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L’Apologo del giudice bandito è il punto di partenza

Nel documento A lonely Man (pagine 177-185)

dell’itinerario narrativo di Atzeni, ma, sotto un certo profilo, rappresenta un punto d’arrivo. In questo romanzo lo scrittore comincia a mettere a punto la sua visione ideologica con una sorta di bilancio riguardante l’interpretazione della storia sarda. Sembra quasi volersi ricollegare ad un’antica tradizione di scrit- tura, quella degli autori sardi dell’Ottocento, divulgatori e inter- preti della storia patria, ma insieme li tradisce, più attento alle ragioni dell’arte che non a quelle del vero storico. Epperò da lì parte, dalla volontà di trattare, con occhio interno, una materia troppo spesso affidata alla penna, esterna ed estranea, cultural- mente subalterna, degli “storici savoiardi”, rivendicando per la fantasia un ruolo di verità, di interpretazione e di invenzione della storia che non è mai stato affermato dalle pagine storiogra- fiche menzognere e deformanti. Non gli sono ignoti i dibattiti culturali vivi nella Sardegna in cui, fino al 1986, ha abitato, né la teoria della costante resistenziale che vede nelle genti della Barba- gia l’irriducibile nucleo di opposizione a ogni tentativo di pene- trazione straniera nell’isola. Nel suo itinerario di formazione c’è, per altro, un lungo soggiorno a Orgosolo, nel corso del quale ha stabilito contatti e sintonie che rimarranno vivi fino agli

ultimi giorni, ricchi per l’aspetto umano, produttivi in quello culturale. E c’è la convinzione che l’agire poetico e letterario si fondi sul mito, su quei miti che ciascun popolo ha, o può co- struirsi, per riconoscere se stesso fra tutti i popoli che vivono nel mondo, per raccontare di sé nella fase dell’oralità, per narrare sulla pagina scritta come in molti casi è stato fatto, come può es- sere fatto per quanto riguarda la Sardegna.

Il nucleo drammatico è nella storia, in una vicenda di contra- sti e di guerre, di volontà di dominazione e di tenace sforzo per sottrarsi al dominio. Tale nucleo lo scrittore dovrà valorizzare con la sua arte, inventando figure attraverso le quali, come in un apologo, sia possibile proporre fatti che abbiano efficacia narrati- va e, naturalmente, valore esemplare.

Ecco allora la figura del “giudice bandito” che irrompe sulla scena quando ormai il romanzo ha avuto ampio sviluppo e ha de- lineato lo schema dominatori/dominati, spagnoli/sardi delle città, in cui gli uni e gli altri hanno il tratto della degradazione fino alla metamorfosi animalesca. Da tale schema deriva l’immagine di quella che Noemi Messora ha definito “una società repellente”, immersa in un’atmosfera di violenza, “immagine della pazzia umana al potere”212, della pazzia che anche condiziona coloro che il potere subiscono, finendone corrotti.

Non traggano in inganno la data che campeggia in apertura, il 1492, e l’ambientazione nell’ “isola di Cerdegna”: del potere si tratta, in ogni dove e in ogni tempo, dei guasti che ha determi- nato e determina, della corruzione che ne discende, della società che così si forma, del coinvolgimento anche di coloro che al pote- re si oppongono. Certo, Itzoccor Gunale, il giudice, ha tratti che evidenziano la sua diversità, gli spetta una descrizione fisica no- bilitante e l’inevitabile riferimento animalesco non è per lui se- gnale di degradazione. La volpe è simbolo di indipendenza e

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N. MESSORA, Metafore d’animali nell’opera Apologo del Giudice Bandito di

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d’astuzia, di un agire imprevedibile e non subordinato alle rego- le: “Pure sei caduto nella rete”213

