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La ‘difesa in profondità’ della frontiera renano-danubiana in Ammiano

The decline, pp 213-214 (trad it Il tramonto, pp 316-318) Per un chiaro riesame della questione,

5. La ‘difesa in profondità’ della frontiera renano-danubiana in Ammiano

In termini generali si può dire che questa strategia di difesa ‘in profondità’ fu applicata, in particolare, ma non solo, sulla frontiera renano-danubiana, per tutto il IV secolo, quindi anche negli anni di cui si occupano le Res gestae. L’opera di Ammiano, anzi, contiene il più completo resoconto delle operazioni militari nel periodo successivo ai cambiamenti definitivamente intercorsi nei primi decenni del IV secolo e costituisce quindi la migliore testimonianza per valutare l’efficacia della nuova organizzazione militare romana164

. Naturalmente lo storico non svolge una riflessione sistematica sulla strategia imperiale, chiarendo preliminarmente risorse, necessità ed obbiettivi militari dello Stato

161 Cfr. L

UTTWAK, The grand strategy of the Roman Empire, p. 132 (trad. it. La grande strategia dell’impero romano, p. 178). Proprio il testo di Ammiano dimostra implicitamente che le fortune dell’impero nel IV secolo dipendevano ormai in larga misura dall’abilità delle forze di riserva di muovere con prontezza verso i settori minacciati da insurrezioni o invasioni e di schiacciare o espellere il nemico: CRUMP, ibid., pp. 48-49.

162

Qualcosa di analogo era accaduto nel III secolo: nel 251 l’imperatore Decio perì, mentre guidava una campagna militare contro i Goti nella Mesia, attuale Dobrugia; nel 260 l’imperatore Valeriano fu catturato dal sovrano sassanide Shapur I in Mesopotamia, davanti alle mura della città di Edessa. Cfr. LUTTWAK, ibid., pp. 136-137 (trad. it. ibid., p. 184).

163

Ibid., p. 133 (trad. it. ibid., pp. 177-178).

164 Un tentativo di comprendere, attraverso il testo di Ammiano, il funzionamento dell’esercito

romano riorganizzato è stato compiuto da CRUMP, Ammianus, pp. 47-51 (impiego della riserva strategica) e 51-54 (efficacia della difesa di confine).

romano, sebbene, probabilmente, ne sarebbe stato capace grazie alla propria esperienza di ufficiale di stato maggiore. Egli si attiene alla procedura usuale degli storici classici ed al centro della propria narrazione pone le gesta di uomini, trascurando tutto ciò che non è immediatamente riconducibile all’attività di un protagonista maggiore o minore della sua opera165. Le sue informazioni sono pertanto disperse, nascoste nelle pieghe della narrazione, ma non per questo meno lucide e chiare.

Il racconto ammianeo della reazione romana all’aggressione dei Sassoni166, per esempio, sembra adombrare una strategia di difesa ‘in profondità’: le truppe del comes Nanneno, dux ben noto per la sua esperienza e preposto al settore di frontiera minacciato, si rivelano insufficienti a fronteggiare l’invasione, ma la situazione tattica si ribalta, quando l’imperatore autorizza l’intervento del

magister peditum Severo, evidentemente con forze di riserva tratte da un esercito

da campo.

Non manca in Ammiano un’espressione, in verità piuttosto ambigua o comunque non del tutto chiara, che potrebbe indurre a credere che lo storico apprezzasse il tentativo di Valentiniano di ricreare le condizioni per una difesa ‘avanzata’ o ‘di sbarramento’, la sola che avrebbe potuto garantire davvero a tutti gli abitanti dell’impero la piena sicurezza dalle minacce che incombevano da oltre confine. Dopo un intero capitolo dedicato alla narrazione di esempi della feroce crudeltà di Valentiniano167, infatti, Ammiano torna alle vicende della Gallia, dove era personalmente impegnato l’imperatore, riconoscendo lealmente che nessun denigratore potrebbe rimproverare quel sovrano per l’assiduo impegno in favore dello Stato, soprattutto in considerazione del fatto che era allora «più importante avere il controllo sui barbari con l’esercito piuttosto che respingerli»168

