Atzeni, non hanno potuto fare a meno di osservare le particola- rità di uno stile che, fin dalle prove giovanili e poi, con crescenti consapevolezze, negli anni della maturità, è andato orientandosi verso la frantumazione del testo in segmenti sempre più brevi, da una parte, e, dall’altra, nella ricerca di valori espressivi, sono- rità nuove, chiarezze e opacità, attraverso l’impiego di vocaboli, espressioni tipiche, costrutti sintattici tratti dalla lingua sarda, dall’italiano regionale parlato nell’isola, dal gergo in uso fra i giovani cagliaritani.
L’insieme di questi temi è stato affrontato da Cristina Lavinio in un intervento, intitolato Tecnica del frammento e sperimenta- zione linguistica, pronunciato nel corso del Convegno di studi su Sergio Atzeni 130
. L’attenzione della studiosa si è incentrata, in questo caso, sull’Apologo del giudice bandito, su Il figlio di Baku- nìn e su Il quinto passo è l’addio: tanto significativi i risultati ot- tenuti da far sorgere il desiderio di veder l’indagine estesa a Pas- savamo sulla terra leggeri e a Bellas mariposas.
Quest’ultimo racconto rappresenta, infatti, un punto d’arrivo e sarebbe certamente stato, se la morte non avesse interrotto il lavoro dello scrittore, il punto di partenza di uno stile narrativo e linguistico sempre più maturo e consapevole. È possibile giun- gere a questa conclusione unendo alla lettura attenta dei romanzi e dei racconti la conoscenza di tutti gli altri materiali (articoli giornalistici, recensioni, interventi pubblici) oggi resi disponibili
130
e partitamente descritti dall’ottima tesi di Gigliola Sulis131 . Alla quale Gigliola Sulis anche dobbiamo la preziosa intervista, l’unica di tale ampiezza e sistematicità, nella quale Atzeni illu- stra, con puntiglio, la sua poetica e spiega la concezione della lin- gua alla quale, in quel periodo e dopo un lungo percorso, co- minciava a pervenire. A tale intervista è opportuno, ancora una volta, rimandare il lettore132, e sia qui sufficiente citare la sinteti- ca e perentoria affermazione che dice: “La letteratura è il paese della lingua”133. Un paese che -come quelli degli uomini, segnati dal confronto delle etnie, dall’incontro e dallo scontro delle di- versità- ha il suo tratto più importante, e per Atzeni più bello, nel misturo che consente alle lingue di dialogare fra loro e di ar- ricchirsi reciprocamente134
.
131
Cfr. G. SULIS, La personalità e l’opera di Sergio Atzeni. Dall’isola al mondo, tesi di laurea discussa nella sessione estiva dell’anno accademico 1997-1998 nella Fa- coltà di Lettere dell’Università di Cagliari.
132
G. SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verità, cit., pp. 34-41. 133
ivi, p. 39. 134
L’obiettivo esplicitamente dichiarato da Atzeni è quello di arricchire l’italiano mescolandovi parole del sardo. Programma serissimo, che lo scrittore convalida citando gli esempi di Gadda e di Chamoiseau: non senza, forse, una qualche iro- nia, se pensiamo alla lingua dei mastrucati latrones chiamata in soccorso di quella di Dante.
Può essere utile ricordare che nell’Ottocento, Vincenzo Porru, riflettendo sulla lingua sarda, esprimeva posizioni linguistiche non molto dissimili da quelle che, trascorsi quasi due secoli, Atzeni sosterrà per l’italiano. Particolarmente interes- sante è il fatto che il Porru si ponesse il problema di “arricchire” la lingua sarda come poi Atzeni farà per la lingua italiana: “Non manca al linguaggio de’ Sardi né proprietà d’idiotismi, né vivacità di frasi, né verecondia di traslati, e sostiene e gra- vità di stile, e nobil dicitura, come più volte i nostri sagri Oratori lo han dato a divedere sì fattamente, che hanno riscossa l’ammirazione, e l’applauso comune. Ma dato pure, che il dialetto de’ Sardi scarseggiasse di voci, in cui vece non senza grazia o intreccj sostituisconsi di eleganti perifrasi, o voci più significanti di altre lingue, qualora la necessità il richieda di rendere più energica, e vivace un’espressione; e che perciò? La patria favella non si dovrà mai arricchire di quelle voci, di cui manca, e singolarmente delle univoche, togliendole o dalle matrici lingue, o da qualunque altra, affine alla Sarda? Ne rimarrà priva sempre, e digiu-
Sergio Atzeni: a lonely man 117
Qui il ragionamento teorico si ferma e chi voglia comprende- re in che cosa esattamente consista l’affermazione: “Immetto nell’italiano delle quantità di sardo, seppure molto limitate”135
, dovrà esaminare i racconti e i romanzi nella sequenza compositi- va, osservare se quella quantità cresca o decresca, quale valore semantico di volta in volta assuma nel rapporto con l’italiano (poiché, in certi casi, sembra che lo scrittore assegni ai due idio- mi il compito di rappresentare significati diversi) ma, soprat- tutto, che caratteristiche abbia quel sardo, a quale varietà appar- tenga, se sia una lingua alta o sia stata raccolta pei viottoli dei campi, se sia una lingua o un gergo, se sia stata, infine, inventata dallo scrittore e prima di lui non esistesse.