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Gunale ha uno spessore psicologico che gli sarebbe negato in un classico modulo di tipo ribellistico, l’eroe positivo/bandito per necessità che combatte senza dubbi o tentennamenti: “Ho combattuto, ho obbedito alla legge dei padri, non mi sono tirato indietro una volta, ma non ho visto che terra rapinata, non ho visto che invasori più forti, non ho visto che uomini piegati e umili di fronte allo straniero. Perché combattere ancora? Quag- giù? Non ho altro nemico, quaggiù, che me stesso”214. Noemi Messora conclude: “Apologo del giudice bandito non è un libro a tesi, un libro a favore di una teoria politica piuttosto che un’altra. È il libro del dubbio, inteso come dicotomia tra libertà e predesti- nazione, tra la libertà di chi combatte per l’indipendenza nazio- nale e politica di un popolo e la risposta alla domanda chiave dell’etica politica: qual è il confine morale tra la lotta per una cau- sa e il valore della vita umana? E la scelta è compiuta dall’uomo o dal suo destino biblico? Il successo di una lotta eticamente giusta nasce solo e inevitabilmente dall’assassinio? È il libro del dubbio sul tema della colpa e dell’innocenza. L’assassinio può essere in- nocente? È il libro della ricerca di una definizione dell’etica po- litica intesa come definizione del fine ultimo della vita e del re- sponsabile di tale fine”215.

Con il suo romanzo d’esordio Atzeni è riuscito a evitare tutti i rischi insiti nella materia trattata, nella tradizione letteraria e nell’impostazione del dibattito storiografico dai quali pure ha tratto alimento. Lo ha salvato l’istinto di narratore e un grumo dolente da cui era segnata la sua interiorità. A dispetto di tutto Itzoccor Gunale è un personaggio moderno, non antenato lon-

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Apologo del giudice bandito, cit., 1986, p. 86.

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ivi, p. 92. 215

tano ma spiritualmente prossimo a quanti, in tempi recenti, hanno deciso di rispondere all’invito di Katmandu.

All’Apologo del giudice bandito può essere estesa quella defini- zione del pensiero politico di Atzeni come “più tradizionalmente universalistico, tra anarchico e comunista” che Cordelli princi- palmente utilizza per Il figlio di Bakunìn. Il postulato sotteso al romanzo implica il rifiuto di ogni autorità costituita, di ogni co- strizione esteriore (non certo il disconoscimento del valore e della funzione del giudice, interprete di una volontà diffusa) e, di contro, l’affermazione di un sentimento universalistico di fratellanza e solidarietà che prescinde dai vincoli familistici, etni- ci o sociali e piuttosto si fonda sulla comunanza di sorte: “Non siamo cresciuti nel ventre della stessa madre, ma il destino ci ha fatto fratelli...”216

. “La comunità -dice Cordelli- è dove convivo- no quelli che si somigliano”.

Somiglianze più forti si affermano ne Il figlio di Bakunìn, romanzo di una memoria dolente ma in fondo nostalgica, non agitata dal rimorso, come accade, ad esempio, ne La fine di Horn di Cristoph Hein. Non appaia la citazione casuale: nell’un caso e nell’altro, con interessanti analogie strutturali e stilistiche, attra- verso l’affiorare dei ricordi di vari testimoni, viene ricostruita (per quanto è possibile, e fino a concludere che è impossibile identi- ficare e narrare la verità) la vita di un uomo la cui esperienza biografica si è intrecciata con i grandi e tragici eventi del comu- nismo internazionale. Ma i contesti e le situazioni di fatto sono totalmente diversi. Hein appartiene ad un popolo che porta an- cora il rimorso collettivo della violenza inflitta con la sopraffa- zione nazista, Atzeni ad un piccolo popolo che la violenza dei dominatori ha sistematicamente subito. Horn è vissuto in una stagione di socialismo reale, di comunismo realizzato con note- vole scarto rispetto al progetto ideale; Tullio Saba, durante il fa- scismo e negli anni della seconda guerra mondiale ha nutrito un

