8. La sorte non ha consentito ad Atzeni di dispiegare intera-
1.4. Le soluzioni adottate possiamo vederle nei romanzi più
noti, ma anche nel racconto, Campane e cani bagnati.
Atzeni non ha mai intendimenti descrittivi fine a se stessi, non intende sottrarre all’oblio un mondo che rischia di scompa-
69
ivi, p. 79. 70
rire, non è uno storico né, tanto meno, un antropologo. È uno scrittore convinto che la letteratura sia “il paese della lingua”, che occorra lavorare alla ricerca delle soluzioni linguistiche capa- ci di evocare un mondo di sentimenti, di umori, di personali bizzarrie, di stati d’animo, quelli che in un determinato luogo si sono manifestati e che richiedono un particolare strumento lin- guistico per potersi esprimere nella pagina letteraria.
Ritorniamo, così, alla concezione della letteratura come pro- dotto artigianale, nel senso, beninteso, di oggetto per la cui co- struzione sono necessari la conoscenza di un’arte, la capacità di scegliere i materiali, il possesso sicuro delle tecniche di lavora- zione, la libertà di chi affronta con amore il suo impegno: “Se fai il vino devi curare la vigna, e questo può essere qualche volta fa- tica. Ma la gioia di vedere gli amici che bevono con gusto il tuo cannonau è la stessa che provi quando vedi gli amici che apprez- zano, che sorseggiano il tuo lavoro di scrittura”71
.
Lavoro di scrittura che ha regole precise, non può essere confuso con un’attività popolare e non può alimentarsi nella ri- cerca del colore locale. In questo consiste la principale difficoltà di chi avverte come necessaria l’esigenza di farsi cantore di un mondo ben definito, intende renderlo vivo agli occhi del suo lettore, e nello stesso tempo sente l’urgenza di tutte le apparte- nenze etniche (“sardo, italiano, europeo”) e culturali (“Leonardo, Rabelais, Bach, Cervantes, Van Gogh, Einstein e chi più ne ha più ne metta”72) nelle quali si è formato.
L’espressione dell’appartenenza, sardità, italianità o argenti- nità che sia, è più complessa (e più semplice) di quanto comu- nemente siamo portati a ritenere e non è detto che necessaria- mente risieda nel tratto caratteristico e nel colore locale. Valga, come esempio, un aneddoto narrato da Jorge Luis Borges (uno degli scrittori più amati da Atzeni) nel corso di una lezione te-
71
G. MARCI, Quel gioioso mestiere di scrivere, cit. 72
Sergio Atzeni: a lonely man 71
nuta nel Colegio libre de Estudios Superiores e intitolata Lo scritto- re argentino e la tradizione: “Mi sia permessa qui una confidenza, una minima confidenza. Per molti anni, in libri ormai felice- mente dimenticati, cercai di redigere il sapore, l’essenza dei quartieri ultimi di Buenos Aires; naturalmente abbondai di pa- role locali, non feci a meno di parole come cuchilleros, milonga, tapia, e altre, e scrissi così quei dimenticabili e dimenticati libri; poi, circa un anno fa, ho scritto un racconto che si chiama La morte e la bussola, e che è una specie di incubo, un incubo nel quale appaiono elementi di Buenos Aires deformati dall’orrore dell’incubo; penso al Paseo Colón e lo chiamo Rue de Toulon, penso alle ville di Adrogué e le chiamo Triste-le-Roy. Pubblicato il racconto, i miei amici mi dissero che finalmente avevo trovato in ciò che scrivevo il sapore dei dintorni di Buenos Aires. Pro- prio perché non mi ero proposto di trovarlo, quel sapore, perché mi ero abbandonato al sogno, raggiunsi, dopo tanti anni, ciò che prima avevo cercato invano” 73
.
C’è, nelle parole di Borges, nella sottolineatura della necessità di “abbandonarsi al sogno”, la definizione di un tratto peculiare dell’agire letterario, la non intenzionalità, che l’autore argentino più avanti ribadisce: “la vera essenza dell’opera di uno scrittore è di solito ignorata dallo scrittore stesso”74 e che ancora propone, nella frase conclusiva della sua lezione, quando parla della crea- zione artistica come di un “sogno volontario”75.