. Nella preferenza assegnata al regendis piuttosto che al pellendis si può forse vedere la velleitaria speranza dello storico, che a momenti fu anche di Valentiniano, di poter ricostruire una barriera che tenesse stabilmente fuori dall’impero i pericolosi nemici dello Stato romano, anziché respingerli dopo che essi ne avevano varcato i confini infliggendo danni ingenti a uomini e cose.

Ancor meno sistematici e molto dispersi nella narrazione ammianea sono i riferimenti alla vasta attività di riorganizzazione del sistema difensivo romano sul Reno e sull’alto Danubio operata da Valentiniano, a completamento di quella già intrapresa da Giuliano169. L’archeologia si incarica però di confermare nell’insieme il quadro che ci fornisce Ammiano. Per la verità nessuna delle località citate dallo storico in relazione con le attività di fortificazione dei confini

165 Ibid., pp. 44-45.

166 XXVIII 5, 1-7. Sull’episodio cfr. sopra, p. 84. 167

Si tratta del capitolo XXIX 3: nei due capitoli precedenti Ammiano si è occupato dell’Oriente e, prima di tornare ad occuparsi delle Gallie (cosa che farà nel capitolo XXIX 4), sente il bisogno di comprovare con esempi la ben nota crudeltà dell’Augusto della metà occidentale dell’impero.

168 XXIX 4, 1: Sollertiae vero circa rem publicam usquam digredientis nemo eum vel obtrectator

pervicax incusabit illud contemplans, quod maius pretium operae foret in regendis verius milite barbaris quam pellendis. Non concordo con la lettura di chi nelle parole di Ammiano vede la critica implicita ad una strategia troppo offensiva, che rischierebbe di provocare inutilmente i Germani: così ANGLIVIEL DE LA BEAUMELLE, Notes complémentaires, n. 104, p. 186.

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patrocinate da Valentiniano è stata identificata con certezza170: troppo sintetica e selettiva è la narrazione di Ammiano, il quale da un lato dava per scontato che i suoi lettori contemporanei avrebbero senz’altro riconosciuto città, fortezze ed avamposti di cui egli si limita a fare il nome171, dall’altro era spinto dalla tradizione storiografica antica, cui egli intende riallacciarsi, a limitare lo spazio di ogni informazione tecnica, quindi anche topografica e geografica, che certo avrebbe nuociuto all’apprezzamento soprattutto letterario della sua opera172

. Già nel corso del secolo passato, comunque, gli scavi avevano riportato alla luce una massa ingente di materiale archeologico e di iscrizioni che consentivano di apprezzare la presenza romana sulla frontiera renana e danubiana nella tarda antichità e l’impegno degli imperatori nell’opera volta a rendere sicuri quei confini: alla luce di tali testimonianze materiali gli anni di regno di Valentiniano si presentavano come quelli in cui più intensa era stata l’opera di organizzazione di un efficace sistema generale di difesa173. I reperti venuti alla luce e studiati in epoca più recente hanno confermato il quadro generale già da tempo messo a fuoco dagli archeologi: un quadro perfettamente coerente con le notizie che ci forniscono le Res gestae e che vede gli anni di regno di Valentiniano come gli ultimi in cui fu tentata una coerente ed efficace politica di difesa della frontiera della metà occidentale dell’impero174. Nel complesso quell’insieme di resti

materiali, davvero imponenti anche se distribuiti in maniera irregolare su un’area

170

In particolare non sono stati localizzati con certezza né la fortezza minacciata dalle acque del fiume Neckar e salvata dai genieri di Valentiniano (cfr. sopra, p. 82), né l’avamposto trans-renano sul monte Pirus (cfr. sopra, p. 82), né il castello Robur vicino a Basilea (cfr. sopra, p. 87 e n. 119): per una sintetica valutazione dei resti archeologici ritrovati, certo significativi, ma non tali da consentire un’identificazione indiscutibile dei tre siti, cfr. CRUMP, Ammianus, p. 125.

