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l’urgenza di un’allocuzione personale quanto piuttosto l’influenza del Diatribenstil proprio delle

opere letterarie di genere satirico: cfr. DEN HENGST, Literary aspects, p. 163 e n. 10.

46 Per lo meno nelle intenzioni di Ammiano le due digressioni non differiscono l’una dall’altra a

giudizio di KOHNS, Die Zeitkritik, pp. 486-487.

47 Che importanti cambiamenti – per Ammiano, per Roma e per la situazione generale dell’impero

– siano avvenuti nel non breve periodo intercorso fra le redazioni dei due excursus sembra di per sé plausibile, anche a giudizio di chi non riesce a riconoscere nelle due digressioni le profonde differenze postulate da Hartke: cfr. DEN HENGST, Literary aspects, p. 163.

48

W.HARTKE, Geschichte und Politik im spätantiken Rom. Untersuchungen über die Scriptores Historiae Augustae (“Klio” Beiheft, 45), Leipzig 1940, specialmente pp. 82-115 e 146-160: le biografie della Historia Augusta furono composte da un membro del circolo pagano di Simmaco per preparare una riconciliazione fra Teodosio ed i seguaci dell’usurpatore Eugenio, sconfitto sul Frigidus nel settembre del 394; probabilmente la raccolta biografica sarebbe stata scritta nei pochi mesi intercorsi fra la battaglia e la morte di Teodosio (17 gennaio 395), in ogni caso non oltre l’anno 398. Questo primo volume dello Hartke aveva dunque operato, nella complessa questione della datazione della Historia Augusta, un ritorno al Dessau ed aveva determinato negli studi un abbandono progressivo della cronologia più alta, attorno al 362/3, precedentemente sostenuta da N.H.BAYNES, The Historia Augusta: its date and purpose, Oxford 1926.

49The historical work, pp. 108-120 e specialmente 117-119.

50 Sulla controversa cronologia delle Res gestae ed in particolare dei libri XXVI-XXXI, cfr. sopra,

pp. 13-15.

51

R.PACK, The Roman digressions of Ammianus Marcellinus, in “TAPhA”, LXXXIV (1953), pp. 181-189.

52 Sulla più celebre orazione di Elio Aristide è ancora utile L.A.S

TELLA (a cura di), In gloria di Roma. Orazione di Elio Aristide (144 dell’êra volgare), Roma 1940: nell’introduzione (specialmente pp. 19-44 e 54) la studiosa sottolineava opportunamente la componente di sincerità che si avverte sotto la struttura retorica dell’operetta e che la rende un documento storico di indiscutibile importanza. Fondamentale J.H. OLIVER, The ruling power. A study of the Roman Empire in the second century after Christ through the Roman oration of Aelius Aristides, in

del II secolo d.Cr., divenne subito un modello per ogni encomio di una città ed in particolare di Roma: fino alla fine dell’antichità tutto quello che fu scritto su Roma fu strutturato secondo l’esempio di Elio Aristide. La stessa distinzione operata da Ammiano all’interno delle due digressioni fra nobiltà e plebe è da ricondurre alla struttura retorica caratteristica di questo tipo di testi. Naturalmente l’autore delle Res gestae avrebbe, per così dire, rovesciato la tradizione retorica dei discorsi in elogio di una città per formulare una sorta di accusa contro la degenerazione morale, prima ancora che civile, della popolazione di Roma. Meno convincentemente Pack sosteneva che l’adesione di Ammiano al modello di una tradizione retorica toglierebbe a quelle pagine ogni contatto con la realtà, con l’esperienza e con i sentimenti personali dell’autore53

. In realtà lo sviluppo letterario di un testo, che aderisce anche fortemente ad una struttura retorica codificata dalla tradizione, non esclude la sincerità dell’autore e delle opinioni espresse in quelle pagine54. Naturalmente si tratta di capire quali siano queste opinioni e con quali intenti Ammiano abbia deciso di inserire nella sua opera storica le due digressioni che le contengono.

