QUESTIONARIO MINORI RESIDENT
3.4 Lo scenario storico e di welfare in cui si inseriscono le istituzioni assistenziali per minori dal fascismo alla fine degli anni Settanta
Nei primi vent’anni del XXº secolo quasi tutti gli stati europei possedevano un sistema di protezione sociale costruito su assicurazioni che copriva la popolazione da quatto principali tipologie di rischio: infortuni sul lavoro; malattia o maternità; invalidità e vecchiaia e disoccupazione. Per ciò che concerne l’Italia, in quel periodo si delineava lo Stato sociale fascista, che s’ispirava al modello bismarckiano fondato sulle assicurazioni sociali, caratterizzandosi almeno fino alla fine della seconda metà degli anni '30 come Stato sociale a carattere corporativo-autoritario.
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16 Cfr. Hill M., Le politiche sociali, Il Mulino, Bologna, 1999, p.45.
17 Nel 1904 viene approvata la legge Giolitti che integra la legge Crispi del 1890, quest’ultima sebbene avesse introdotto dei controlli pubblici non era riuscita a modificare il carattere privato della gestione degli istituti di beneficenza poiché non era stato creato alcun strumento diretto d’intervento dello Stato nel campo della beneficenza. In realtà, la legge Giolitti rappresentò molto di più che un’integrazione, in quanto istituì una commissione provinciale che aveva la funzione di coordinare l’assistenza in ambito provinciale ed un Consiglio superiore, che aveva il compito di studiare i problemi della nazione. Oltretutto, con questa legge si sottolineava il diritto al povero ad essere assistito, pertanto il dovere della società ad assisterlo. Inoltre, si precisava che l’assistenza privata doveva essere controllata ed integrata a quella pubblica.
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, in quanto l’ordinamento provinciale di quest’ultima contrastava con il forte accentramento amministrativo, lasciando operante la
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legge Crispi. Nel campo dell’assicurazione previdenziale18 furono apportate modifiche in linea con la concezione corporativa del regime, mentre rispetto al settore sanitario si verificò la moltiplicazione di una serie di Casse mutue categoriali. Nello Stato sociale fascista la famiglia veniva considerata come l’organismo di base dello Stato. In essa vi era una forte divisione dei ruoli, che si traduceva nella funzione del capofamiglia come percettore del reddito, e della donna come colei che doveva svolgere la funzione riproduttiva e di cura dei figli. Studiando le politiche alla famiglia di questo periodo, si nota che esse hanno un carattere marcatamente familista, poiché il regime sostenendo la famiglia attraverso una serie d’interventi puntava alla crescita demografica del paese, in linea con quella che era la politica espansionistica. In realtà, la politica sociale fascista scaricava sulle famiglie ed in particolare sulle donne il peso dell’assistenza. Al contempo, venivano messi in atto una serie di misure e di incentivi, come gli assegni familiari e le agevolazioni fiscali, per sostenere le famiglie numerose, la maternità e per favorire la creazione di nuovi nuclei familiari. Nel 1925 si ebbe il più grosso intervento dello Stato sociale fascista nel campo dell'assistenza all'infanzia e alla maternità, che fu rappresentato dall'istituzione dell'Opera Nazionale per la Maternità e l'Infanzia19 (ONMI). Un ente fortemente centralizzato che si presentava come una sorta di grande Ministero, che agiva in parallelo con le altre istituzioni esistenti. Questo ente nato per coordinare le numerose iniziative a favore dell'infanzia, divenne uno strumento della politica demografica e razziale del regime20
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La vocazione del fascismo era quella di istituzionalizzare ogni materia, nel campo della previdenza diede vita a grossi istituti come l’INFS e l’INFAIL che restarono in vita anche dopo la caduta del fascismo privando la sigla della sola «F» che li qualificava come enti fascisti. La gestione dell’intero sistema previdenziale era rigidamente accentrata e controllata e si rifaceva ai principi contenuti nella Carta dei lavoratori del 1927, secondo la quale lo Stato aveva il compito di coordinare ed unificare il sistema e gli istituti di previdenza(cfr. Ritter G., Storia dello stato sociale, Laterza, Bari, 1999, p.239).
