8. La sorte non ha consentito ad Atzeni di dispiegare intera-
1.2. In questo periodo si colloca la composizione del rac-
conto Campane e cani bagnati52
.
Una piccola storia editoriale ci aiuta a datarlo. Nel 1993 Gio- vanni Manca aveva dato vita a una collana di narrativa per la casa editrice Condaghes e naturalmente aveva pensato di chiedere un racconto ad Atzeni, cui era legato fin dall’adolescenza. Atzeni, in quel tempo, si trovava in una fase cruciale della sua attività.
In una conferenza tenuta il 3 maggio 1995 all’Istituto di Francese dell’Università di Parma, nel corso di un seminario de- dicato alla traduzione dal creolo, egli stesso spiega agli studenti come, dopo aver tradotto Lévi-Strauss e Genette, gli fosse stato affidato, tra il 1992 e il 1993, l’incarico di trasporre in italiano il romanzo Texaco di Patrick Chamoiseau. Incarico di grande re- sponsabilità che doveva affrontare con il consueto scrupolo; an- zi, con un ulteriore impegno derivante dalla necessità di fare i conti non solo col francese ma, questa volta, anche con il creolo.
Comprensibile, quindi, che la prima risposta a Manca non potesse che essere negativa. Ma poi, non volendo deludere l’amico, e ricordando che aveva un racconto inedito, già inviato a “L’Unione sarda” e non ancora pubblicato, lo propose, conse- gnando una copia dattiloscritta con annotazioni autografe.
Fu in quella circostanza che chi scrive lesse per la prima volta Campane e cani bagnati, riportandone, insieme a una generale impressione positiva, anche la sensazione del non finito, della necessità di un ulteriore affinamento stilistico.
Atzeni non aveva, però, la possibilità (e forse neppure l’inten- dimento) di ritornare su quel testo. Nel 1994 veniva pubblicata la traduzione italiana di Texaco, nel 1995 il romanzo Il quinto
52
S. ATZENI, Campane e cani bagnati, in Sì...otto!, Cagliari, Condaghes, 1996. Il racconto inizialmente era intitolato: Quando Giorgio Marongiu suonò quel blues
aveva diciott’anni in omaggio al giovane che suona la tromba, in una notte di pri-
mavera, nella scena finale del racconto. Lo stesso nome viene attribuito al trom- bettista che compare ne Il quinto passo è l’addio (p. 200 e p. 206).
passo è l’addio: lavori che non potevano non assorbirlo comple- tamente.
La casa editrice Condaghes, d’altra parte, attraversava un pe- riodo di assestamento e andava meglio definendo la fisionomia della collana I fenicotteri alla quale il racconto era destinato. La pubblicazione venne, quindi, rinviata nel tempo.
Nell’estate del 1995, quando tutto era pronto perché quel pro- getto editoriale venisse riavviato, l’improvvisa scomparsa dello scrittore.
Sull’onda dell’emozione “L’Unione sarda” pubblicò il rac- conto intitolandolo Giochi di una storia minima (7 ottobre 1995) e, nel 1996, l’editrice Condaghes lo raccolse in volume assieme al testo di una conferenza tenuta da Atzeni a Cagliari nel 1991 e intitolata Il mestiere dello scrittore.
Campane e cani bagnati si colloca quindi, da un punto di vi- sta cronologico, tra Il figlio di Bakunìn e il successivo Il quinto passo è l’addio con il quale ha un evidente legame tematico.
Avrebbe potuto costituire, anzi, uno dei quadri nei quali si condensa la memoria di Ruggero Gunale nel corso del viaggio che lo allontana da Cagliari. Si tratta, infatti, di una sequenza narrativa dedicata alla rappresentazione di un evento -l’occupazione stu- dentesca di uno dei licei storici di Cagliari, il Siotto- che si realiz- za grosso modo nello stesso periodo di tempo e nella medesima temperie culturale evocati dal capitolo La visione di un paio di Superga induce Costante Malu a imbarazzanti memorie.
Ma con alcune significative differenze, derivanti in primo luogo dal fatto che il racconto propone un protagonista colletti- vo: l’insieme degli studenti che occupano il Siotto. Nel romanzo, invece, l’intera narrazione è legata alle visioni e ai ricordi di Rug- gero Gunale, e solo nel capitolo al quale facciamo riferimento il protagonista non appare in prima persona e il racconto non è affidato al fluire dei suoi pensieri. Fin dal titolo vi si accampa un personaggio che introduce un punto di vista diverso riguardante
Sergio Atzeni: a lonely man 61
Gunale. È come un gioco di specchi che frammenta l’immagine e la ricompone per restituirla al lettore attraverso il filtro costi- tuito dall’interpretazione della famiglia Malu, Costante e sua madre: l’uno, per quanto discendente da una stirpe di “giudici, avvocati e proprietari di terre e palazzi”53, affascinato dalla per- sonalità dell’amico Ruggero, l’altra, cauta e diffidente nei con- fronti dei Gunale, “ramaioli, mezzi zingari, Logudoresi infidi e assassini”54.