Accenti non dissimili troviamo in Atzeni quando sostiene: “Personalmente diffido degli scrittori che dicono: mi sono ispirato a..., mi rifaccio a tizio..., perché mi sembra che, in questo caso, abbiano una coscienza troppo alta di quello che fanno, e sono convinto che chi scrive non debba avere una coscienza critica
73
J. L. BORGES, Lo scrittore argentino e la tradizione, in Tutte le opere, Mondado- ri, 1984, vol. I, p. 416.
74
ivi, p. 420. 75
molto alta, deve soltanto lasciarsi andare, deve cercare una storia. Può anche non riuscirci. Per altro è molto difficile trovarla, e, quanto a me, non so se ci sono veramente riuscito. Ecco, io tento di creare delle storie che abbiano un capo e una coda, dei perso- naggi che esprimano ciò che sentono, ma non so bene quali siano i punti di riferimento, né quali siano le cose che sento, né perché scrivo proprio quelle storie e non altre. Non lo so”76.
Sembra quasi un problema per definizione insolubile, quello che il nostro autore si propone di risolvere: intende descrivere ogni luogo della Sardegna, ma sa di doverlo fare non intenzio- nalmente, rifiutando gli elementi del colore locale, non amando la propria nazione (Borges segnala come elemento letteraria- mente produttivo l’assenza di una “devozione speciale”) e co- munque comprendendo che la tradizione culturale da cui deriva non può essere unicamente ricondotta al luogo di nascita ma si compone di aspetti assai più ricchi e complessi.
È come se la molteplicità degli elementi costitutivi la sua personalità culturale consenta ad Atzeni di muoversi nella linea di confine tra interno ed esterno, in un gioco di prospettive che offre migliori vedute, possibilità di definizione e di inno- vazione. Un po’ come accade, secondo Borges, per gli ebrei nel rapporto con la cultura occidentale: “se essi spiccano in mezzo alla cultura occidentale, è perché operano all’interno di quella cultura e allo stesso tempo non si sentono legati ad essa da una devozione speciale”. Per tale motivo “a un ebreo sarà più facile che a un occidentale non ebreo innovare nell’ambito della cultura occidentale”77.
Lo scrittore argentino utilizza l’esempio citato per illustrare un tema che lo riguarda da vicino: “Credo che noi argentini, i sudamericani in generale, ci troviamo in una situazione analoga; possiamo adoperare tutti i temi europei, adoperarli senza super-
76
Il mestiere dello scrittore, cit., pp. 90-91.
77
Sergio Atzeni: a lonely man 73
stizioni, con un’irriverenza che può avere, e ha già, conseguenze fortunate”78
. Noi possiamo usare lo stesso esempio quale pietra di paragone che ci aiuti ad entrare nel mondo interiore di Sergio Atzeni.
Ernesto Ferrero lo ha definito “uno scrittore inattuale”, ed ha rimarcato i tratti di un carattere schivo e severo, lontano dalle mode e dagli accomodamenti che propiziano il successo: “Difendeva la sua insularità: nel senso che si ostinava a coltivare uno spazio chiuso di silenzio e di approfondimento in cui cerca- re di crescere per sé e per gli altri”79.
Ed è su questa insularità non isolata, su quel silenzio tenace- mente difeso che risuona delle mille voci di una tradizione cul- turale vastissima, sulla caparbia affermazione di una sardità non folclorica e non chiusa all’incontro con l’altro, che conviene por- re termine al nostro ragionamento. Non senza essere ritornati, per un momento, sui versi di Giorgio Caproni proposti in epi- grafe.
Sembrano metafora del percorso compiuto da Atzeni, dell’allontanamento da una terra -da una cultura- che egli ha sempre portato dentro di sé, tanto da farci capire che non se ne era mai allontanato. Ma dicono anche, del viaggio che è consi- stito nel restare in un posto dove non era mai stato, del tenace rapporto con un luogo dal quale aveva saputo svincolarsi per cercare gli spazi più ampi dell’agire letterario.