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Le ambiguità del percorso di evoluzione normativa e culturale della Regione Calabria

Mutamenti delle forme di accoglienza dei minor

5.1 Le ambiguità del percorso di evoluzione normativa e culturale della Regione Calabria

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Carugati F., CasadioG., Lenzi M., Palmonari A.,Ricci Bitti P., Gli orfani dell’assistenza, il Mulino, Bologna,1973, pp. 15-17.

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servizi, la territorialità dei servizi, e l’universalità delle prestazioni6

6 Con la riforma della sanità (L.833/78) potrà dirsi completato il processo di decentramento che attribuirà ai Comuni, alla Provincie e alle Regioni le competenze in materia sociale.

. Non si può affrontare compiutamente la storia dell’evoluzione normativa della regione Calabria senza accennare alle dinamiche generate dal decentramento amministrativo. Per alcuni questo processo venne salutato con favore poiché avrebbe potuto rappresentare un’opportunità per rispondere in maniera più adeguata ai bisogni dei cittadini -utenti, mentre per altri lo stesso avrebbe potuto produrre maggiori disparità in termini di soddisfacimento dei bisogni, sia in virtù delle caratteristiche ambientali dei singoli territori, sia per il potenziale pericolo che il senso d’imparzialità degli amministratori locali poteva essere insidiato da ideologie politiche e da fini elettorali. Lasciando da parte le posizioni contrapposte in merito all’impatto che il decentramento avrebbe avuto nelle varie regioni d’Italia, è importante sottolineare che questo processo influenzò anche l’ambito delle politiche rivolte ai minori. Con il citato decreto presidenziale, il comune venne individuato come il soggetto competente all’organizzazione e alla gestione delle politiche assistenziali, ma tale assegnazione ne rendeva difficoltosa la stessa realizzazione delle funzioni allo stesso affidate specialmente nelle regioni del Sud d’Italia. In questi territori, oltre al noto problema dell’assenza di interventi e strutture di recupero per i residenti, doveva essere gestito il fenomeno del rientro dei minori ricoverati negli istituti del resto d’Italia. Un contesto problematico che generò da parte delle nuove forme comunitarie, servizi residenziali sviluppati dagli attori appartenenti al settore non profit, una domanda di riconoscimento che si traduceva in una collocazione specifica all’interno del nuovo assetto dei servizi. In Calabria, le prime sperimentazioni tese ad offrire risposte diverse dal collocamento dei minori in istituto vennero realizzate nel 1970 grazie all’iniziativa di alcune associazioni di volontariato impegnate nel campo dei minori con disadattamento socio familiare e psichico. Tuttavia, solo nel 1975 la Regione riconobbe, attraverso la stipula di specifiche convenzioni con le stesse, il contributo delle nuove forme comunitarie d’accoglienza inserendole nel nuovo assetto dei servizi socio-assistenziali. L’agognato riconoscimento avvenne attraverso delle delibere regionali con le quali venivano istituiti i primi

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gruppi appartamento e case famiglia destinate ad ospitare minori con problemi di disadattamento sociale e familiare7

Come si può osservare dal citato articolo questa legge non si occupa esclusivamente del disagio minorile e familiare, ma del riordino e della programmazione delle funzioni socio-assistenziali. La stessa si presenta come molto innovativa nei contenuti, poiché si ispira al principio della prevenzione del disagio ed alla promozione di interventi di tutela, ed individua delle modalità concrete di mantenimento del minore in un ambiente familiare, limitando il ricovero in istituto per quei casi in cui non si sia riusciti a provvedere in maniera diversa. In linea di principio, la stessa è pienamente conforme ai contenuti volti alla deistituzionalizzazione individuati dalla legge n.184 del 1983, ma da un esame più attento si scorge che nella pratica si presentano una serie di ambiguità che ne limitano la portata innovativa. L’incongruenza più vistosa si nota dall’analisi dell’art.13, in cui l’istituto educativo assistenziale viene equiparato all’affidamento. Un’operazione che viene fatta nel momento in cui nello stesso articolo si legge che tra le forme dell’affidamento temporaneo del minore rientra l’istituto educativo assistenziale. Ebbene, questo passo del testo normativo appare in aperto contrasto con quanto disposto dalla legge n.184/1983, che qualifica

. L’atto legislativo che dà legittimità alle citate forme d’accoglienza comunitaria è la legge n. 5 del 1987, che all’art. 13 recita:

"E’ diritto del minore essere educato all’interno della propria famiglia. A tal

fine vanno garantite consulenza e sostegno anche economico per superare le situazioni pregiudizievoli per il minore. Ove questi interventi si siano rilevati inefficaci o siano inidonei va favorito l’affidamento temporaneo del minore, ai soggetti individuati dalla legge 184/1983, secondo le seguenti priorità sancite nell’ordine dalla medesima normativa: a famiglia con prole; a famiglia senza prole; ad una persona singola; a comunità di tipo familiare; ad istituti educativo-assistenziali".