Rispetto al buon ordine borghese che regna nell’appar- tamento dei Malu, Ruggero rappresenta lo sconvolgimento e il disordine, il pericolo della manomissione e del furto, “rolla” le canne, butta la cenere per terra, consulta e sottrae i libri della preziosa biblioteca sarda, demolisce in una corsa forsennata la Volvo di papà Malu.
Avrebbe potuto tranquillamente far parte della banda di stu- denti sciamannati che occupano il liceo Siotto nel nostro rac- conto. E, per affinità spirituale, si sarebbe schierato fra i “normali”, in contrapposizione ai “cinesi”. I due gruppi, quello dei “normali” e quello dei “cinesi”, appunto, sono i protagonisti collettivi -non senza differenziazioni individuali, più marcate fra i primi- di una vicenda incentrata sull’occupazione del liceo Siotto. Tale vicenda, cronologicamente fissata nell’aprile 1970, viene da Atzeni sollevata dal piano di una piccola e ripetitiva cronaca verso la dimensione di un evento storico che, come tale, si propone scandito in maniera rigorosa dal passare del tempo -i minuti che precedono l’avvio dell’agitazione, i giorni, e le notti, dell’occupazione fino all’uscita degli studenti dall’edificio scola- stico-. Un procedimento in qualche misura epicizzante, opposto, rispetto all’esplicito intendimento ironico dal quale la materia narrata è restituita al lettore spoglia di ogni possibile connota- zione celebrativa. Risiede proprio in questo contrasto uno dei
53
Il quinto passo è l’addio, cit., p. 63.
54
pregi del racconto che mai cede alle lusinghe della retorica sem- pre in agguato nella nostra coscienza collettiva quando, qualun- que sia l’opinione espressa al riguardo, rievochiamo i fatti formi- dabili o esecrabili di quegli anni.
L’azione, è chiarito fin dalle prime righe, non deriva da moti- vazioni ideologiche ma da una sorta di disagio esistenziale (in- soddisfacente qualità della vita, potremmo dire: “il mare odorava di zolfo e di pesci putrefatti, quel profumo ammorbava tutta la città”55) che anche dipende dal dover vivere immersi in una realtà “stretta, provinciale, untuosa, morta”56 e dall’età dei prota- gonisti: “cercavano pretesti per stare tutti assieme: nel numero si perdeva la fastidiosa giovinezza di ognuno, nel numero nasceva- no nuove amicizie e nuovi amori”57
.
D’altra parte, e non solo in questo caso, l’attenzione di Atze- ni, la sua vena descrittiva, è attratta, più che dai fenomeni di dimensione macroscopica, dalle molecolari caratteristiche di ogni uomo, tanto più interessanti quanto più specifiche, indivi- duali, uniche. Quindi i “normali”, che non sono un gruppo uniforme e, tutto sommato, prevedibile nelle azioni e nelle re- azioni, ma persone segnate da tratti (fisici, morali, intellettuali) tutti diversi, non di rado bizzarri e comunque degni di nota.
Sembra che Atzeni abbia sotto gli occhi un campionario umano e si diverta a ritrarlo senza celare, anzi volutamente sot- tolineando, il contrasto di alto e basso e il surreale che può essere rintracciato in qualunque realtà (Gabriele Zatrillas, famoso per la gloria poetica, è autore di un apprezzato graffito che orna i muri dei cessi e dice: “Sei tanto bella che a guardarti sparisce per- sino questa puzza di piscio stantio”58, sua madre, donnicella Eleo- nora -titolo e nome la sospingono nell’empireo della più antica
55
Campane e cani bagnati, cit., p. 29.
56 ivi, p. 30. 57 ivi, p. 30. 58 ivi, p. 35.
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nobiltà-, “era riuscita a vivere nel lusso senza lavorare, vendendosi una notte ogni tre anni per una cifra astronomica”59
).