171 Cfr. ibid., p. 118: lo studioso si riferisce qui alle località citate da Ammiano in relazione allo

sforzo militare operato nell’area renana da Giuliano, ma la sua osservazione può senz’altro essere estesa ai centri menzionati nelle pagine delle Res gestae che descrivono le iniziative di Valentiniano in quella stessa zona di frontiera.

172 Ammiano è indotto dalla sua stessa formazione culturale a privilegiare nella narrazione le

azioni umane, le gesta degli individui, soprattutto dei grandi protagonisti, a scapito di informazioni tecniche o pratiche che i contemporanei avrebbero giudicato futili dettagli: cfr. ibid., pp. 131-133.

173 Le conclusioni storiche ricavabili dai resti archeologici scavati e studiati sono state sintetizzate

in due preziosi contributi: H.SCHÖNBERGER, The Roman frontier in Germany: an archaeological survey, in “JRS”, LIX (1969), pp. 144-197 ed in particolare 177-187 per i resti databili al IV secolo, con un’utile mappa delle «Late Roman Fortifications» a p. 183; H. VON PETRIKOVITS, Fortifications in the north-western Roman Empire from the third to the fifth centuries A.D., in “JRS”, LXI (1971), pp. 178-218, con una mappa delle «Fortifications Datable to the Fourth and Fifth Centuries A.D. in the North-West Provinces of the Roman Empire» allegata alla conclusione dell’articolo e da consultare in parallelo alla lista (pp. 215-217) delle località fortificate sicuramente o probabilmente databili agli anni di regno di Valentiniano I.

174 I più recenti risultati della ricerca archeologica in questo campo sono stati sintetizzati da N.

HANEL, Military camps, canabae, and vici. The archaeological evidence, in P.ERDKAMP (a cura di), A companion to the Roman army, Malden - Oxford - Victoria 2007, pp. 395-416 e in particolare 395-401 per il progressivo sviluppo di un sistema di fortificazioni lungo le frontiere nel corso dei primi quattro secoli dell’impero. Se già Schönberger (The Roman frontier, p. 186) poteva sostenere che «after Valentinian we know of no further coherent reorganization or expansion of the Roman frontier defences», Hanel (ibid., p. 401), dopo aver ricordato che «under the Emperor Valentinianus I (AD 364-375) new camps were constructed in the course of a big campaign to fortify the Rhine and Danube limes», ribadisce che «according to current archaeological research, this was the last time that an extensive building programme took place on the Rhine and Danube frontier».

vastissima, dalla foce del Reno sulla costa del Mare del Nord alla foce del Danubio sulla costa del Mar Nero, viene dunque ad avvalorare il racconto di Ammiano. Al tempo stesso mi sembra che l’archeologia offra elementi per giudicare per lo meno riduttiva la tesi di chi, per esempio, nelle costruzioni trans- renane di Valentiniano ha voluto vedere solo dei modesti posti di osservazione assolutamente incapaci di ospitare contingenti pronti per l’attacco e la cui precaria sopravvivenza dipendeva dall’invio, attraverso il fiume, di materiali e rimpiazzi175.