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l’inserimento in istituto come ricovero ponendolo, oltretutto, come opzione residuale. Il secondo elemento di evidente contraddizione con i contenuti deistituzionalizzanti di cui la legge n. 184/1983 si fa promotrice si evince dalla lettura dell’art. 16 della l.r. n. 5/1987 il quale recita:

"Qualora risultino insufficienti o inadeguati o non siano praticabili gli

interventi socio-assistenziali di cui alla presente legge, per le situazioni in cui si rende necessario l’allontanamento stabile o temporaneo della persona dal proprio ambiente, in modo da evitare l’esposizione a particolari fattori di rischio, da soddisfare le esigenze assistenziali e da garantire il massimo benessere psicofisico e sociale sono realizzati i sotto elencati interventi aventi carattere integrativo e complementare, rispetto alle altre prestazioni prevista dalla presente legge:

- gruppo appartamento, che si caratterizza come comunità destinata a

minori e adulti con particolari problemi personali e sociali ed è inserito in normali case di abitazione; accoglie un numero limitato di persone tra le quali sia possibile la convivenza e si struttura come comunità autogestita o gestita con la partecipazione della popolazione locale e con la presenza stabile di operatori sociali e di volontari;

- comunità educativo-assistenziale, destinata ad accogliere anche minori

sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria per i quali non sia stato possibile provvedere diversamente e sia necessario un particolare sostegno educativo, diretto ad evitare o a riparare un eventuale disadattamento e a favorire lo sviluppo di efficaci rapporti interpersonali. In essa è prevista la presenza stabile di un numero sufficiente di operatori appositamente qualificati;".

Anche in questo caso ci si trova dinnanzi ad una contraddizione, poiché il gruppo appartamento viene collocato allo stesso livello delle comunità educativo-assistenziali, pur avendo una struttura fisica ed un sistema di relazioni completamente diverso dalle seconde. Infatti, secondo lo stesso dettato normativo mentre il gruppo appartamento deve essere collocato in case

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di civile abitazioni, integrato nel contesto sociale e deve strutturarsi come una comunità autogestita, la comunità educativo-assistenziale(ex istituto) deve essere considerata come una forma d’accoglienza che si attiva come extrema

ratio per quei minori che non si è riusciti a collocare in maniera diversa. Altre

ambiguità si riscontrano nel regolamento approvato con delibera della Regione Calabria n. 491 del 18 ottobre del 1989, per l’organizzazione e la gestione dei servizi socio-assistenziali in disposizione di quanto contenuto all’art. 21 della legge n.5 del 1987. Nello schema di regolamento, precisamente al titolo II, capo IV, vi è un paragrafo in cui vengono individuate le caratteristiche che le strutture, residenziali e semiresidenziali, per minori devono possedere. In esso vengono proposte tre tipologie di strutture quali: il gruppo o casa famiglia, il gruppo appartamento e l’istituto. In riferimento a quest’ultima tipologia viene precisato che con l’entrata in vigore della legge n.5 del 1987 non potranno essere aperti altri istituti, e che quelli già attivi dovranno adeguarsi ai requisiti generali e specifici previsti dallo stesso. La casa famiglia viene individuata come una struttura che deve riproporre al suo interno quelle caratteristiche affettive, funzionali ed organizzative tipiche di un ambiente familiare. Se si scende maggiormente in profondità, ci si accorge che nella delibera è scritto che la stessa è costituita da un modulo di 3/4 minori e 2 adulti educativamente validi, che devono vivere stabilmente con i minori. Secondo lo schema del regolamento il modulo composto da 3/4 minori e due adulti può essere aumentato di 3 unità di gruppo nella stessa struttura, dunque, si avrebbe un modulo composto da 9/12 ospiti e 6 operatori. La contraddizione si manifesta dalla successione delle due affermazioni riportate, in cui nella prima viene rimarcare la volontà di ricondurre le case famiglia nel novero delle comunità di tipo familiare, mentre nella seconda se ne sminuisce la portata poiché è contenuta la possibilità di aumentare il modulo. Verrebbe a tal punto naturale constare che le diverse norme generatrici di contraddizioni contenute nei diversi documenti legislativi hanno consentito ai vecchi istituti di sopravvivere, effettuando un’operazione di maquillage che si è tradotta nella possibilità di creare una o più case famiglia all’interno della stessa struttura, snaturando il principio informatore della legge stessa. Dunque, se una casa famiglia in cui

