3.2 Analisi dei sonetti d’amore a ignoto interlocutore
3.2.5 S’io ’l feci unqua, che mai non giunga a riva
Supponiamo di trovarci dinnanzi a un poemetto caratterizzato dalla narrazione di una breve vicenda d’amore. Abbiamo visto che nel sonetto precedente la poetessa ci introduce al suo legame con un uomo bello e virtuoso. L’affetto che la coglie per costui si traduce nell’immagine dell’«aurato strale»154 che dolcemente
s’insinua in lei, infliggendole una ferita. Quanto più elevato e nobilitante è il sentimento che prova, tanto più è disposta ad accettare il massimo della sofferenza possibile in nome di questo amore; solo la morte può, infatti, distoglierla da «tant’alta impresa». Ora, il componimento presente va a scuotere tutte le certezze appena innalzate: assistiamo, di fatto, a un primo inasprimento della relazione tra i due, che appare incrinata da motivi di gelosia.
Per illustrare questo tema l’Aragona si affida al modello petrarchesco della canzone S’i’ ’l dissi mai, ch’i’vegna in odio a quella155. Questa canzone, che colpisce per il vistoso andamento anaforico, s’inserisce nel filone della poesia trobadorica chiamato escondit156, “così detto da escondire, che equivale in termini odierni a dichiararsi non colpevole di un’accusa che ci viene imputata”.157
Il motivo conduttore della canzone è il tormento di una falsa opinione circa il dire del poeta. Si osservi la prima stanza158:
Rvf CCVI, vv.1-9
S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella del cui amor vivo, et senza ’l qual morrei; s’i’ ’l dissi, che miei dí sian pochi et rei, et di vil signoria l’anima ancella;
s’i’ ’l dissi, contra me s’arme ogni stella, et dal mio lato sia
Paura et Gelosia, et la nemica mia
piú feroce ver ’me sempre et piú bella.
Come risulta evidente dalla lettura,
154 Un uso figura to tipica mente stilnovista . Del resto il componimento è pieno di rima ndi a quella tra dizione poetica e ciò dipende, in pa rte, da lla scelta di tra tta re la ma teria a morosa .
155 Rvf CCVI.
156 Si suole fa r risa lire la tra dizione dell’escondit a l trova tore Bertra n de Born; Petra rca ne fa la conoscenza tramite l’ambiente dell’Accademia tolosana e dei Jocs floral, competizioni poetiche in lingua d’oc che si teneva no a nnualmente a Tolosa , a pa rtire da l 1324.
157 M. Sa nta ga ta, F. Petrarca, Il Canzoniere, cit., p. 880.
fra i tratti distintivi del genere è la invocazione di disgrazie e disavventure sulla propria persona nel caso si rivelassero veritieri i detti o fatti calunniosi riferiti alla donna sul conto del poeta159.
«S’ i’ ‘l dissi mai» – sottinteso ‘di amare un’altra’– è l’accusa dalla quale il poeta si difende, pena l’eventualità di venire «in odio a quella», cioè a Laura160: le
auto-maledizioni di Petrarca convergono, di fatto, tutte nel disamore della donna. Il punto di cerniera della canzone è costituito dalla quinta stanza:
vv.37-45
Ma s’io nol dissi, chi sì dolce apria Meo cor a speme ne l’età novella, regg’anchor questa stanca navicella col governo di sua pietà natia, né diventi altra, ma pur qual solia quando più non potei,
che me stesso perdei (né più perder devrei).
Mal fa chi tanta fe’ sì tosto oblia.
L’avversativa introduce la variatio della formula-Leitmotiv e annuncia un capovolgimento di situazione: il poeta adesso si augura che Laura cessi le ostilità nei suoi confronti e torni a fargli da punto di riferimento e da guida per la sua anima che, come una «stanca navicella» senza governo, abbisogna di essere scortata in acque più sicure. Per inciso – e a dimostrazione che un’immagine può imprimersi nella memoria più di qualsiasi parola – nel sonetto successivo, Se ben pietosa madre unico figlio (p.74) troveremo la figura del nocchiero smarrito nel mare tempestoso; la poetessa gli dedica un’intera terzina, come vedremo più avanti. Può darsi che la strofa abbia attecchito nella memoria poetica di Tullia e ne abbia influenzato la scrittura.
