivo può usare la prima persona plurale208

, può fare proposte ed esprimere pareri non con il tono di chi si pronuncia a titolo per- sonale ma come colui che ha la forza derivante dall’aver ricevuto il mandato di parlare a nome e per conto di una collettività209.

Infine, quasi a riprova dell’investitura ricevuta, c’è la piccola invenzione narrativa (uno sfogo per lo scrittore che si cimenta, in questo caso con un’opera così diversa dal suo genere) l’abbozzo di un personaggio che compare tra tanti illustri viaggiatori e si di- stingue dalla folla anonima dei sardi genericamente descritti. Compare di sfuggita, la prima volta, e, in un contesto del tutto razionale: una sorta di pietra di paragone sulla quale misurare le informazioni contenute nelle relazioni di viaggio, dar loro corpo e spessore di realtà. Balzac dice le bugie, ma al fondo del racconto è anche possibile intravedere qualche sprazzo di vero: “Malgrado tutto, avventure e fantasmi non nascondono gli uomini in carne e ossa, le case di terra e la macinazione del grano, i cibi quoti- diani e i bagliori di una ricchezza nascosta. Balzac, in qualche

208

“Perciò ci guardavano con scarsa curiosità, mista a ripugnanza” (Introduzione

generale, par. II); “Almeno fino a questo secondo dopoguerra che ci ha tolto dal

rango di zona malsana per trasferirci a quello di paradiso” (Clima, territorio, ma-

lattie, par. I).

209

Così, quando incontra il passo di Antonio Bresciani che indica il muflone quale “insegna e divisa” della Sardegna, può commentare la proposta, accoglierla con riserva, suggerire un’altra immagine per la bandiera sarda: “Questo sarebbe il no- stro stemma, la nostra bandiera, l’insegna che sta sull’ingresso della vecchia botte- ga Sardegna. Niente di male a riconoscersi in un caprone selvatico e scontroso, che ha gusto per le scalate e i cieli aperti. Un’insegna di pace, certamente non fuori tempo. Un’idea di indipendenza. Anche se magari un po’ isolata. Preferirei, tutta- via, sulla bandiera, l’aquila reale. Il perché è nelle ultime minacciose parole del gesuita: “Nulla di meno le carabine li raggiungono, e i grandi baroni del regno ne consolano i conviti”. Un simbolo arrosto in un banchetto nemico. Una specie in via di estinzione, di cui si contano gli ultimi esemplari. Vittime predestinate, nel mondo dell’uomo. Pecore selvatiche e montanare. Questo sono, i mufloni. L’aquila reale, chissà...” (Fauna, par. II).

Sergio Atzeni: a lonely man 171

modo, pur giocando con le fiabe, introduce al tempo storico, vis- suto dagli uomini reali. In quegli anni ha vissuto la nonna della nonna di mia nonna, che quasi certamente mangiava pane di ghiande impastato con argilla e viveva in una tana di terra senza il camino, mentre a Parigi i cuochi sapevano cucinare l’oca in più di trenta maniere differenti e i palazzi erano alti, di pietra, i sofà morbidi, uno sciupio di lumi e cuscini. Gli anni erano gli stessi, ma il tempo differente: il nostro era il passato remoto, isolato in mezzo al mare, chiuso in bottiglia, incomprensibile, lontano come la Polinesia” (Introduzione generale, par. II).

C’è una nonna, dunque, che ci aiuta a misurare questo nostro tempo incomprensibile per tutti, anche per noi stessi, se abbia- mo bisogno di figurarcelo ricostruendo le tappe di un passato neanche tanto lontano ma perduto dalla memoria che vuol ri- cordare soltanto la storia antichissima dell’età giudicale. Un identico impulso etico spinge Atzeni a comporre Passavamo sulla terra leggeri e questo testo non narrativo che nelle Conclusioni esplode in una scena finale svincolata da ogni obbligo critico, pura fantasia letteraria, descrizione di realtà meravigliose, gioco verbale pirotecnico, sberleffo divertito e irridente. Protagonista “la nonna della nonna di mia nonna” della quale il narratore si chiede “A volte mi è sembrato di intravedere delle ombre... Com’era?”.

È un dubbio che attanaglia e che deve essere sciolto, a qua- lunque costo: “Per saperlo interrogherei i cadaveri... perché no?... e chiederei con voce ferma: “Dite, alla fine: che vita ha vis- suto quella donna?”.

La risposta, le tante variopinte risposte a questo interrogativo su una storia privata che è divenuta emblema dell’intera storia sarda, la danno, in una sarabanda fortemente ritmata, Padre Antonio, William Henry, Gustave, Heinrich, Fuos, Domenech, l’Anonimo di Lipsia, John, Valery, Honoré de Balzac, Carlo re di Gerusalemme, tutti i personaggi di una breve recitazione sur-

reale, una processione di morti che, come quelli de Il giorno del giudizio, raccontano una storia impossibile: “Erano là, tutti as- sieme, morti sotterrati. Hanno preso a danzare attorno e a canta- re: “La lussuria li ha divorati e accecati. L’odio li ha spinti a sbra- narsi l’un l’altro. La follia li ha spediti per strada a sparare contro la nebbia. Ballavano tremolanti nelle chiese, al suono delle ossa di Giuda. Uscivano, nudi, ogni notte, dopo essersi bagnati nell’aceto. Lavoravano nella cacca di pipistrello e mangiavano minestra. Solo gli asini erano felici e le galline cantavano da gallo”.

Nel documento A lonely Man (pagine 169-172)

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