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sogno comunista fatto di speranza e di gesti simbolici. Entrambi i romanzi appartengono alla stagione europea caratterizzata dal crollo del Muro di Berlino, ma i personaggi de Il figlio di Baku- nìn non hanno, non possono avere, complessi di colpa, non hanno fatto il male, semmai lo hanno patito. Hein rappresenta un tetro mondo di burocrazia partitica, conformismo e piattez- za, sospetto e procedure inquisitorie, paura e odio per la libertà di pensiero: il comunismo del guspinese è di tutt’altra natura. Pre- suppone il rispetto dell’uomo e la responsabilità individuale, un’elaborazione di pensieri, e gli atti conseguenti, che non posso- no essere delegati a nessuno, neppure al dirigente supremo: “Far crollare una galleria in testa a un padre di famiglia che si guadagna il pane in fondo a un pozzo? Manco se Stalin viene qui a chie- dermelo di persona. Non può essere così coglione”217

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Anche in questo caso, come avveniva nell’Apologo del giudice bandito e come sarà per Passavamo sulla terra leggeri, Atzeni lavo- ra sul mito per costruire la storia futura della sua gente, il mito degli eroi sardi, il mito di Stalin, quale poteva apparire agli occhi di quei personaggi: “Chi era Stalin per noi allora? Parlo degli anni ultimi che portano alla guerra. Chi era? Era il capo del pae- se dove non c’erano padroni, dove i minatori guadagnavano più degli ingegneri, perché facevano un lavoro più faticoso e peri- coloso, dove le armature di Giacomo Serra sarebbero state citate ad esempio e imitate, dove c’era il libero amore, dove i minatori andavano ai concerti e a teatro, in abito da sera. Tullio racconta- va queste cose, perché non crederci? Faceva piacere immaginare che in un luogo del grande mondo la prima preoccupazione del governo era che i minatori non lasciassero la pelle nei pozzi. E che non dovessero lavorare con le cosce nell’acqua e con le scarpe squagliate. Tutte queste notizie erano date per certe. Dopo la guerra la canzone è cambiata. Abbiamo cominciato a sentire dei processi del ‘37, dei compagni uccisi... Al principio pensavamo

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che i processati fossero traditori, poi lentamente abbiamo capito la verità. Ma negli anni del fascismo Stalin era il padre buono. Benito il patrigno cattivo. Ora tutto è cambiato, la nostra fede di allora sembra ridicola, anche il partito dice che Stalin era un criminale. Sai cosa ti dico? Darei tutto quello che ho per tornare a provare l’emozione di quel giorno, quando abbiamo visto l’armatura finita e quella scritta lucente là in alto, VIVA STALIN”218.

Un sogno umanista, l’aspirazione verso una comunità di eguali che condividono un progetto politico ma anche hanno identità di sentimenti ed emozioni, a dispetto della diversità di razza, colore di pelle, lingua e mondo di appartenenza: “Siamo scesi dal treno, era una giornata di sole, sotto i portici di fronte al porto una folla di belle ragazze; camminavamo a occhi aperti ma ci sentivamo leggeri, come in sogno, Cagliari in quegli anni mi faceva sempre quell’effetto. Oggi non più. Passavamo sotto i portici e abbiamo sentito un suono di clarino che veniva da uno dei vicoli, suonava musica sconosciuta. Seguiamo il suono per scoprire il suonatore. In uno spiazzo bianco di macerie che splendevano al sole, dove forse prima dei bombardamenti del ‘43 c’era stata una casa, almeno cento persone danzavano. Su un mozzicone di muro giallo era poggiato di spalle un negro alto due metri con la divisa dell’esercito americano, senza mostrine, forse era uno di quelli che spruzzavano il DDT e in pochi anni hanno fatto sparire la malaria. Era lui che suonava il clarino. Af- fianco aveva un cinese alto mezzo metro di meno, anche lui in divisa americana, che suonava come fossero tamburi una serie di barattoli di pappetta vuoti. Il cinese sorrideva sempre, il nero guardava sopra le teste, verso il mare, con occhi rossi e perduti. Cesarino per un po’ li ha ascoltati. Poi ha imbracciato la fisar-