3. Motivi ispiratori delle due digressioni

Non mi sembra che si possa sostenere che uno degli intenti di Ammiano sia di mettere in risalto l’esorbitante differenza di tenore di vita tra classi superiori ed inferiori della società romana55. L’immagine dei senatori che si fanno erigere statue di bronzo, magari facendole poi dorare, per conseguire l’immortalità (XIV 6, 8) e che si gonfiano d’orgoglio quando gli adulatori ammirano le colonne o i colori delle pareti dei loro palazzi (XXVIII 4, 12) non va contrapposta a quella della plebe che passa la notte nelle osterie o sotto le tende dei teatri (XIV 6, 25); né la descrizione dei raffinati banchetti degli aristocratici, dove si pesano pesci, uccelli o ghiri serviti a tavola e dove appositi segretari registrano i pregi delle diverse pietanze (XXVIII 4, 13) vuole far da contrasto a quella della gente comune che in qualche povera cucina sorveglia impaziente la cottura dei cibi o si rode le unghie in attesa che le pietanze si raffreddino (XXVIII 4, 34).

La sperequazione sociale non è tra i problemi che stanno a cuore all’autore delle Res gestae né Ammiano, nel corso della sua opera, appare mai davvero interessato alle condizioni di vita materiale e spirituale dei ceti più umili56: ne è

“TAPhS”, N.S. XLIII (1953), pp. 871-1003 e specialmente 873-886 (il testo come opera letteraria) e 886-895 (il testo come fonte storica). Per una più recente valutazione si veda P. DESIDERI, Scrittura pubblica e scritture nascoste, in F.FONTANELLA (a cura di), Elio Aristide. A Roma (Testi e commenti, 5), Pisa 2007, pp. 3-22: l’orazione esprime l’adesione delle élites locali all’ordinamento politico realizzato da Roma, ma, in forma più coperta, contiene anche un invito alle classi dirigenti delle città greche della parte orientale dell’impero a tenere a freno il pur legittimo desiderio di autonomia culturale e politica, per non destare nei Romani alcun sospetto di scarsa lealtà.

53 Al contrario le due digressioni sono state messe in relazione con le esperienze concretamente

vissute da Ammiano da CAMERON, The Roman friends, pp. 26-28.

54

In proposito concordo pienamente con PASCHOUD, Roma aeterna, pp. 14-15 e 61.

55 Ed in questo non concordo dunque con M

ATTHEWS, The Roman Empire, pp. 415-416.

56 Ammiano mostra più che altro disprezzo per le classi inferiori, come già notava T

HOMPSON, The historical work, p. 3, p. 15 e n. 6, pp. 129-130. Cfr. anche sopra, p. 26 e nn. 178 e 181.

55

una prova la stessa sproporzione dello spazio che, all’interno delle due digressioni, l’autore ha voluto dedicare ai vizi della nobiltà senatoria ed a quelli della plebe57. Al contrario tanto la carriera militare di Ammiano quanto molti passi della sua opera si comprendono meglio ricordando la sua appartenenza alla classe medio-alta dell’impero, a quel ceto curiale, al tempo stesso oppresso ed oppressore, che, sia negli interessi concreti sia nel modo di vedere i problemi dello Stato, era molto più vicino all’aristocrazia senatoria che alle masse popolari58.

Di certo lo storico non ha inteso denunciare l’esistenza di una frattura di natura sociale, culturale, giuridica o morale fra la nobiltà e la plebe romana; al contrario uno dei messaggi espressi da Ammiano in queste pagine è che, almeno sul piano morale, non è ormai possibile fare alcuna distinzione fra nobili e gente comune59. Si potrebbe quasi dire che sul piano etico fra nobili e plebe di Roma è avvenuto un livellamento, ma purtroppo verso il basso: se la folla dei plebei gioca con accanimento a dadi inspirando aria dalle narici con sgradevoli rumori (XIV 6, 25), anche i nobili sono per lo più giocatori d’azzardo, sebbene pochi di loro rifiutino questo appellativo, ed anzi si è giunti al punto che a Roma fra tutte le amicizie le uniche che restano salde nel tempo sono proprio quelle nate al gioco d’azzardo (XXVIII 4, 21). Se la plebe sembra trovare la sua più grande passione nel prestare attenzione dalla mattina alla sera e con qualunque tempo a pregi e difetti di aurighi e cavalli (XIV 6, 25) e se può suscitare meraviglia il vedere una folla innumerevole seguire con attenzione quasi ansiosa lo svolgimento delle gare dei cocchi (XIV 6, 26), anche i nobili, che pure stimano se stessi seri cultori di virtù, non si trattengono dall’incalzare di domande chiunque possa fornire notizie sul prossimo arrivo in città di cavalli o aurighi (XXVIII 4, 11)60.

Sembra invece incontestabile che una componente alla base delle due digressioni sia il personale rancore dell’autore, per lunghi anni straniero residente nell’antica capitale, nei confronti degli abitanti di Roma. Non possono essere un caso gli insistiti riferimenti all’accoglienza che la città riserva agli stranieri ed alla malcelata ostilità con cui la popolazione romana guarda alla loro permanenza.