Due constatazioni sembrano imporsi su tutte le altre. La pri- ma dice che, nella pratica della scrittura, l’accostamento di ita- liano e sardo ha rappresentato per lo scrittore un problema di non facile soluzione, tanto è vero che il percorso seguito dalla prima all’ultima opera non è lineare né sempre conseguente136
.
na? Non può se non una mente signoreggiata da pregiudizj negare, che i pubblici Dicitori del nostro dialetto giudiziosamente fanno uso talora di stranie voci per vieppiù vestire, e sostenere la lingua della Nazione. Né in questo fanno altro, che seguir le orme delle più colte Nazioni, le quali nulla mai ebbero più a cuore, che accrescere, e ingentilire il natìo parlare, col togliere quasi a vicenda l’una dall’altra que’ vocaboli, de’ quali scarseggiavano. A chi non è noto, che i Romani da’ Greci, e questi talora da’ Romani in prestito prendeano le parole? Il medesimo sappiamo praticarsi tra i Tedeschi, e gl’Inglesi, tra gl’Italiani, e i Francesi, tra gli Spagnuoli, e gl’Indiani. Or s’egli è vero, che siamo più debitori alla patria, che a coloro, i quali ci produssero a quest’aura vitale, e che da ognuno tribuenda est opera Rei-
pubblicae, vel omnis potius in ea cogitatio, et cura ponenda, por dobbiamo ogni co-
nato in dirozzare, ed accrescere la lingua della Nazione, giacché da questo a lei vantaggio, splendore, e lustro ne ritorna” (V. R. PORRU, L’autore a chi legge, in
Saggio di grammatica sul dialetto sardo meridionale, Cagliari, 1811, reprint, Sassari,
1975). 135
G. SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verità, cit., p. 37. 136
Per capire la complessità delle questioni -e senza l’intento di creare confronti improponibili- sarà utile ricordare che nel caso di Carlo Goldoni l’uso del dialetto “non è un dato pacifico e naturale ma una lenta e difficile conquista” (G.
La seconda che probabilmente da tale difficoltà discende la scelta -evidente principalmente ne Il quinto passo è l’addio, ma anche, per alcuni aspetti ne Il figlio di Bakunìn e in Bellas mariposas- di impiegare il sardo soltanto in situazioni espressive di forte con- notazione popolare.
Bisogna dire, per evitare fraintendimenti, che Atzeni si segnala fra gli scrittori italiani moderni che con più forza hanno affrontato il tema della lingua cercando di rinvigorire un italiano sempre più inadeguato rispetto alle funzioni proprie della scrittura letteraria137. Non solo, c’è anche da aggiungere che in questa direzione si è mosso istintivamente fin da giovanissimo -ne abbiamo testimo- nianza nel lavoro giornalistico-, in pagine ancora lontane dai ro- manzi della maturità ai quali è giunto con un’esperienza già con- solidata, con sperimentazioni compiute nel corso di molti anni. E inoltre che in ogni momento del suo lavoro ha portato una freschezza che gli derivava dall’uso quotidiano del sardo -del sar- do calaritano mescidato con l’italiano138
, colorito con intonazioni
FOLENA, Il vocabolario veneziano di Goldoni, in L’italiano in Europa, Torino, Einaudi, 1983, p. 195).
137
Il tema, così come Atzeni se lo trovava di fronte, con la complessa gamma di implicazioni linguistiche e letterarie, ma anche sociali e politiche è stato affrontato dal linguista Tullio De Mauro, dagli scrittori Vincenzo Consolo e Francesco Guc- cini, dai poeti Andrea Zanzotto e Franco Loi in un numero della rivista “Micromega” (n. 5, a. 1996, pp. 87-126) che lo ha presentato con un titolo dal significativo sapore politico: L’Italia salvata dalle lingue.
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La posizione di Atzeni, anche sotto questo profilo e fatte salve le diverse intona- zioni dovute al trascorrere del tempo, è, nella sostanza, assai vicina a quella di Vincenzo Porru che nel 1832 scriveva: “Chi mai vorrà circoscrivere la libertà filo- sofica della maggior parte degli uomini liberamente parlanti, sicché non possano adottare tra le stranie quelle voci, che loro sembrano atte a gentilmente esprimersi, e suscettibili di vestirsi della divisa nazionale? Niuno, se non dominato dalla pre- venzione, oserà proscrivere come illegittimo e licenzioso ogni qualunque termine di nuovo accattato, se con delicata desterità vien configurato e senza sforzo ravvi- cinato al gusto e all’armonia delle patrie voci. Abborrisco anch’io la facilità di adottare inutili e viziosi neologismi; sono però ben lungi dal persuadermi, che ogni tintura di peregrinità e novità di voci possa alterare la patria favella; soprat-
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gergali e dell’uso giovanile, che si usava e, almeno in parte, si usa a Cagliari- dal piacere di parlare e sentir parlare quella lingua bastascina. Quindi non lingua della cultura e della tradizione let- teraria ma dell’uso popolare, la qual cosa lo ha sempre reso libero anche nei confronti dei problemi ortografici, vexata quaestio del sardo, che gordianamente ha risolto, nella prosa come nei versi modellati sugli amati mutettus, inventando a piacer suo la grafia (e, se gli garba, i segni diacritici), come accade, ad esempio, nel caso di quel mrajahi139(volpe) che il Wagner preferirebbe veder scritto mraz5áni o, in alternativa, mrez5áni, marg5áni.