Rafforzare le difese dei centri abitati era nel IV secolo un’esigenza prioritaria, dopo che la crisi del III secolo aveva dimostrato la vulnerabilità anche delle città dell’interno, situate a molte miglia dal limes. Quando le frontiere non furono più impermeabili alle invasioni, fu necessario difendere sul posto tutto ciò che avesse un valore e che altrimenti sarebbe stato esposto alla distruzione o al saccheggio ad opera dei nemici, nell’inevitabile intervallo di tempo fra la penetrazione dei barbari e la successiva intercettazione da parte della difesa ‘in profondità’ dei Romani176

. Pertanto la difesa territoriale romana tese a concentrarsi attorno alle città: per la tutela delle attività economiche che vi si svolgevano e prima ancora per la salvaguardia della vita e dei beni della popolazione civile, sia urbana che delle campagne. Solo le città, infatti, potevano garantire una protezione alla popolazione, sia a quella che vi abitava abitualmente, sia a quella che dal contado poteva accorrervi in caso di pericolo. La difesa locale poteva essere garantita solo da adeguate fortificazioni, anche perché le autorità imperiali furono sempre restie ad autorizzare la creazione di milizie volontarie, giudicate politicamente pericolose177. Fino al III secolo la maggior parte delle città delle province occidentali erano state prive di cinte murarie, a testimonianza della sicurezza che sembrava assicurare la precedente strategia di difesa ‘avanzata’ o ‘di sbarramento’. Quando alcune città erano state dotate di mura178, ciò era avvenuto solo a scopo ornamentale, in nome della dignità del centro abitato; certo quelle mura, lunghe, difficili a difendersi, di spessore piuttosto limitato, con torri quasi solo decorative e protette da fossati piuttosto stretti, non erano state erette per

175

Cfr. DRINKWATER, Ammianus, Valentinian, p. 129: la presunta scarsa rilevanza di quelle costruzioni è un elemento aggiuntivo tra i tanti che consentono allo studioso (ibid., p. 130) di affermare che la minaccia sulla frontiera renana e le misure prese da Valentiniano per fronteggiarla devono essere state meno importanti di quanto solitamente si pensa. Cfr. anche sopra, p. 81.

176 Cfr. L

UTTWAK, The grand strategy of the Roman Empire, pp.168-170 (trad. it. La grande strategia dell’impero romano, pp. 223-225).

177 C

ASS.DION., LII 27, 3: «consentire a tutti coloro in età militare di portare le armi e di dedicarsi alla pratica delle guerra sarebbe fonte continua di sedizioni e di guerre civili». Era questo uno dei saggi consigli sulla gestione dell’impero che, all’inizio del III secolo, Cassio Dione fa dare da Mecenate ad Ottaviano nel libro LII della sua Storia romana: il discorso fa parte dell’immaginario dibattito che si sarebbe tenuto nel 29 a.Cr. fra Agrippa, Mecenate ed Ottaviano sulla forma istituzionale da dare allo Stato romano, dopo che la vittoria di Azio aveva posto tutto il potere nelle mani dello stesso Ottaviano. Su questo dibattito, che occupa quasi per intero il libro LII, dopo E.GABBA, Sulla Storia romana di Cassio Dione, in “RSI”, LXVII (1955), pp. 311-325, cfr. M.REINHOLD, From republic to principate. An historical commentary on Cassius Dio’s Roman History. Books 49-52 (36-29 B.C.) (American Philological Association Monograph Series, 34), Atlanta 1988, pp. 165-214.

178

Luttwak cita come esempi i casi di Autun, Colonia e Xanten: The grand strategy of the Roman Empire, p. 168 (trad. it. La grande strategia dell’impero romano, p. 223). Per una più vasta rassegna di città galliche fortificate in epoca precedente al III secolo cfr. R.M. BUTLER, Late Roman town walls in Gaul, in “AJ”, CXVI (1959), pp. 25-50.

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ragioni militari né potevano resistere ad attacchi decisi179. Nel IV secolo si assiste pertanto in tutto l’Occidente alla costruzione di solide mura di difesa attorno a moltissimi centri abitati o almeno attorno alle parti meglio difendibili di antiche città: l’opera di fortificazione, infatti, comportò spesso l’abbandono di edifici o quartieri la cui topografia appariva incompatibile con la necessaria sicurezza della località180. La differenza fra città e semplici forti militari andò gradualmente scomparendo. È ad un’attività di questo tipo che bisogna pensare, quando Ammiano descrive il febbrile impegno del generale Teodosio, a conclusione della sua missione in Britannia, nel 369, per restaurare e ricostruire città, fortezze ed accampamenti che avevano subito molteplici danni nel corso delle scorrerie di Pitti, Attacotti e Scotti181.