Nella prima digressione ben quattro paragrafi (XIV 6, 12-15) sono dedicati all’accoglienza che un honestus advena deve attendersi da un cittadino romano benestante: ricevuto il primo giorno con una cortesia tanto squisita e premurosa da suscitare stupore nell’inesperto forestiero, questi sarà però trattato come uno sconosciuto ed un intruso se, fidandosi dell’invito ricevuto, ripeterà la visita il

57 In XIV 6 diciotto paragrafi (7-24) sono dedicati ai nobili e solo due (25-26) alla restante

moltitudine; in XXVIII 4 ventidue paragrafi (6-27) al senato e sette (28-34) alla plebe. Questa differenza di spazio vuole anche significare che un tenore di vita corrotto è degno di biasimo in misura maggiore nei ceti superiori che in quelli inferiori: cfr. KOHNS, Die Zeitkritik, p. 487. A differenza degli aristocratici la gente comune non era tenuta ad uniformarsi ad elevati modelli di comportamento: cfr. DEN HENGST, Literary aspects, p. 161.

58 T

HOMPSON, The historical work, pp. 2, 68, 81-85 e 128-129. Cfr. anche sopra, p. 4 e nn. 14-15.

59 Come ha ben visto K

OHNS, Die Zeitkritik, pp. 487-488: solo apparentemente nobiltà e plebe ricevono rimproveri differenti e specifici; in realtà quei rimproveri sono identici e la sola differenza fra i due gruppi sociali, nella descrizione che ne fa Ammiano, è che gli uni sono ricchi, gli altri poveri.

60 Per il fascino che gioco d’azzardo e corse esercitano su di loro gli aristocratici non sono certo

giorno seguente; pur annoverato infine tra gli amici, lo straniero, se, dopo aver accettato per anni tutti gli inviti, si allontanerà pochi giorni, dovrà nuovamente sopportare tutte le umiliazioni che si infliggono agli sconosciuti; l’opportunità dell’invito di un forestiero ad uno dei lunghi e poco salutari banchetti della nobiltà romana sarà sempre sottoposta ad un’umiliante valutazione preventiva: l’intrigante o il giocatore di dadi sarà di regola preferito alla persona colta e sobria, ma è anche possibile corrompere col denaro gli addetti alla redazione dell’elenco degli invitati. E poco più avanti (XIV 6, 19), per sintetizzare il punto di bassezza a cui si è giunti, Ammiano non trova immagine migliore che ricordare il recente allontanamento da Roma degli stranieri, occasionato dalla paura di una carestia61: circostanza nella quale non si è voluta fare alcuna eccezione per i seguaci delle arti liberali, in verità assai pochi, mentre poterono restare indisturbati i mestieranti di ben più ignobili professioni. Se, come si può almeno ipotizzare, lo storico fu tra i forestieri allontanati62, è facile immaginare da cosa nasca il risentimento che si legge qui ed in ampi tratti delle due digressioni.

Nella seconda digressione questo sentimento di sciovinismo nei confronti degli stranieri residenti trova espressione in poche immagini, inserite un po’ a forza in quel contesto piuttosto disordinato. Ammiano ricorda in particolare la sufficienza, appena ammantata di cortesia, con cui i nobili romani si atteggiano davanti ad uno straniero, che essi in realtà disprezzano, ma da cui si sentono lusingati se quello risponde alle loro domande e si dimostra disponibile a non declinare mai l’invito ad un loro banchetto: la mancata presenza di chi era stato invitato, magari dopo una lunga valutazione dell’opportunità dell’invito, è infatti considerata un grave danno, per lo meno al proprio buon nome (XXVIII 4, 10 e 17). Ed anche la plebe si segnala per questa istintiva e poco lucida ostilità nei confronti dei forestieri: se in teatro si determina un momento di silenzio, subito la folla ne approfitta per gridare che si debbono espellere gli stranieri (XXVIII 4, 32).

Alla base di questi accenti amari e quasi sdegnati di Ammiano è dunque il risentimento personale, che certo contribuì a rendere più tagliente e sarcastica tutta la descrizione della società romana, ma che non può essere considerato il motivo ispiratore di quelle pagine satiriche. Questo andrà ricercato piuttosto nel contesto delle Res gestae al cui interno lo storico scelse di inserire, e non certo casualmente, le sue pagine volutamente sarcastiche e severe.

