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Sergio Atzeni con la sua città aveva un rapporto intimo.

Nel documento A lonely Man (pagine 55-59)

8. La sorte non ha consentito ad Atzeni di dispiegare intera-

1.1. Sergio Atzeni con la sua città aveva un rapporto intimo.

La percepiva carnalmente, nella realtà fisica dei luoghi, negli odori, negli umori degli abitanti, nella lingua.

Amatissima lingua calaritana che conosceva e parlava, che studiava con impegno filologico: amore per la parola e per tutto ciò che la parola contiene, visioni del mondo, arguzie, malumo- ri, strafottenze, atteggiamenti ribaldi e cialtroneschi, aperture e tolleranze, chiusura provinciale, anche, ma non senza rimedio. Questa era la città che aveva scoperto, a poco a poco, e della quale si era invaghito, riuscendo, però, a osservarla con distacco, con lo sguardo straniero -potenzialmente ostile- di chi arriva da un altro mondo (i suoi anni orgolesi gli offrivano la possibilità dello straniamento), giudica e comprende. Alla fine conclude che la città non è altro da sé, che quello è il territorio nel quale egli deve aggirarsi e dal quale la fantasia può suggere alimento, non acriticamente, beninteso, non nel segno del rifiuto di più ampie realtà, non in una dimensione culturale circoscritta. Al contrario, rivivendo e interpretando il luogo nativo, misuran- dolo sulle suggestioni senza confini che la letteratura, la musica, la conoscenza di uomini cresciuti in lontane parti del mondo fanno apparire essenziali.

A Cagliari era vissuto fino al 1986. Come molti della sua ge- nerazione aveva percorso un itinerario di sogni e speranze, di progettualità politica, ritmato dal jazz e dal rock, arricchito dalle interminabili discussioni nelle cantine che in quegli anni costi- tuivano un punto di ritrovo dove era possibile parlare e trassare, tirar mattino con una canna in mano.

A porre ordine in un’esistenza altrimenti convulsa, la scrittura. Scrittura praticata con tenacia e disciplina, fin dal più mode- sto articolo di cronaca sportiva. Non senza amarezze e delusioni, ché gli spazi concessi non erano ampi, comunque vigilati, stretti da rigidi confini.

Ecco, allora, la fuga verso una scrittura privata: testi per il teatro (Quel maggio 1906, messo in scena nel 1976 e pubblicato l’anno dopo) e racconti (Fiabe sarde, 1978; Gli amori, le avven- ture e la morte di un elefante bianco, 1982; Araj dimoniu, 1984).

Due i punti di riferimento essenziali: il luogo e la lingua. Il luogo è la città e, più ampiamente, la terra che la compren- de: la Sardegna.

Atzeni studia la storia sarda, ricostruisce una vicenda che ri- tiene essenziale per comprendere il presente nel quale vive e che vuole raccontare. Nella storia trova la fisionomia di un popolo, il suo, con i pregi e i difetti che lo caratterizzano, con gli avvili- menti e le alterigie, con le stratificazioni sociali nelle quali intra- vede una fonte inesauribile di materiale narrativo. Quella fisio- nomia vuole ricreare nella sua mente, un tratto d’identità che si conferma nel tempo, dall’età nuragica ai giorni contemporanei.

Non per caso il primo romanzo, l’Apologo del giudice bandito sarà ambientato in un tempo di mezzo, il 1492, e darà avvio a un processo che prima lo porta verso l’attualità (Il figlio di Bakunìn abbraccia un periodo che va dagli anni Trenta ai Cinquanta del Novecento; Il quinto passo è l’addio si svolge nei nostri giorni) e poi lo proietta, quasi alla ricerca delle radici di un’epopea, verso l’antichità nuragica (Passavamo sulla terra leggeri racconta “storie

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di una Sardegna preistorica e poi storica fino alla perdita della libertà, all’epoca dei giudicati, ma sempre epica, omerica, ecces- siva nel bene e nel male, feroce, selvaggia, ma come è feroce e diretto il mondo della tragedia greca”49).

