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1. Le due digressioni romane

Il capitolo XXVIII 4 delle Res gestae contiene una lunga digressione dedicata alla città di Roma ed ai suoi abitanti1. Ne è occasione il commento alle vicende della prefettura di Olibrio (anni 368-370) e di Ampelio (anni 371-372)2. Entrambi, pur non irreprensibili nella vita privata, governarono in maniera equilibrata e le loro prefetture non furono funestate da disordini o incidenti di rilievo. La sostanziale giustizia e gli opportuni provvedimenti concreti dei due prefetti non poterono tuttavia sanare i mali dell’antica capitale dell’impero: tanto grande, infatti, era ormai la sozzura di insanabili turpitudini che gravava sulla maggior parte della popolazione di Roma3.

Ammiano sceglie di parlare dapprima dei difetti della nobiltà, ossia del senato4. Superbi dei loro nomi di antica tradizione, i membri di quel ceto si fanno accompagnare da una moltitudine di schiavi, ma non si vergognano di avvicinare con indegna galanteria la più squallida delle prostitute: dimentichi che uno dei loro antenati era stato un tempo allontanato dal senato solo per aver baciato la moglie in presenza della figlia5. Convinti di dar prova di condiscendenza se si lasciano avvicinare da estranei o stranieri, sono tuttavia pronti a fare ala a chiunque porti notizie di cavalli o aurighi. Gli adulatori, per lo più fannulloni e chiacchieroni, sono gli ospiti più graditi ai loro banchetti, dove non ci si stanca di pesare pesci, uccelli o altre pietanze, della cui grandezza si prende nota pedantemente a futura memoria. Certuni, che detestano gli studi come veleni, leggono Giovenale o Mario Massimo6, anziché studiare per esempio la figura di Socrate, che fino all’ultimo istante della sua vita cercò di imparare qualcosa di più e di nuovo. Non hanno senso della giustizia e nemmeno della reale gravità di quanto accade intorno a loro: uno schiavo può essere castigato severamente per una mancanza insignificante o lasciato impunito di un grave delitto. Vivono come una sciagura la mancata accoglienza di un loro invito da parte di una persona a cui in quel momento tengono particolarmente. Una visita alle proprietà di campagna o una breve navigazione sotto costa fa loro credere di aver uguagliato i viaggi di

1 Gli aspetti letterari della digressione sono stati recentemente studiati, con una particolare

attenzione sia per la posizione del brano all’interno delle Res gestae sia per i possibili modelli e per il contesto letterario dell’epoca di Ammiano, da D. DEN HENGST, Literary aspects of Ammianus’ second digression on Rome, in J. DEN BOEFT -J.W.DRIJVRES -D. DEN HENGST -H.C. TEITLER (a cura di), Ammianus after Julian. The reign of Valentinian and Valens in books 26-31 of the Res Gestae (“Mnemosyne”. Bibliotheca Classica Batava, 289), Leiden - Boston 2007, pp. 159- 179. A p. 160 le note 4 e 5 citano i più importanti fra gli studi precedenti sulle due digressioni romane di Ammiano.

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Di loro Ammiano parla brevemente nei paragrafi XXVIII 4, 1-2 (Olibrio) e 3-4 (Ampelio). Sui due personaggi cfr. JONES - MARTINDALE - MORRIS, The prosopography, I, pp. 640-642 (Q. Clodius Hermogenianus Olybrius 3) e 56-57 (Publius Ampelius 3). Olibrio risulta aver ricoperto l’ufficio di praefectus Urbi dall’ottobre 368 al 21 agosto 370, Ampelio dal 1 ° gennaio 371 al 5 luglio 372: cfr.CHASTAGNOL, Les fastes, pp. 178-184 (Olibrio) e 185-188 (Ampelio).

3 XXVIII 4, 5: tanta plerosque labes insanabilium flagitiorum oppressit.

4 XXVIII 4, 6-27. Almeno in questo contesto i termini «nobiltà» e «senato» sembrano designare

per Ammiano un identico ceto sociale: egli comincia infatti con le parole Et primo nobilitatis … digeremus errata (XXVIII 4, 6) e termina con le parole Hactenus de senatu (XXVIII 4, 27).

5 Una decisione assunta da Catone il Vecchio, nel corso della sua celebre censura del 184, nei

confronti del senatore Manilio: PLUT., Cat. Ma., 17, 7.

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Alessandro Magno, di Cesare o di Giasone. Alle terme fanno sfoggio delle loro vesti e dei loro anelli. Messi a riposo dopo un lungo servizio nell’esercito, raccontano episodi interessanti, ma per lo più inventati. Sono accaniti giocatori d’azzardo, anche se taluni di loro respingono tale appellativo: anzi le amicizie nate al gioco d’azzardo sembrano a Roma le uniche in grado di mantenersi salde nel tempo. Alcuni hanno trasformato in una professione la propria abilità nell’indurre ricchi cittadini a fare testamento in loro favore. Rivestiti di una carica anche modesta, divengono subito superbi e minacciosi, ma sono anche estremamente superstiziosi. Non esitano a montare un caso giudiziario assolutamente falso contro un creditore troppo insistente. Persino all’interno del proprio nucleo familiare sembrano riconoscere nel guadagno il solo fine dell’esistenza umana, cosicché talvolta moglie e marito si inducono vicendevolmente a fare testamento in favore del coniuge, nella speranza di poter presto ereditare. Umili ed ossequiosi nel momento di chiedere un prestito, tornano alteri e superbi allorché devono restituire quanto hanno ricevuto.

