QUESTIONARIO MINORI RESIDENT
3.9 La politica degli enti assistenziali e l’inclusione del servizio sociale come innovazione
Volendo fare un rapido bilancio della presenza degli enti assistenziali per minori, operanti in Italia fino agli anni ’70, si può sostenere che essi generalmente adottarono come criterio per l’erogazione delle prestazioni quello
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della categorizzazione giuridica dei cittadini, a cui spesso era associata la classificazione del bisogno. Ogni ente era preposto a specifiche categorie di persone(orfani di guerra, orfani di lavoratori, illegittimi, esposti, madri nubili) e la possibilità di ricevere assistenza era legata a dei requisiti giuridico formali contenuti nei vari regolamenti, di cui si doveva di volta in volta dimostrare il possesso. Accanto ciò, bisogna sottolineare che spesso vi erano delle sovrapposizioni di competenze tra gli enti, a cui si aggiungeva anche una standardizzazione delle risposte date ai bisogni di questi minori che venivano trattati in maniera indifferenziata. La stretta differenziazione delle prestazioni assistenziali era solo un criterio formale, ma nella sostanza vi era una forte indifferenziazione delle prestazioni, guidate dalla sola logica di attenersi alla normativa che regolava l’esistenza e le funzioni di queste grosse organizzazioni. Sostanzialmente, il grosso degli interventi assistenziali in favore dei minori e delle loro famiglie si può individuare in due tipi di azioni, quali il ricovero massiccio di minori nei numerosi istituti di proprietà degli enti assistenziali o convenzionati con gli stessi, e l’erogazione di sussidi di bassa entità64. Come ha avuto modo di affermare Olivetti Manunoukian65
64 Il sussidio si configurava come un aiuto materiale che veniva offerto in danaro o attraverso buoni pasto, legna, latte, medicinali, vestiario, ecc. Accanto ai sussidi il grosso degli interventi a fronte di qualsiasi tipo di problema presentato dal minore era il ricovero in grossi istituti, pubblici o privati, spesso lontani dai luoghi di residenza della famiglia. Si verificava il fenomeno della deportazione dei minori da una regione ad un’altra che sradicava il minore dal proprio contesto per lunghi
periodi(Neve E., Il servizio Sociale. Fondamenti e cultura di una professione, Carocci Faber, Roma 2006, pp.85-89).
65Olivetti Manoukian F., Stato dei servizi: un’analisi psicosociologia dei servizi sanitari, Il Mulino, Bologna, 1988, pp.13-16.
il criterio istituzionale della categorizzazione giuridica delle prestazioni produceva risposte inefficaci ai bisogni espressi dai cittadini. Il fatto che ogni ente era preposto a dare risposta ad una particolare categoria di assistiti rasentava il ridicolo. La studiosa mostra la presenza 15 categorie di orfani, rintracciabili in circa 20 provvedimenti legislativi, che facevano capo ad una dozzina di enti diversi. Il risvolto pratico di tutto ciò era una sovra copertura di certe categorie di assistiti, a fronte di categorie di assistiti completamente scoperte. Inoltre, era anche difficile che gli enti stessi conoscessero a vicenda le funzioni ed i
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compiti che la normativa dispersa in mille rivoli gli assegnava, poiché mancava un’organica legge di riforma del settore assistenziale66
A livello organizzativo gli stessi si presentavano come strutture accentrate e verticistiche, in cui prevaleva una logica burocratica che non prestava attenzione ai bisogni. Le risposte di queste organizzazioni assistenziali seguivano la logica di semplici adempimenti formali, ed il parametro per misurare la loro efficacia era quello dell’aderenza alle norme contenute nei regolamenti degli enti stessi. Inoltre, il personale era costituito da burocrati che avevano il compito di interpretare ed applicare le norme, ciò comportava una riduzione dei bisogni alle categorie individuate dalla normativa vigente. A sostegno di quanto appena richiamato si può citare Ferrarotti, il quale indica l’atteggiamento dei gruppi dirigenti di quel periodo come un sintomo della sindrome del «normativismo giuridico», che si traduceva nel dare per risolti i problemi nel momento in cui vi era la possibilità di farli rientrare in una delle fattispecie giuridiche individuate dai principi dottrinali della giurisprudenza
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L’atteggiamento mentale dei dirigenti degli enti cozzava con la mentalità, i valori e le aspettative dei primi tecnici dotati di competenze sociali, gli assistenti sociali, che negli anni ’50 entrarono a far parte degli organici di queste organizzazioni. Lo studioso individua i principali attriti che si generarono nel rapporto tra servizio sociale ed enti pubblici. Egli riconduce il primo problema al tempo necessario all’assistente sociale per conoscere una particolare situazione di bisogno. Se, una delle principali esigenze degli enti era per l’appunto quella di rispondere in maniera immediata al bisogno, attraverso la classificazione dello stesso a cui era associate prestazioni automatiche; al contrario, il servizio sociale esprimeva la necessità di analizzare le singole situazioni e di programmare l’intervento, attraverso una conoscenza approfondita dei casi. Inoltre, mentre gli enti impostavano la loro azione assistenziale seguendo una logica di tipo quantitativo che generava
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66 Su questo teme cfr. AA.VV., Documenti: Il pubblico e il privato nell’intervento sociale. Dibattito indetto in occasione dei lavori dell’assemblea del Comitato italiano del servizio sociale, in La rivista di servizio sociale, Anno XV n.4, 1975.