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monica, se la portava sempre appresso per scaramanzia, e si è unito alla loro musica”219

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Con tutti i suoi limiti, le illusioni e le ingenuità, le difficoltà della vita, la fame e la guerra, in fondo un mondo felice. E sem- plice. Immediato il comprendere chi fossero gli amici e i nemici, dove corresse il filo della distinzione, il perimetro all’interno del quale sta una comunità distinta dal resto del contesto sociale. Quelli che fanno il male e quelli che lo patiscono, “troppo de- boli, troppo pochi per poter pensare di fare di più”220, paghi di un gesto simbolico per quanto inutile, ma certi di saper esprime- re la profezia del mondo che verrà. E che non è venuto, nono- stante l’intensità delle attese. Questo si incarica di dire Il quinto passo è l’addio, il romanzo della fede incrinata, come efficace- mente ha notato Cordelli. Quella che è scomparsa, “a un quarto dal Duemila” è la fiducia nell’azione politica, e con essa la co- munità universalistica, anarchica e comunista che aveva tenuto negli anni bui del fascismo, della guerra e, in certo qual modo, in quelli del dopoguerra. I tempi de Il quinto passo è l’addio sono affaristici e rampanti, di un’azione politica indistinta dove non è più dato scorgere il confine tra i comportamenti: le idealità pro- clamate non corrispondono all’agire quotidiano. La conseguenza più evidente è che si rompe la mappa della comunità fino ad al- lora forte e altre se ne formano, in processi di successive emul- sioni, non chiare, al principio, non basate su distinzioni certe quale poteva essere, ad esempio, quella di classe, ma su dati me- no facilmente documentabili, attinenti all’interiorità, al modo di essere, ai sentimenti celati: “La mitezza non incute rispetto né suscita vero compatimento. Anzi: godono a schiacciarti”221. Non più “Proletari di tutto il mondo, unitevi”: ora devono unirsi gli uomini miti, quelli che rifiutano di scegliere fra schiacciare o es-

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ivi, p. 91. 220

ivi, p. 61. 221

sere schiacciati, che non credono nell’obbedienza ai partiti, che non accettano una società nella quale hanno diritto di cittadi- nanza solo i conformisti e i gregari. È nata la comunità delle pe- core nere.

Non ci sarebbe molto da aggiungere a quanto ha detto Cordelli, ma può forse essere utile richiamare l’attenzione sull’episodio del concorso giornalistico che ha un valore esemplare, praticamente didascalico, senza per questo perdere ritmo e valore narrativo.

Storia di un concorso che può essere riassunta nelle tre bat- tute del dialogo con il pastore incontrato durante il viaggio in nave: “«Hai gli amici giusti?» «Non ho amici.» «Non vince- rai.»”222. Le premesse stanno nell’episodio della radio privata di- retta da Pippo Ibba; la conclusione nel colloquio con il commis- sario di concorso che spiega a Gunale il motivo per cui non ver- rà assunto alla Rai: “«Abbiamo anche provato a far passare la de- libera. Non c’è stato verso. La fermano.» «Chi?» «I tuoi. Il sena- tore Tonino Portas»”223

. Chi sono “i tuoi”? Coloro che, nel pre- cedente romanzo, formavano la comunità, gli aderenti allo stesso partito, il partito della speranza, del rinnovamento totale, della fe- de nell’uomo. La situazione è evidentemente cambiata, dell’uomo non importa a nessuno e la comunità/partito non esiste più. O meglio, si è frantumata e persegue altre logiche, estranee alle ori- ginarie ragioni, legate ora a interessi non del tutto confessabili, a convenienze individuali. Si è conclusa l’esperienza che, per co- modità abbiamo definito del comunismo guspinese e un’altra si è affermata e si esprime nel colloquio tra Gunale e l’addetto al settore Stampa e Cultura, vero esponente della burocrazia parti- tica che potrebbe trovar posto nell’opprimente società della DDR descritta da Cristoph Hein.

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ivi, p. 108. 223

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