Il secondo riferimento è dato dalla lingua, la sua personale lingua di scrittore che va costruita con un processo di scarnifica- zione, sottraendo tutto ciò che può essere sottratto, perfino i verbi e la stessa struttura della proposizione, se a rendere un con- cetto basta una sola parola, un sostantivo o un aggettivo.

Un esercizio al quale si accinge sorretto dalla paziente osser- vazione delle modalità seguite dagli scrittori preferiti (anche quelli di genere avventuroso, poliziesco e fantascientifico che studia cercando di capire come riescano a parlare ai lettori sparsi nell’intero globo: i milioni di copie venduti non possono essere, secondo il suo punto di vista, casuali, né, per altro, ha l’atteggia- mento snobistico di chi rifiuta a quelle opere il riconoscimento della dignità letteraria50

), ma anche affascinato dai ritmi musica- li, dalla spezzatura della frase jazzistica, dal sound delle musiche etniche.

Sotto il profilo lessicale, e con l’intento di arricchire l’italiano, pesca nel patrimonio della lingua sarda e calaritana, raccoglien- do con parsimonia un pugno di vocaboli che poi dissemina nei racconti, alle volte traducendo in nota, più spesso pretendendo che la parola sveli di per sé il significato che racchiude. O non sveli niente, e rimanga quale puro suono nel ritmo della pagina.

49

E. FERRERO, Custode delle memorie, in “La grotta della vipera”, 72-73, 1995, p. 26.

50

“Lo stesso Simenon... ma poi credo che il futuro rivaluterà scrittori come Wil- bur Smith e Stephen King... ci sono gli scrittori cosiddetti popolari... . Insomma quando un autore scrive trentamila, quarantamila, cinquantamila pagine nella sua vita, e le vende, c’è gente che le compra, che fa la fila per comprare i suoi libri, che appena i suoi libri escono se li prende, quello è uno scrittore che prima o poi sarà riconosciuto come grande” (Il mestiere dello scrittore, cit., pp. 87-88).

Comunque si giudichi il risultato raggiunto, non c’è alcun dubbio che, anche in questo caso, Atzeni dispieghi un lungo studio della lingua, di quella generale -il sardo più alto delle grammatiche- e di quella particolare calaritana, meno nota e non codificata -sulla quale ricerca lungamente, attratto da un vocabolario ancora in uso e da quello desueto e oramai quasi del tutto scomparso ma che può essere individuato nella parlata de- gli anziani, in poche e quasi clandestine attestazioni scritte che non sfuggono alla sua passione di studioso- della quale si serve per una ristretta ma significativa produzione poetica.

Il 1986, con la pubblicazione dell’Apologo del giudice bandito, è l’anno della rinuncia al lavoro stabile e dell’allontanamento dalla Sardegna.

Viaggia, pratica i più svariati lavori, affronta una profonda crisi spirituale dalla quale uscirà forte della fede cristiana e appa- gato dal lavoro che è riuscito a inventarsi, il mestiere di tradutto- re, poco appariscente ma prezioso.

A Parma e a Torino, le città nelle quali alternativamente vive, nelle biblioteche dove trascorre le giornate, nei dizionari che co- stituiscono per lui lo strumento principe del lavoro, nel con- fronto col mondo editoriale, riesce a trovare una dimensione di vita forse precaria sotto il profilo economico, certamente soddi- sfacente in quello professionale e umano. Non a caso, nel breve volgere di pochi anni, e pur in lotta con il tempo dedicato alle traduzioni, produce la gran parte delle sue opere, Il figlio di Ba- kunìn (1991), Il quinto passo è l’addio (1995), Passavamo sulla terra leggeri (1996), Bellas mariposas (1996), i racconti che pub- blica su varie riviste, le poesie che sono state pubblicate nel 1997 in una raccolta intitolata Due colori esistono al mondo/ il verde è il secondo51

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51

S. ATZENI, Due colori esistono al mondo/ il verde è il secondo, Nuoro, Il mae- strale, 1997.

Sergio Atzeni: a lonely man 59

Nel documento A lonely Man (pagine 55-59)

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