Ora, la nostra poetessa non è l’unica a cimentarsi in questa tradizione lirica rinverdita ed esemplata da Petrarca: per esempio, tra i vari epigoni, Alessandro Arrighi scrive e dedica proprio a Tullia un sonetto, dall’incipit quasi identico a quello del modello, S'il dissi mai ch'io venga in odio a voi, che figura nell’ultima
159 M. Sa nta ga ta, F. Petrarca, Il Canzoniere, cit. p. 880.
160 La ura viene presenta ta come una nemica , ta nto feroce da provoca re pa ura e ta nto bella da suscita re gelosia .
sezione della raccolta di rime dell’Aragona161; tra le poetesse ancora una volta è
Gaspara Stampa a comporre il sonetto S'io 'l dissi mai, signor, che mi sia tolto162. Il genere ha, pertanto, una grande fortuna nel Cinquecento e viene praticato dai poeti petrarchisti, i quali s’influenzano tra loro, specialmente nell’ambito delle liriche di materia amorosa, che conoscono un’ampia circolazione.
Ciò premesso, il sonetto di Tullia esibisce un’innovazione formale rispetto ai precedenti: la formula «s’io ’l dissi» viene variata in «s’io ’l feci»; inoltre, al posto dell’avverbio ‘mai’, ripetuto più volte nella canzone-modello, troviamo una sola volta «unqua»163.
Si legga:
S'io 'l feci unqua, che mai non giunga a riva164
l'interno duol che 'l cuor lasso sostiene; s'io 'l feci, che perduta ogni mia spene in guerra eterna de vostr'occhi viva; s'io 'l feci, ch'ogni dì resti più priva de la gratia, onde nasce ogni mio bene; s'io 'l feci, che di tante e cotai pene, non m'apporti alcun mai tranquilla oliva; s'io 'l feci, ch'in voi manchi ogni pietade, et cresca doglia in me, pianto, e martìre distruggendomi pur come far soglio; ma s'io no 'l feci, il duro vostro orgoglio in amor si converta; e lunga etade sia dolce il frutto del mio bel disire.
161 Occupa la posizione 109 a ll’interno della sezione dei ‘Sonetti di diversi a lla Signora Tullia d’Aragona’.
162 Ga spa ra Sta mpa, Rime, CXXVIII.
163 «Unqua » è sempre una pa rola petra rchesca , ma possiede una pa tina d’a ntico che la poetessa per suo gusto non disdegna , difa tti è un ca lco da l la tino unqua m.
164 Sonetto su 5 rime a schema ABBA ABBA CDE ECD, di cui sono inclusive le rime «riva :priva », «spene:pene», «pieta de:eta de». L’a na fora della formula «s’io ‘l feci», va ria ta in nega tivo a l v.12, contribuisce a lla resa di un ritmo veloce e inca lza nte, in pa rticola re quello delle prime due qua rtine, che sono forma te da una serie di distici, corrispondenti il primo verso a lla prota si e il secondo all’apodosi di un periodo ipotetico. Il punto e virgola, che separa in modo conciso tutti questi enuncia ti, a ccelera la lettura del sonetto, che si configura , specie nella prima pa rte, come una sorta di elenco di effetti che dovrebbero servire a sca giona re l’io poeta nte da ll’a ccusa a lei rivolta . Ci sono
enjambements a ogni verso, tra nne a vv.9/10 e 10/11 e frequenti sono le a nastrofi. La poetessa sceglie
pa role in cui vibra il pa tetico, per da re un tono struggente funziona le a llo scopo per il qua le il sonetto è sta to scritto. Il componimento occupa la posizione n°32 nella ra ccolta di rime dell’Ara gona .