In questo contesto è possibile che, con l’approvazione di uno che “sapeva a memoria i versi di certi poeti drogati americani, e degli osceni simbolisti francesi”60, il poeta possa coniare uno slo- gan demenziale e quello slogan diventi il cemento di una collet- tività ansiosamente tesa verso qualcosa in cui credere ma delusa o diffidente nei confronti delle parole d’ordine che venivano in quel tempo proposte: “piuttosto che cantare una rivoluzione in cui non potevano credere, preferivano cantare se stessi”61.
Può essere utile sapere che Atzeni non inventa lo slogan che mette in bocca al suo poeta, ma lo raccoglie dalla oralità. Stori- camente sempre esistito nella tradizione degli studenti del Siot- to, veniva ritmato non in cortei politici ma, più modestamente, sugli spalti dei campi sportivi dove si incontravano rappresenta- tive scolastiche, ed era, così come Atzeni con lo stesso valore lo ripropone, l’unica attestazione possibile di uno spirito di gruppo che non aveva molte altre ragioni d’essere.
Eppure quelle parole prive di senso riescono in un compito nel quale avevano fallito l’istituzione scolastica e l’intero conte- sto sociale. Trasformano gli individui in un gruppo coeso, in un reggimento che avanza incitato dalle note della sua marcia musi- cale e l’evento ha in sé un significato profondo e insieme è un nulla assolutamente privo di senso.
La modalità narrativa sottolinea questo contrasto, accompa- gnando prima quella marcia con un punto di vista che sembra coincidere con lo stato d’animo dei protagonisti (“Occhi di vec- chie in scialle nero sbirciavano attoniti nascosti dietro cortine di gerani rossi appollaiati su balconi di ferro nero intrecciato a for- mare disegni e arabeschi. Bottegai uscivano in strada, qualcuno
59 ivi, p. 36. 60 ivi, p. 38. 61 ivi, pp. 40-41.
sorridendo falso, qualcuno con fare minaccioso, ma tutti pronti a abbassare le serrande al primo segno di pericolo. Dalle botte- ghe artigiane di restauro e compravendita mobili vecchi uscirono una decina di ragazzotti, apprendisti falegnami, che subito si esaltarono e decisero di mescolarsi al tumulto a modo loro, fece- ro rombare i motorini fermi, saltarono ridendo e battendo le mani a imitazione delle scimmie, urlarono all’indirizzo dei cor- ridori sconcezze irripetibili. Il tumulto salì fino al cielo.”62), ma poi improvvisamente se ne distacca.
L’accadimento viene interpretato, a quel punto, con gli occhi dei giovani artigiani che dalla manifestazione studentesca ricava- no un’impressione carnevalesca (“Dal punto di vista dei lavo- ranti era una rantantina di carnevale con qualche mese di ritar- do.”63
) e mediante un commento del narratore che propone la sua interpretazione dei fatti (“Da un punto di vista più generale è difficile sostenere che quegli apprendisti falegnami avessero torto, vista l’insensatezza delle azioni e dello slogan che echeg- giava a lungo fra i palazzi anche dopo che gli studenti erano spa- riti alla vista”64
).
Questa procedura si sviluppa lungo tutto l’arco del racconto, sgretolando la possibilità di una lettura univoca dei fatti narrati e sempre suggerendo, attraverso il rapido mutare dell’angolo vi- suale, un’ipotesi differente, non di rado ironica. Per lasciare, alla fine, l’impressione che quell’occupazione scolastica non sia un fatto di assoluto rilievo, da isolare e cantare in sé e per sé, ma uno dei tanti accadimenti possibili in una realtà della quale cer- tamente fanno parte le insoddisfazioni sociali e il bisogno di esprimere una volontà politica, ma che anche si compone di sentimenti, di turbamenti dell’animo espressi dalla poesia e dalla
62 ivi, pp. 41-42. 63 ivi, p. 42. 64 ivi, p. 42.
Sergio Atzeni: a lonely man 65
musica, del piacere derivante dalla solidarietà con gli amici, della percezione, positiva o negativa, dell’ambiente circostante.
Non la storia, quindi, ma una delle tante storie possibili per individui che Sergio Atzeni non vuole conchiudere in un’unica definizione ma intende rappresentare nella loro vitalità, quindi nella trasformazione che si determina col passaggio attraverso momenti, situazioni e sensazioni diversi. Così che la frase con la quale termina il racconto, può essere presa come la frase d’inizio di una nuova, non meno varia, vicenda nella quale siano impe- gnati gli stessi protagonisti: “«È proprio primavera» pensò Bachisio annusando l’aria di mare; il mare quella notte profu- mava di cane bagnato”65.