67 Ferrarotti F.,Servizio Sociale ed Enti Pubblici, Armando Editore, Roma, 1965,
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richieste continue da parte degli utenti e situazioni di cronicizzazione del bisogno, il servizio sociale impostava la sua azione seguendo una logica di tipo qualitativo. Ovvero, il servizio sociale attraverso la sua azione aveva la finalità di rendere autonomo il soggetto mediante l’attivazione delle sue energie latenti. A ciò si aggiungeva una modalità di attribuzione di significato diverso al concetto di successo dell’intervento. Se per gli enti il successo veniva misurato sulla quantità di utenti assistiti e prestazioni erogate, per il servizio sociale il successo di un intervento si concretizzava nel grado di sviluppo ed adattamento sociale raggiunto dai singoli individui. Nella pratica ciò si sarebbe dovuto tradurre nella chiusura dei casi, a discapito della dilatazione dei programmi assistenziali e della dipendenza degli utenti dagli enti-istituzioni68. Se in teoria il punto di vista del servizio sociale si scontrava con la logica di intervento seguita dagli enti, nella pratica si verificava un asservimento ed una riduzione del servizio sociale ad una mera pratica amministrativa. In altri termini, anziché muovere verso un intervento integrato e rivolto alla soluzione globale del problema presentato dall’individuo, si continuarono a mettere in atto una serie di interventi, quali il ricovero, il sussidio, ecc., che facevano parte di una sequenza di atti amministrativi slegati tra di loro69
Tuttavia, pur con i limiti presentati ci furono Enti e Ministeri più maturi -si pensi all’ENPMF ed al Ministero di Grazia e Giustizia con l’esperienza dei focolari, che utilizzarono il servizio sociale per potenziare la loro efficienza in relazione allo studio anamnestico dei casi, ai rapporti con le famiglie dei minori ed al reinserimento sociale degli stessi. Grazie all’inserimento degli assistenti sociali si iniziò ad esercitare un controllo sugli istituti per minori e sulle pratiche in essi seguite e vennero introdotte tecniche e strumenti propri del servizio sociale, volti a sviluppare una conoscenza approfondita dei casi trattati
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. L’immissione degli assistenti sociali nei principali enti assistenziali71
68 Ibidem, pp.69-74.
69Sul tema dell’inserimento del servizio sociale negli enti cfr. Castellani R., L’assistente sociale e la politica dell’ente, in Realtà educativa, n.15-16, 1966; Scaffa L., Il servizio sociale e le comunità educativo-assistenziali, in Realtà educativa n.7, 1966;
70 Scaffa L., Gli istituti educativo assistenziali ed il piano quinquennale, in Realtà Educativa, n.4-5, 1966, pp.35-.58
71In questo capitolo sono stati presi in esame tre principali enti assistenziali, l’ONMI, l’ENAOLI e l’ENMPF, ebbene ricordare che in Italia negli anni cinquanta erano presenti tra i principali enti
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rappresentò un’occasione per riflettere su pratiche desuete di intervento e per innovare il sistema assistenziale. Come si è cercato di mostrato nel corso dei precedenti paragrafi non mancarono idee e sperimentazioni lungimiranti, né tantomeno mancarono discorsi sul tema dell’immissione dei minori in istituto e delle caratteristiche che gli istituti dovevano avere per limitare l’impatto negativo sulla personalità dei minori. Queste idee fino agli anni ’70 rimasero lettera morta, non traducendosi in interventi concreti, e le diverse occasioni di discussione pubblica si configurarono come delle palestre di oratoria.
nazionali di assistenza il Comitato di difesa morale e sociale della donna, l’ONOG(l’Opera nazionale orfani di guerra), l’Ente nazionale di assistenza per gli orfani e i figli dei militari della Guardia di finanza, l’Opera nazionale di assistenza per gli orfani dei militari dell’arma dei carabinieri, ecc. Tuttavia per maggiori approfondimenti sul tema della nascita del servizio sociale e del loro inserimento negli enti si veda: Cattaui De Menasce G., L’assistenza ieri ed oggi, Universale Studium, Roma, 1963; Fiorentino Busnelli E., Cattaui De Menasce G., La nascita del servizio sociale in Italia, Edizioni Studium, Roma, Florea A., Il servizio sociale in Italia, in La rivista di Servizio Sociale, n.1, 1968.
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