La strategia di difesa ‘in profondità’, ormai adottata dai Romani182

, richiese una ristrutturazione non solo delle città, ma di tutte le difese imperiali, comprese quelle delle zone di frontiera. Qui già nell’epoca del principato erano sorte fortezze e torri di controllo, ma con una finalità ben diversa dalle esigenze che si avevano nel IV secolo. Quelle fortezze, infatti, pur facendo parte dell’infrastruttura strategica di tipo territoriale, dovevano servire più che altro da basi per operazioni tattiche di tipo offensivo. Erano il luogo di acquartieramento delle legioni in vista di operazioni da svolgere oltre confine, cioè in territorio nemico: la difesa ‘avanzata’, adottata fino alla grave crisi del III secolo, prevedeva infatti l’intercettazione degli avversari oltre il confine, in modo che all’interno potesse continuare la vita pacifica degli abitanti183. Dotate di un ampio spazio interno, queste basi legionarie avevano mura basse e sottili, mancavano di piattaforme per il combattimento e di torri aggettanti per tenere sotto tiro i tratti di mura più vicini; erano prive di ampi fossati per tenere a distanza le macchine da assedio, di pavimentazione interna rialzata per impedire lo scavo di gallerie dall’esterno184

. Potevano fronteggiare piccole infiltrazioni nemiche o frenare assalti improvvisi, ma non certo resistere in maniera prolungata ad attacchi diretti.

Una volta che Diocleziano ed i suoi colleghi ebbero restaurato la potenza dell’impero fu necessario ripensare anche tutto il sistema delle fortificazioni delle zone di frontiera. Non si trattò di riparare fortezze, accampamenti fortificati o torri di controllo dell’epoca precedente alla grande crisi del III secolo, perché non servivano più semplici basi logistiche per truppe destinate ad agire in territorio nemico. Al contrario servivano ora località fortificate capaci di una resistenza prolungata, collocate in profondità rispetto ai confini, per proteggere le linee interne di comunicazione, in un contesto operativo che prevedeva tutti i principali scontri col nemico all’interno del territorio romano. Insomma non bastava ripristinare una sottile anche se robusta linea di frontiera ai margini del territorio

179 Cfr. B

UTLER, ibid., p. 26; VON PETRIKOVITS, Fortifications, p. 189.

180 Cfr. L

UTTWAK, The grand strategy of the Roman Empire, pp. 168-170 (trad. it. La grande strategiadell’impero romano, pp. 224-225).

181

Cfr. sopra, pp. 82-83.

182 Cfr. sopra, pp. 92-95.

183 Cfr. sopra, pp. 89-90 e n. 136. 184 Cfr. L

UTTWAK,The grand strategy of the Roman Empire, pp. 134-135 e n. 8 (trad. it. La grande strategia dell’impero romano, pp. 181-182 e n. 8). Lo studioso porta ad esempio di questo tipo di strutture la fortezza legionaria di Eburacum (oggi York) di età traianea, ma ricostruita sotto Settimio Severo: mura alte solo cinque metri e mezzo, profonde in media circa un metro e settantacinque.

provinciale, ma si dovevano creare ampie zone di controllo militare su un’area in cui la popolazione civile potesse continuare a vivere in tranquillità. Particolare importanza rivestiva poi il controllo dei ponti e delle strade, soprattutto di quelle che potevano costituire corridoi di invasione185: servivano fortini stradali (burgi) o vere e proprie fortezze che fermassero o almeno rallentassero le penetrazioni nemiche verso il cuore dell’impero, come quella che nel 259 aveva visto gli Alamanni spingersi fin nella Francia meridionale, in Spagna e nell’Italia settentrionale.

