8. La sorte non ha consentito ad Atzeni di dispiegare intera-
1.3. Il dattiloscritto che contiene Campane e cani bagnat
propone anche, in tre righe, un profilo biografico dell’autore: “Sergio Atzeni, sardo randagio anarchico e quarantenne, ha pubblicato finora due romanzi presso Sellerio di Palermo, Apolo- go del giudice bandito (1986) e Il figlio di Bakunìn (1991)”.
Tutto ciò che lo scrittore vuol dire di se stesso, l’essenziale della sua vita, oltre l’indicazione dei titoli allora pubblicati, è racchiuso in poche parole: sardo, randagio, anarchico, quaranten- ne. Potrebbero, la prima e l’ultima, essere prese come mere indi- cazioni anagrafiche: ma scavando nei valori semantici quel sardo gridato come prima connotazione può anche contenere un’aggiunta di significato sulla quale converrebbe riflettere, e il quarantenne fornisce un’indicazione non solo privata ma forse più ampiamente generazionale, segnala uno stato d’animo col- lettivo, indica l’appartenenza a un gruppo che trova possibilità d’identificazione proprio negli anni che ha vissuto.
Poi ci sono il randagio e l’anarchico che vanno intesi in un’accezione allusiva e metaforica, quasi che lo scrittore volesse esaltare nella sua autorappresentazione il momento formativo
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del movimento, del vagabondaggio, dello strappo rispetto alla routine esistenziale alla quale aveva saputo sottrarsi. Fino a rico- noscersi interamente nella figura dell’emigrante che deve allon- tanarsi da una terra incapace di fornirgli ragioni e possibilità d’esistenza, che deve faticare senza sentire disdegno per i lavori materiali più umili ma anzi, proprio in quelli, riesce a trovare li- bertà e modalità espressive. Temperamento anarchico che non si acquieta in mediocri accomodamenti ma giudica essenziale il bi- sogno di realizzarsi in maniera compiuta, intransigente con se stesso, sovversivo.
Poteva essere una miscela capace di produrre soluzioni drasti- che, visioni schematiche, rancori profondi. Paradossalmente ne deriva, nel caso di Atzeni, una veduta ampia, una generosità di giudizio, una tolleranza che finisce col divenire espressione di amore per gli esseri umani, volontà di capire i loro problemi.
Tutto questo ci dicono le parole pronunciate a Cagliari, nel 1991, per la presentazione del romanzo Il figlio di Bakunìn, av- venuta all’interno di un ciclo di conferenze intitolato Il mestiere dello scrittore.
L’emigrante strappato alla propria terra vi ritorna e non ha malvolere nei confronti del mondo dal quale si è dovuto allon- tanare, ma volontà di comprendere, di spiegare e spiegarsi, di trovare il modo per dipingere i drammi di quell’universo. Que- sto è, anzi, a ben vedere, l’unico compito che Atzeni assegna alla scrittura: una testimonianza d’amore e d’intelligenza, per il resto totalmente libera di abbandonarsi al fluire della fantasia, incapa- ce di autodefinirsi quanto alle motivazioni.
Altro discorso deve essere fatto per quel che riguarda la tecni- ca: la concezione, apparentemente dimessa, relativa al carattere artigianale della scrittura, in realtà sottolinea il ruolo dell’artifex, ne definisce i compiti, ne esalta il ruolo nel rifiuto di ogni con- cezione romantica.
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Ma ciò che principalmente colpisce in quella conferenza è lo spirito positivo dal quale l’oratore è animato. L’ironia è affettuo- sa e garbata, la polemica non aspra ma piuttosto tesa a capire i limiti delle situazioni esaminate per trovare possibili rimedi, la disponibilità nei confronti del pubblico (in prevalenza composto da giovani) autentica e totale, simpatetica.
Un atteggiamento molto diverso da quello che spesso assu- mono gli scrittori nel momento del successo: pronti all’auto- esaltazione e al regolamento dei conti con quanti non hanno apprezzato nella giusta misura i loro meriti, impudicamente in- clini a collocarsi nell’empireo della letteratura. Niente di tutto questo nelle parole di Sergio Atzeni che non perde il senso della misura e propone con rispetto e autentica ammirazione i nomi degli autori ai quali può, a suo giudizio, essere applicata la defi- nizione di grandi.