Ammiano passa poi alla plebe di Roma, preliminarmente definita «oziosa e pigra»7. Persino alcuni dei popolani di Roma, pur poveri, ostentano altezzosamente i loro nomi, palesemente originati dalle umili attività artigiane praticate dai loro antenati o da loro stessi. Costoro consacrano la vita ai piaceri, ossia a vino, dadi, bordelli e spettacoli: il Circo Massimo è per loro l’equivalente del tempio, della casa, dell’assemblea, la mèta di ogni loro desiderio. I più anziani ed ascoltati, nelle loro farneticazioni, arrivano ad accostare le sorti dello Stato all’esito della prossima gara di cocchi. Il giorno dei giochi si precipitano in massa al circo fin dall’alba, magari dopo una notte resa insonne dall’ansia delle proprie speranze. Non meno volgare è il comportamento della plebe durante gli spettacoli teatrali: i bravi attori solo pagando si salvano dai fischi ed ottengono il plauso del pubblico, magari espresso, secondo la moda più recente, con un sibillino «Da te imparino»8, di cui nessuno sa spiegare il senso; la folla approfitta dei momenti di silenzio per chiedere a gran voce l’espulsione da Roma degli stranieri, che in ogni epoca furono invece una preziosa risorsa dello Stato romano. Insomma una vera degenerazione di quella plebe che gli autori antichi descrivono capace anche di motti spiritosi ed arguti. In realtà la maggior parte di questa gente non pensa che ad ingrassarsi e sono capaci di trascorrere ore ad osservare la cottura dei cibi che sperano di poter infine divorare.

All’interno delle Res gestae non è questa la sola digressione dedicata alla popolazione dell’Urbe9

. A commento della prefettura urbana di Orfito (anni 353-

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XXVIII 4, 28: Nunc ad otiosam plebem veniamus et desidem. Ai vizi della plebe romana Ammiano dedica i paragrafi XXVIII 4, 28-34.

8 XXVIII 4, 33: «Per te illi discant». La frase, detta in una circostanza determinata con il suo senso

compiuto, era poi divenuta solo un lazzo insolente, privo di senso: cfr. M.-A. MARIÉ, Notes complémentaires, in M.-A. MARIÉ (a cura di), Ammien Marcellin. Histoire, V, Livres XXVI- XXVIII, Paris 1984, n. 439, p. 295. È stata fatta l’ipotesi, supportata da una serie di acclamazioni conservate su un mosaico ritrovato nella città di Smirat in Tunisia, che quelle parole fossero un incoraggiamento ai futuri organizzatori di giochi o spettacoli, un invito ad imparare dalla buona qualità della performance in corso: cfr. MATTHEWS, The Roman Empire, n. 32, p. 542.

9 Poiché all’inizio effettivo della seconda digressione (XXVIII 4, 6) Ammiano scrive che tratterà i

vizi prima della nobiltà, poi della plebe, «come ho già fatto alcune volte» (ut aliquotiens … fecimus), si è potuto ipotizzare che, oltre alle due conservate, ci fosse almeno un’altra digressione

356), funestata da disordini causati dalla scarsità di vino10, Ammiano aveva inserito una digressione sullo stesso tema già in XIV 6, per chiarire, soprattutto a beneficio dei lettori stranieri (peregrinos) che non conoscono personalmente Roma11, come mai, quando si passa a trattare dell’Urbe, si finisce per parlare immancabilmente di sedizioni, osterie o altre simili volgarità. Lo storico comincia qui col dire che, per consentire la crescita ed i successi di quella che in origine fu solo una piccola città, un insolito accordo di pace fu concluso da Virtù e Fortuna, entrambe indispensabili al trionfo nel mondo della supremazia di Roma12. Questa aveva poi conosciuto uno sviluppo paragonabile a quello della vita di un uomo: puerizia, adolescenza, giovinezza, età virile, vecchiaia13. Affidato agli imperatori il compito di governare il suo immenso patrimonio14, Roma regna ormai sovrana e ovunque l’autorevolezza dei senatori ed il nome del popolo romano sono oggetto di venerazione e rispetto. Queste parole fanno da preludio alla vera e propria rassegna dei vizi che si annidano nell’antica capitale15

, rassegna distinta, anche in questo caso, fra nobiltà senatoria e plebe.

La mirabile immagine di Roma, dice Ammiano, è rovinata dalla rozza leggerezza di pochi16 che si abbandonano ad errori e dissolutezze. Sono quelli che

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