Come si è visto63, le due digressioni sono introdotte con procedura analoga, cioè a commento dell’operato di alcuni prefetti della città, ed entrambe descrivono prima i vizi della nobiltà poi quelli della gente comune. Sembra ragionevole pensare che Ammiano, scrivendole, si proponesse un unico obbiettivo64. Si ha quasi l’impressione che con la seconda digressione (XXVIII 4),

61

XIV 6, 19: Postremo ad id indignitatis est ventum, ut, cum peregrini ob formiditatam haud ita dudum alimentorum inopiam pellerentur ab urbe praecipites …

62 Per tale ipotesi e per il contributo che questo paragrafo, molto citato negli studi su Ammiano,

può dare alle nostre scarse informazioni sulla biografia dello storico, cfr. sopra, pp. 7-8 e nn. 41- 42.

63

Cfr. sopra, pp. 46 e 47-48.

64 È quanto risulta anche dal prezioso studio delle due digressioni sviluppato da M

ATTHEWS, The Roman Empire, pp. 214-215 e 414-416. Troppo puntigliosamente, a mio avviso, è stato rimproverato a Matthews di aver visto, dietro la superiore coesione interna della prima digressione

57

meno curata sul piano formale e meno coerentemente organizzata nella distribuzione degli argomenti, lo storico abbia voluto integrare la prima (XIV 6) con un’ulteriore scelta di esempi, usando materiale precedentemente non utilizzato65. Lasciando quasi completamente da parte ogni considerazione di tipo ideologico o comunque astratto, in XXVIII 4 Ammiano fornisce una serie di immagini che descrivono gusti e comportamenti della classe senatoriale e della plebe di Roma. Molte di queste immagini vengono a dare nuovo colore ed enfasi ad argomenti già trattati nella prima digressione. Alla mancanza di interessi culturali della classe senatoria, denunciata nella prima digressione (XIV 6, 18), per cui nelle loro case le biblioteche sono chiuse come tombe, non si coltivano più gli studi, ma si ascolta il suono delle cetre, non si invitano filosofi o oratori, ma cantanti e maestri di ballo, fa riscontro nella seconda (XXVIII 4, 14) il favore con cui quelle stesse persone guardano a Giovenale e Mario Massimo, trascurando ogni altro più utile autore. L’honestus advena trattato con umiliante arroganza nella prima digressione (XIV 6, 12-13) diviene nella seconda (XXVIII 4, 10) il

peregrinus interrogato con sufficienza sulle terme e le case che frequenta. I nobili

che discutono maleducatamente sull’opportunità di invitare ad un banchetto uno straniero, finendo poi per scegliere il più indegno (XIV 6, 14), sono ritratti nella seconda digressione (XXVIII 4, 10) come tori minacciosi che, quando vengono avvicinati per un saluto, piegano da un lato la testa che dovrebbe essere baciata. I nobili che invadono rumorosamente le strade seguiti da colonne di servitori (XIV 6, 16-17) divengono poi protagonisti di pretenziose spedizioni a Pozzuoli o al lago di Averno, vissute come faticose e disagevoli imprese eroiche (XXVIII 4, 18)66. E se nella prima digressione (XIV 6, 22) si ricordava che a Roma le persone senza figli o celibi sono gli unici forestieri che possono contare su una durevole (ma interessata) benevolenza e che anzi solo gli uomini privi di prole sono oggetto di ogni cortesia, questa astratta considerazione cede il posto, nella seconda digressione (XXVIII 4, 22), alla macabra immagine dei cacciatori di eredità, che con le loro arti riescono prima a farsi citare nel testamento di persone ricche e poi a far morire impunemente i loro ingenui ed inconsapevoli benefattori.

Nella seconda digressione lo storico ha aggiunto comunque altri vizi ed abusi dell’aristocrazia senatoria non menzionati nella prima: la passione per cavalli ed aurighi (XXVIII 4, 11), nonché per il gioco dei dadi (XXVIII 4, 21), il trattamento capriccioso degli schiavi (XXVIII 4, 16), le elaborate pietanze ostentate durante i banchetti (XXVIII 4, 13) e sulle quali aveva preferito sorvolare nella prima digressione (XIV 6, 16) con un asciutto praetermitto; immagini che culminano in quella davvero riuscita (XXVIII 4, 26) del sordido litigio attraverso il quale moglie e marito si inducono vicendevolmente a fare testamento67.

Se, come proponeva Hartke, tra la stesura delle due digressioni intercorrono circa dieci anni68, si potrebbe pensare che la prima nasca dal primo

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