Epperò ci sono, nel suo discorso, almeno due scatti di legit- timo orgoglio. Riguarda il primo la caparbia rivendicazione dei diritti della sua fantasia, contro tutti quelli che, anche di cultura elevata, finiscono inevitabilmente per cercare nei romanzi le tracce della realtà, i riferimenti a fatti e personaggi storici, gli elementi autobiografici. Atzeni, per aver con lungo studio osser- vato i suoi autori preferiti, per aver sperimentato nelle faticose notti di lenta scrittura, sa quanto diletto l’autentico narratore ri- cavi dal correre della fantasia e dall’esercizio paziente di limar la parola che finisce col bruciare ogni scoria del reale. Esiste una profonda differenza fra la cronaca, l’intendimento, pur nobile, di parlare del proprio paese, di descriverne usi e costumi, e la letteratura. Occorre che tutti lo comprendano, che in primo luogo lo sappiano i suoi giovani interlocutori. Per questo sembra irrigidirsi, dà risposte nette, puntualizza.
Il secondo motivo d’orgoglio va ricercato nel caparbio rifiuto di ogni filiazione letteraria. Molte domande mirano a sapere quali siano gli autori che maggiormente abbiano influito sulla
sua formazione, qualcuno lo lusinga proponendogli modelli alti. Le risposte, alle volte apparentemente paradossali66
, tendono sempre a rivendicare la propria originalità, piccola che sia, ma certa. E soprattutto a respingere i luoghi comuni, gli accosta- menti scontati, le dimenticanze che rischiano di mettere in om- bra l’importanza di letture invece significative.
Tutto nel segno della consueta modestia: da “piccolino” (in realtà aveva una quindicina d’anni) ha incontrato Miguel Astu- rias: un altro scrittore su quell’incontro avrebbe costruito un mito. Atzeni dice: “Non so se anche questo mi abbia potuto in- fluenzare, in realtà non ho idea, non ho usato modelli in modo preciso, voluto ed esplicito”67.
Alcuni nomi li cita, ma lo fa per dar conto delle tappe di una riflessione che, attraverso il confronto, lo ha portato alla costru- zione di un personale progetto.
Ecco, il progetto; anzi due. Il primo riguarda l’attività cultu- rale, letteraria ed editoriale in Sardegna. Un antico sogno irrea- lizzato ma sempre presente, se per confermare le sue parole chiama in causa “i ragazzi della Cuec” (la casa editrice cagliarita- na alla quale si sentiva vicino per comunanza di ideali), e se può definirlo con poche ma precise parole, la sintesi di lunghi ragio- namenti: “Ero convinto che bisognasse fare una casa editrice in Sardegna, non centocinquanta: un editore sardo che lavorasse senza contributi regionali, col mercato, con la gente e che un giorno riuscisse finalmente, senza i soldi della Regione, a sbarca- re in continente e a vendere i propri libri”68.
Fino all’ultimo ha continuato a meditare su questo disegno, con la speranza di poter tornare nella sua terra per offrire
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“D. «In che misura una tradizione culturale, letteraria, sarda ti ha ispirato. In altre parole, preferisci Enrico Costa o Raymond Chandler? Chi ha avuto più im- portanza nella tua formazione personale e letteraria?». R. «Ziu Paddori»” (Il me-
stiere dello scrittore, cit., p. 89).
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ivi, p. 83. 68
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l’esperienza maturata nel corso degli anni spesi nel rapporto con le grandi case editrici nazionali.
Il secondo progetto è invece più strettamente legato alla sua attività di scrittore e riguarda la volontà, spesso ribadita, di farsi cantore dell’umile realtà sarda: “se avrò vita cercherò di raccon- tare tutti i paesi, uno per uno”69.
Dichiarazione d’intenti che implica una riflessione, e non di poco conto, sul tema nazione e narrazione o, se vogliamo, scrittu- ra e tradizione. “Tema ambiguo e pericoloso, come tutto quanto è legato al sangue, alla razza, alla lingua”, ma anche irrinuncia- bile: “credo non possa esistere scrittore alienato dalla propria na- zione”70.
Complicato, nella nostra epoca, da un’appartenenza nazio- nale che può essere “doppia o tripla o quadrupla”, dal fatto che “narrare la propria nazione non significa amarla”, che la tradi- zione di riferimento può essere assai più ampia di quella locale, cittadina, regionale o nazionale, come accade a chi contempora- neamente si senta, ed Atzeni si sente, “sardo, italiano, europeo”.
Una complessità di radici e tradizioni che rende arduo, non impossibile, il compito dello scrittore nazionale, massimamente di quello che appartiene a una piccola nazione le cui potenzialità non si sono mai pienamente dispiegate nella storia. Ad aggiun- gere complicazione, ma anche una possibilità di salvezza, il biso- gno (l’imperativo) di cercare “un linguaggio personale ma co- municativo”, anche ricorrendo, quando necessario, alla propria lingua materna, il sardo e il calaritano, nel caso di Atzeni.