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Nel 1991, ancora per Sellerio, pubblica Il figlio di Baku-

Nel documento A lonely Man (pagine 38-41)

4. La pubblicazione dell’Apologo del giudice bandito segna una

5.1. Nel 1991, ancora per Sellerio, pubblica Il figlio di Baku-

nìn, romanzo breve che si svolge seguendo il ritmo dell’inchiesta giornalistica o dell’indagine tendente a ricostruire la vita e le ge- sta di un inafferrabile personaggio anarchico e comunista, eroe o truffatore, animo sensibile e raffinato o volgare profittatore. Un’inchiesta che si dipana attraverso una serie di brevi e brevis- sime interviste che propongono, nell’alternanza dei punti di vi- sta, la verità sul mitico personaggio del quale si parla.

Scelta compositiva che condiziona, o favorisce, un anda- mento stilistico (proprio di Atzeni, come già abbiamo visto) fatto di brevi proposizioni che, anche in coerenza con il livello

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Sergio Atzeni: a lonely man 39

culturale degli intervistati, e i ritmi dell’inchiesta, si succedono parattaticamente35

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A distanza di anni l’autore spiegherà i motivi che lo avevano spinto ad adottare quella particolare soluzione: “Ho pensato prima ad una coralità di voci, poi a che cosa dovessero racconta- re. Allora mi sono rivolto a un’area della memoria collettiva. Mi interessava creare, per esempio, una donna che parlasse in modo tale da essere definibile: anche se un lettore non sa chi è, dopo che lei ha parlato per mezza pagina, sa già che è una donna sarda di una certa età, non tanto per ciò che dice quanto per come lo dice. Erano problemi tecnici di questo genere. Quella de Il figlio di Bakunìn è una forma più classica, anche se non molto con- sueta. Quella dell’Apologo, invece, è una forma abbastanza sbi- lenca, non credo che ce ne siano tante in giro. Si tratta di una stranezza tecnica, nata dal fatto che non avevo la forza di rac- contare tutta la storia. Se l’avessi raccontata tutta, seguendo tutti i personaggi, tutte le vicende, come era da fare, avrei scritto un libro di quattrocento pagine, ma impiego una vita per scrivere una sola pagina, era assolutamente da escludere. Bisognava ta- gliare, far stare le cose in centoquaranta pagine”36

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Un indice di priorità (prima la coralità delle voci e poi l’oggetto del raccontare) che spiega con chiarezza il concetto di letteratura proposto da Atzeni e tenacemente ribadito in ogni circostanza, in garbata polemica con quanti nei suoi romanzi ve- devano soprattutto l’aspetto della memoria (della memoria per- sonale e autobiografica): “No! Secondo me la letteratura è il pae-

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Comprensibile il fatto che un tale atteggiamento stilistico possa anche suscitare perplessità, quali quelle che esprime Luca Canali nella recensione già ricordata: “Ho letto con interesse Il figlio di Bakunìn di Sergio Atzeni (Sellerio), sebbene fin da allora mi avesse insospettito l’uso continuo e alfine fastidioso della paratassi, cioè di brevi proposizioni senza coordinazione o subordinazione fra loro”. 36

se della lingua. Quello che si fa in letteratura è manipolare la lingua a fini di comunicazione”37

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Comunicazione che deve articolarsi per voci diverse, molti- plicarsi nello sforzo di restituire un’immagine composita della realtà. Il gioco proposto da Il figlio di Bakunìn è quello, appun- to, di inseguire le interpretazioni e le modalità espressive di molteplici narratori chiamati a riferire su un unico tema: la defi- nizione di una personalità umana.

Un gioco della verità che si conclude con la negazione dell’oggetto stesso della ricerca (“Non so quale sia la verità, se c’è la verità. Forse qualcuno dei narratori ha mentito sapendo di mentire. O invece tutti hanno detto ciò che credono vero. Op- pure magari hanno inventato particolari, qui e là, per un gusto nativo di abbellire le storie. O, ipotesi più probabile, sui fatti si deposita il velo della memoria, che lentamente distorce, trasfor- ma, infavola, il narrare dei protagonisti non meno che i reso- conti degli storici”38

) e quindi, per così dire, con l’esaltazione del metodo (e della tecnica narrativa) rispetto a ciò che deve essere raggiunto con l’impiego di quel metodo.

Certo, poi c’è dell’altro, perché risultato inutile il tentativo di in- dividuare oggettivamente personaggi e situazioni, compreso quanto il fascino dell’invenzione possa su uno scrittore (annullando in tutto o in gran parte l’impulso verso la memoria intesa come cronaca di fatti realmente accaduti), resta, in Atzeni, il bisogno profondo di confrontarsi con una memoria meno superficiale, di leggere il passato per poter interpretare il futuro.

Se pensiamo ai cambiamenti epocali che hanno segnato gli anni nei quali Il figlio di Bakunìn passava dall’incubazione alla stesura, nessuno troverà inspiegabile il moto dello scrittore che torna indietro nel tempo, agli anni Trenta, Quaranta e Cin- quanta del nostro secolo, che guarda un mondo ben noto, anche

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ivi, p. 39. 38

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per ragioni familiari, che chiede a un microcosmo socialmente umile ma saldo nei principi la chiave interpretativa di cui avverte il bisogno.

È un po’ lo stesso procedimento seguito ne La morte di Stalin da Leonardo Sciascia che al ciabattino Calogero Schirò e all’arciprete di Regalpetra sembra domandare la spiegazione del culto di Stalin e della destalinizzazione, dell’impatto di questi eventi sull’opinione pubblica internazionale, degli influssi che ne derivarono sulla vicenda politica italiana.

Tullio Saba e la sua cricca, dal canto loro, spiegano, post res perditas, il comunismo: come Calogero Schirò dicono di Stalin, delle speranze che accese e del perché le abbia accese, ovverosia delle condizioni di vita e di lavoro nella provincia mineraria sar- da, del fascismo e delle scarpe che si squagliavano, del fallimento di Antoni Saba, anche lui ciabattino, anarchico internazionalista. Non è una storia paesana combinata aggiustando i ricordi con i sentimenti: è il modo per confrontare un universo reso confortante dalle ideologie con quello che virilmente dobbiamo affrontare, non sapendo “quale sia la verità, se c’è la verità”.

Nel documento A lonely Man (pagine 38-41)

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