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D’ora in poi ONMI.
20Conti F., Silei G, Breve storia dello Stato sociale, Carocci, Roma, 2005, pp.71-92
. LONMI fu uno dei tanti enti che vennero creati per supportare la politica sociale, poiché una delle più grosse preoccupazioni era quella di arginare il fenomeno mortalità infantile. Accanto allo stesso, nel 1926 fu istituita l’Opera Nazionale Balilla e la Gioventù Italiana del Littorio, che tra le sue funzioni aveva quelle di dare assistenza sanitaria ai ragazzini e fornirgli un’educazione paramilitare idonea
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alla preparazione di una generazione da impiegare nelle battaglie espansionistiche21. Nel 1941 nacquero altri due grossi enti assistenziali che rivolgevano le loro attività all’assistenza ai minori, l’Ente Assistenziale per gli Orfani dei Lavoratori Italiani22 (EAOLI poi Enaoli), e l’Ente Nazionale per la Protezione Morale del Fanciullo23
Tutto ciò era in linea con il modello di welfare di cui l’Italia disponeva che si caratterizzava come welfare residuale
(ENPMF). Questi ultimi prestavano assistenza a tutti quei minori che non rientravano nelle categorie d’utenza coperte dall’ONMI. Tentando di fare un rapido bilancio dell’esperienza fascista nei termini dell’assistenza ai minori si può sostenere che essa si caratterizzò come una politica di sussidi e ricoveri. In linea con quanto evidenziato, Vitale ha affermato che fino alla caduta del fascismo i servizi rivolti all’infanzia non si configurarono come delle opportunità universali da offrire ai bambini, ma come degli interventi rivolti agli strati marginali della popolazione.
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. In altri termini, l’intervento pubblico era sussidiario agli altri interventi che venivano offerti in via normale dalle famiglie e dal mercato privato ai bisogni di bambini e ragazzi25
21Ritter G., 1999, Storia dello stato sociale, Laterza, Bari, 1999, p.240. 22 D’ora in poi ENAOLI.
23 D’ora in poi ENMPF. 24
Il modello di welfare residuale fa parte di una tipologia elaborata da Richard Titmus nel 1974, in cui vengono individuati altri due modelli di welfare quello acquisitivo-performativo(o particolaristico-corporativistico), e quello istituzionale-redistributivo(o socialdemocratico). Nel primo modello l’intervento pubblico si attua in presenza di un fallimento delle agenzie tradizionali, quali il mercato e la famiglia, per cui gli interventi sono di tipo selettivo e si rivolgono agli strati marginali della popolazione. Si tratta di un intervento stigmatizzante rivolto a coloro che sono stati tagliati fuori dal mercato, e l’accesso alle prestazioni è subordinato alla verifica delle condizioni di bisogno. Nel secondo modello di welfare il destinatario delle prestazioni viene individuato in base al suo status occupazionale ed i benefici sono acquisiti in base alla propria performance lavorativa. Si tratta di un welfare particolaristico che riconosce determinati vantaggi in base alle performance lavorative. Infine, nell’ultimo modello lo Stato ritiene che il mercato lasciato a se stesso non sia in grado di distribuire la ricchezza, quindi si assume il ruolo di controbilanciare gli effetti negativi prodotti. Dunque, lo Stato assume un ruolo attivo, attraverso interventi programmati che sono volti a prevenire la povertà, la malattia, il bisogno e l’emarginazione. Le prestazioni sono estese a tutta la popolazione in base al principio universalistico ed il requisito per accedere alle prestazioni è rappresentato dalla cittadinanza(in La Rosa M. et al., Solidarietà, equità e qualità. In difesa di un nuovo Welfare in Italia, Franco Angeli, Milano, 1995, p.69).
25Vitale T., in Zappa M., a cura di, Ri-fare comunità. Aprirsi a responsabilità condivise per chiudere davvero gli istituti, Franco Angeli, Milano, 2008,p.36.