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sono presenti 9/12 bambini non può essere considerata come una comunità di tipo familiare, a maggior ragione la medesima considerazione può essere estesa a quelle situazioni in cui in un solo istituto sono presenti due o tre case famiglia. Dalle affermazioni fatte da Marcello in Calabria si è verificata :

"[…]una riconversione apparente in cui forma e sostanza tendono a separarsi:

accade, infatti, che la modernizzazione dell’accoglienza finisce per occultare la situazione reale degli istituti"8

Una riconversione fittizia che è stata oltretutto favorita dall’atteggiamento delle persone che erano chiamate a mettere pratica i contenuti normativi, le quali servendosi consapevolmente o inconsapevolmente di queste ambiguità hanno messo in atto dinamiche di resistenza all’innovazione

.

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8 Per ulteriori approfondimenti sul tema della apparente riconversione degli istituti in Calabria e sui dati relativi alle strutture residenziali e ad i minori in essi accolti e riferiti al 1996 cfr. Solinas G., Marcello G., L’Accoglienza di Bambini e Ragazzi al Sud, Rubbettino, 2001, Soveria Mannelli(Catanzaro), p.23.

9 In relazione alle dinamiche di resistenza all’innovazione messe in atto dalle istituzioni cfr. De Leonardis O, Il terzo escluso, Feltrinelli, Milano, 1990; De Leonardis O., Le istituzioni: come e perché parlarne, Carocci Faber, Roma, 2001.

, e di perpetuazione dei vecchi schemi semplicemente abbelliti da nuove etichette. Gli elementi esposti consentono di evidenziare che la deistituzionalizzazione dei minori non può avvenire esclusivamente attraverso un cambiamento delle norme che regolano le strutture, individuandone i parametri organizzativi e strutturali, specie se in esse sono presenti delle ambiguità, ma può avvenire se si verifica contemporaneamente un mutamento delle culture dei soggetti coinvolti. Adottando una prospettiva funzionalista gli istituti possono essere considerati come un’entità con un proprio ambiente fisico ed una propria organizzazione, volti a dare risposta a specifici bisogni ed esigenze della popolazione infantile. Tuttavia, va segnalato che queste organizzazioni anche quando la funzione per cui sono state create può dirsi conclusa, continuano a sopravvivere riproponendo i vecchi repertori d’intervento. Per cogliere queste dinamiche bisogna tener presente che l’istituzione è popolata da attori, che oltre a subire gli automatismi che si mettono in atto nell’istituzione, agiscono pratiche, si creano opinioni, esprimono delle intenzioni, ed effettuano scelte. Per

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comprendere come si sia verificato il processo di trasformazione apparente degli istituti in Calabria la domanda che ci si dovrebbe porre è: Chi ne ha tratto giovamento? Per rispondere a questo interrogativo si può riportare quanto hanno sostenuto Bonini ed altri, ossia che l’istituto si è posto come un’ entità economico-organizzative che ha inciso sulla dinamica economico-sociale di un territorio, al pari di un’industria. Lo stesso ha rappresentato un investimento di capitali particolarmente redditizio, sia per congregazioni religiose, sia per privati e per società d’azioni(es. istituti per handicappati fisici e subnormali). La preoccupazione dei responsabili degli istituti è stata quella di garantirsi la copertura di tutti i posti disponibili, tanto che si è verificato il fenomeno della deportazione di minori da un territorio all’altro del paese10

Alla luce di queste considerazioni uno degli interrogativi che ci si è posti in questo parte del lavoro è quello di capire se a seguito delle varie leggi le precedenti forme di istituzionalizzazione di norme e valori sono mutate e quali sono, e se esistono, i percorsi di cambiamento avviati all’interno delle vecchie strutture residenziali. Per far questo si è deciso di descrivere il quadro delle strutture residenziali presenti in Calabria e dei minori in esse ospitati attraverso un’analisi di tipo quantitativo, e nello stesso tempo di provare a capire se l’affidamento familiare possa rappresenta una reale alternativa alle vecchie forme d’istituzionalizzazione. Dette finalità conoscitive sono state portate a termine grazie all’uso di dati e informazioni ricavate dal lavoro di ricerca commissionato dalla Regione Calabria, Dipartimento Politiche Sociali, al Dipartimento di Sociologia e Scienze Politica per un’indagine conoscitiva dal titolo: "Strade di casa: dall’istituzionalizzazione all’accoglienza". La ricerca è . Sostanzialmente, la trama intricata delle varie leggi e dei relativi regolamenti e la logica aziendalistica che ha guidato la progettazione e la conduzione di numerosi interventi assistenziali e riabilitativi ha contribuito a determinare la sfasatura tra forma e sostanza del processo di deistituzionalizzazione.

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