La poetessa nel testo non specifica quale sia l’oggetto dell’accusa che si nasconde dietro all’enigmatico pronome neutro ‘lo’, nella sua forma apocopata ‘l. Il suo è, però, un agire male interpretato e, per difendersi, invoca su di sé una sequela di terribili disgrazie che, nel loro insieme, possiedono l’efficacia probante di un giuramento.
Nei vv.1-2 augura a se stessa di non riuscire a sfogare il dolore sito nel cuore: concetto che esprime con la metafora nautica dell’imbarcazione che non giunge a riva. Degno di nota il sintagma «interno duol»165, che pone l’enfasi sulla
dimensione introspettiva dell’io, la quale risulterebbe irrimediabilment e danneggiata dal disamore dell’uomo.
Nei versi successivi si augura di risultare eternamente nemica agli occhi dell’altro; di restare priva della «grazia», cioè del favore di lui, da cui scaturisce il suo benessere; di non raggiungere la cosiddetta «tranquilla oliva», ossia la serenità della pace che dovrebbe ripagarla di tutti i sacrifici fatti166; di essere sopraffatta
dall’odio impietoso dell’uomo e dai tormenti di un amore non più corrisposto. Si osservi al v. 11 «pur come far soglio»: c’è un richiamo al petrarchesco «pur qual solia» che abbiamo visto sopra167. Da questo dato scaturisce una
riflessione interessante. Nella canzone petrarchesca, come abbiamo visto, la maldicenza va ad alterare la serenità dell’amata, intorbidando ciò che prima era limpido; la speranza di Petrarca è, pertanto, che Laura ridiventi ‘quale soleva essere’, cioè la donna amabile che lo avvinse, e smetta di essere «altra» da sé, cioè una donna priva di pietas, spietata e crudele. Il caso dell’Aragona è diverso: la calunnia si propaga come le increspature sulla superficie di uno specchio d’acqua, che però nasconde un fondale irregolare, contaminato. Le malignità circolanti sul suo conto, non solo vanno a esacerbare la relazione con l’uomo che ama, procurandole sofferenze inimmaginabili, ma queste stesse sofferenze aggravano un’esistenza che è di per sé sottoposta a un inevitabile logorio; non a caso la
165 Il sinta gma ricorda da vicino «interna doglia », che è nel sonetto proemia le di Vittoria Colonna,
Scrivo sol per sfogar l'interna doglia. Non sa ppia mo se il riferimento sia voluto o meno; tuttavia,
dato l’esempio illustre della marchesa di Pescara, è ancor più significativo che Tullia auspichi di non riuscire a elaborare in alcun modo il dolore della perdita dell’amato, neanche a mezzo della pa rola poetica .
166 Sembra qua si che la poetessa stia nega ndo a se stessa a d dirittura una visione provvidenziale dell’esistenza. ‘Oliva’ è sineddoche del ramo d’ulivo e rappresenta il simbolo religioso della pace. 167 Si veda il v. 41 della ca nzone CCVI a lla p.63 di questa tesi.
poetessa utilizza il presente abituale ‘soglio’ per comunicare che è adusa a procurarsi il male e a tormentarsi da sola con le sue angosce.
Le ragioni di questo profondo turbamento sono taciute nel sonetto, ma è facile intuirle, perché hanno a che vedere con l’ingombrante ruolo di cortigiana che Tullia deve ricoprire (una tematica che abbiamo considerato più volte lungo l’analisi dei sonetti). Il primo e più grande dolore è essere costretti a vivere un’esistenza che non si vuole né si accetta; a questo si aggiunge, come la beffa al danno, l’altro grande dolore che è perdere la persona amata. Le parole «doglia», «pianto e martire»168 (al v.10), che formano una climax ascendente
significativamente introdotta dal verbo «cresca», sottolineano proprio questo crescendo di disperazione, che ha per esito finale inevitabile l’autodistruzione.
168 Si noti che «doglia », «pia nto» e «ma rtire» sono le stesse pa role a dopera te da Tullia nei sonetti 29 (§3.1, p.47) e 30 (§3.2, p.52); fa nno pa rte del lessico della sofferenza usa to per a nnulla re sul pia no mora le ciò che a ttentava a lla sua reputa zione di donna onesta e di poetessa .