Le roccheforti del Basso impero ebbero così caratteristiche sensibilmente differenti rispetto a quelle del principato186. Ciò era reso possibile ed opportuno dal fatto che la stessa dislocazione delle truppe imperiali era ormai sensibilmente cambiata rispetto al periodo del principato187: le legioni non erano più distribuite strategicamente lungo i confini o nelle immediate retrovie, in conformità alla strategia di difesa ‘avanzata’ adottata fino alla grande crisi del III secolo, ma erano in larga misura concentrate in riserve strategiche provinciali o addirittura centrali, agli ordini diretti dell’imperatore; nel Basso impero, pertanto, forti o fortezze ospitavano un numero di soldati sensibilmente minore che nel I o nel II secolo188. Si potevano costruire fortezze più piccole, magari sfruttando al massimo lo spazio interno fino al punto di addossare ripari poco luminosi e poco confortevoli per i soldati alle stesse mura perimetrali, il cui spessore veniva in questo modo utilmente accresciuto189.

Già nella scelta del sito si badava non tanto all’abitabilità della zona quanto alla sua difendibilità: ci si attendeva, infatti, che la fortezza garantisse il dominio tattico sul territorio circostante o sulla strada ed ai soldati di guarnigione era richiesto non di sferrare un’offensiva in territorio nemico, ma di resistere sul posto fino all’arrivo dei rinforzi. La pianta delle fortezze abbandonò progressivamente la forma rettangolare in favore di altre forme, anche irregolari, che, a parità di superficie interna, richiedevano una minore lunghezza della cinta muraria; e divenne frequente far coincidere un lato della fortificazione con un corso d’acqua o sfruttare comunque le irregolarità del terreno per accrescere la difendibilità del manufatto190. Non solo le mura divennero molto più profonde (da un metro e mezzo nel periodo del principato si giunse a tre metri e anche più), ma esse furono circondate da ampi fossati, destinati a tenere lontani arieti e macchine d’assedio degli assalitori191

. Anche le torri decorative o destinate esclusivamente alla sorveglianza usate nel periodo del principato furono sostituite con altre di

185 Cfr. ibid., pp. 160-161 (trad. it. ibid., pp. 213-214): a titolo di esempio Luttwak cita le strade da

Colonia a Boulogne, da Treviri a Colonia, da Reims a Strasburgo. Sulla complessa creazione di barriere multiple su questi assi di invasione cfr. VON PETRIKOVITS, Fortifications, pp. 188-189.

186 Per tali caratteristiche cfr. L

UTTWAK, ibid., pp. 161-167 (trad. it. ibid., pp. 214-222).

187 Cfr. sopra, pp. 93-94. 188

Cfr. LUTTWAK, The grand strategy of the Roman Empire, p. 166 (trad. it. La grande strategia dell’impero romano, p. 220).

189 In precedenza, anzi fino all’inizio del IV secolo, i Romani avevano sempre separato con

un’ampia strada la zona delle abitazioni dalle fortificazioni perimetrali: ibid., p. 167 (trad. it. ibid., p. 222); HANEL, Military camps, p. 403. Per i riscontri archeologici della nuova consuetudine, sempre più diffusa nella costruzione di fortezze dalla metà del IV secolo, cfr.SCHÖNBERGER, The Roman frontier, p. 182; VON PETRIKOVITS, Fortifications, pp. 201-203.

190 Cfr.

VON PETRIKOVITS, ibid., pp. 193-196.

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varia forma, per lo più a pianta rotonda o quadrata, ma sempre aggettanti per tenere sotto tiro, lateralmente, i settori di mura fra una torre e l’altra192

. La necessità di fronteggiare assalti improvvisi di nemici numerosi impose di curare in maniera particolare le vie di accesso alle fortezze: non più ampie porte

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