. Quando la famiglia ed il mercato privato fallivano nel rispondere ai bisogni di questi soggetti le istituzioni pubbliche intervenivano in via transitoria, adottando modalità di erogazione delle prestazioni di tipo selettivo. Anche dopo la caduta del fascismo la situazione per i minori in difficoltà rimarrà immutata e l’intervento tipico continuerà ad essere quello dei sussidi alle famiglie e
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dell’inserimento di bambini e ragazzi in grossi istituti di ricovero, di proprietà dei grossi enti assistenziali o di privati, dunque un intervento di istituzionalizzazione massiccia. Sostanzialmente, lo scenario era caratterizzato da un arcipelago di enti e strutture che operavano nell’ottica di una categorizzazione del bisogno, dell’erogazione di prestazioni specifiche, che frammentavano il bisogno e ne riducevano la complessità. Marcon26ha stimato che erano oltre quarantamila gli enti, di natura pubblica e privata, che si occupavano di opere e servizi sociali a fronte di un quadro normativo altrettanto disorganico e frammentato, di cui parte della normativa assistenziale era contenuta nel Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931, e di una gestione finanziaria ed organizzativa di queste istituzioni assistenziali che spesso lasciava a desiderare. L’insoddisfazione per la gestione finanziaria ed organizzativa derivava in parte del fatto che le risorse economiche venivano impiegate per la maggior parte per il mantenimento delle strutture e del personale che in esse operava, ed in parte per il fatto che questi enti erano organizzati prestando fede a dei criteri rigidi di erogazione delle prestazioni, che di fatto portavano ad una duplicazione degli interventi e ad una disattenzione per il bisogno espresso. Sostanzialmente, riproducevano una modalità di risposta al bisogno di tipo categoriale, moralistica e stigmatizzante, poiché il disagio sociale veniva trattato come un guasto da riparare, o come la manifestazione di una devianza da trattare in istituzioni chiuse27
Per scorgere i primi segnali del lento processo di mutamento che tenderà alla deistituzionalizzazione dei minori si dovrà attendere fino alla promulgazione della Costituzione Repubblicana, che segna l’avvio di un passaggio da un modello di welfare residuale ad un modello di welfare istituzionale o universalistico, ovvero improntato sui diritti di cittadinanza. Con la sua approvazione vengono strutturate le premesse affinché l’intervento dello Stato nei confronti dei minori e dei cittadini non si caratterizzi come sussidiario, ma impegni i suoi organi affinché vengano rimossi quegli ostacoli che potrebbero impedire il pieno sviluppo della personalità umana. Tuttavia, per molti anni le
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26 Marcon G., Le utopie del ben fare. Percorsi di solidarietà: dal mutualismo al terzo settore, ai movimenti, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004,.
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innovazioni contenute nella Costituzione italiana ed espresse nei principi di eguaglianza, libertà, solidarietà e nei diritti all’istruzione, all’assistenza e al lavoro rimasero delle pure enunciazioni di principio. Un altro elemento, seppur fragile, che iniziò a mettere in dubbio la pratica istituzionalizzante a cui erano sottoposti i minori è rappresentato dall’ingresso dei primi tecnici dell’assistenza, gli assistenti sociali, negli enti assistenziali del dopoguerra. Gli assistenti sociali ebbero il merito di evidenziare le lacune di un sistema assistenziale arretrato, ed allo stesso tempo di contribuire al rinnovamento del paese, caratterizzandosi come un elemento di modernizzazione dell’assistenza. Infatti, gli assistenti sociali vennero individuati come la figura professionale più qualificata nel campo dell’assistenza, in quanto attraverso i loro metodi d’intervento si ponevano in contrasto quella pratica d’intervento cristallizzata che si esprimeva attraverso prestazioni standardizzate28
Gli antecedenti legislativi di questo grosso ente assistenziale sono rinvenibili nelle prime norme a tutela delle gestanti e delle madri che risalgono al 1890, in particolare la legge n.6972
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Tuttavia, prima di entrare nel merito delle criticità di queste organizzazioni assistenziali bisogna individuarne la genesi, e comprendere quali erano i tipi d’intervento rivolti ai minori e alle famiglie.