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PARTE IV – PANORAMICA SULL'IMMUNITÀ NELL'ESPERIENZA STATUNITENSE

4.2 Analisi statistiche e considerazioni dottrinal

Nella storia giurisprudenziale degli Stati Uniti in merito all’immunità un momento fondamentale è la “Tate letter150” del 1952. Fino ad allora era stata seguita la regola dell’immunità assoluta, con il potere in capo al Dipartimento di Stato; con quel documento, inviato dallo stesso Dipartimento al Dipartimento della Giustizia, si rendeva noto che da allora si sarebbe applicata invece la teoria dell’immunità ristretta. Peraltro, gli stessi USA continuarono all’estero a reclamare l’immunità assoluta fino al 1973151. I contenuti della nuova politica dell’immunità ristretta rimasero poco definiti fino al 1976, quando venne emanato il Foreign Sovereign Immunities Act (di cui si è parlato nella prima parte), che dichiaratamente mirava a codificare il nuovo principio, ormai riconosciuto dal diritto internazionale, oltre che a trasferire il compito di determinare l’immunità dall’esecutivo (che in precedenza tramite il competente Dipartimento di Stato era sottoposto a forti pressioni) al potere giudiziario, riducendo così le conseguenze delle sentenze sulla politica estera e assicurando ai litiganti decisioni operate su base esclusivamente giuridica152.

Da allora, tramite il database FSIA Dataset, è stato calcolato l’impatto dell’immunità sull’accesso al giudice negli Stati Uniti. Il risultato è che i giudici delle corti distrettuali USA negano l'accesso per motivi di immunità ad un tasso stimato del 47,5% dei casi in cui l’immunità è invocata. I dati presentati inoltre possono sottovalutare l’impatto 150 Letter of State Department's Acting Legal Adviser, Jack B. Tate, to the Department

of Justice, 15 maggio 1952, 26 Department of State Bulletin 984 (1952)

151 Ian Brownlie, Preliminary Report, Contemporary problems concerning the jurisdictional immunity of States, in Annuaire de I'IDI, 1987, Caire, vol. 62, 1.1, p. 1 152 Jurisdiction of United States Courts in Suits against Foreign States, Congressional Committee Report on the Jurisdiction of United States Courts in Suits against Foreign States, 9 settembre 1976

complessivo del FSIA, perché includono solo in parte le sentenze non pubblicate nell’annuario federale, e si è calcolato che i tribunali distrettuali hanno circa il 10,7% in più di probabilità di concedere l'immunità quando le decisioni non sono pubblicate nell’annuario federale rispetto alle decisioni che invece vengono pubblicate. Vanno aggiunte poi le situazioni in cui pretese contro uno Stato straniero non vengono nemmeno portate avanti, vista l’elevata probabilità di rigetto per motivi di immunità; sono probabilmente molto meno frequenti i casi in cui uno Stato estero convenuto non solleva lo scudo dell'immunità percependo scarse probabilità di successo. Con queste correzioni, la statistica suggerisce quindi che i giudici vedono la concessione dell’immunità come un caso più ordinario rispetto al diniego, che tra l’altro ha l’8% di possibilità di non essere confermato in appello, percentuale più alta del 5% che si riferisce alla concessione. Ci si potrebbe aspettare inoltre che l'eccezione all’immunità prevista dal FSIA per le attività commerciali degli Stati abbia reso rara l’applicazione dell’immunità stessa quando gli attori sono entità di business; tuttavia non è così. Il tasso stimato di dinieghi di accesso alla corte per motivi di immunità verso ricorrenti persone fisiche è del 53,5%, e il tasso stimato per ricorrenti entità aziendali è del 42,5% (del 45,2% per le imprese degli Stati Uniti). Infine l’esame dei dati mostra anche che sia i cittadini degli Stati Uniti sia gli stranieri perdono l'accesso alle corti per via dell’immunità in misura sostanzialmente uguale (in realtà l'accesso è negato un po' più spesso quando l’attore è statunitense, ma la differenza non è statisticamente significativa). Si tratta di un risultato che va visto senza dubbio in una luce positiva, poiché indica che non c'è discriminazione sistematica contro i cittadini stranieri in questa materia. Alcuni però pongono l’accento sulla cittadinanza del ricorrente, ad esempio, come sostiene Mathias Reimann, “l’accesso alla giustizia negato [sulla base dell’immunità dello Stato estero] è particolarmente grave quando si verifica nel paese di origine [del ricorrente]. In tal caso, lo stesso governo che chiede fedeltà, e deve quindi

garantire protezione, si rifiuta di aiutare l’attore nella rivendicazione dei suoi diritti153”. Questo studio è stato riportato da Christopher A. Whytock154, che non ne ricava conclusioni particolarmente negative: negli Stati Uniti il diritto di accesso al tribunale è ampiamente riconosciuto e sempre legalizzato. Non sottovaluta però il fatto che l'immunità statale impone talvolta significative barriere che in alcuni casi possono privare il diritto di accesso alla corte di tutto il suo significato. Per risolvere la questione Whytock valuta l’approccio legato alla proporzionalità; specificamente, l'immunità non dovrebbe essere concessa se il suo impatto sulla possibilità per il ricorrente di ottenere giustizia risulta sproporzionata rispetto ai benefici per le relazioni tra lo Stato del foro e lo Stato estero. In caso contrario, l’immunità, salve le eccezioni riconosciute, si applicherebbe normalmente. Il principale vantaggio di questa impostazione è che prende sul serio sia le giustificazioni funzionali della dottrina dell’immunità sia l'importanza dell’accesso al giudice; per questo incontra il favore dell’autore, che non manca di sottolineare però anche le conseguenze problematiche. Queste possono essere facilmente verificate guardando proprio alla storia dell’immunità negli USA. Infatti, visto che è evidentemente difficoltoso per i tribunali fare valutazioni circa le conseguenze delle vicende giudiziarie sulle relazioni internazionali (rischiando tra l’altro di intromettersi nelle funzioni del governo in materia), sarebbe quasi inevitabile rinviare alle valutazioni dell’esecutivo sui benefici dell’immunità nei singoli casi. In pratica si concretizzerebbe un ritorno all'esperienza degli Stati Uniti prima 153 Mathias Reimann, A Human Rights Exception to Sovereign Immunity: Some Thoughts on Princz v. Federal Republic of Germany, in Michigan Journal of International Law, 1995

154 Christopher A. Whytock, Foreign State Immunity and the Right to Court Access, in Boston University Law Review, Vol. 93, n. 6, 2013

dell’approvazione del FSIA, in cui il governo era incaricato di determinare sull'immunità dello Stato estero, con le conseguenti complicanze per la sua funzione diplomatica. Il rischio è dare agli Stati esteri potenziali convenuti un incentivo a disturbare o minacciare di interrompere i rapporti con lo Stato del foro in caso di contenzioso contro di esso. Tuttavia Whytock prosegue osservando che gli inconvenienti del coinvolgimento dell’esecutivo potrebbero essere almeno in parte evitati stabilendo ex ante categorie di attività dello Stato estero che, se oggetto di giudizio in un tribunale USA, avrebbero probabilmente un effetto negativo sulle relazioni bilaterali.

Le conclusioni di Whytock possono apparire sorprendenti se si considera che la Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza Germania c. Italia155 del 3 febbraio 2012, aveva descritto la posizione della giurisprudenza statunitense sull’immunità come un’anomalia o un’eccezione. Occorre quindi esaminare nel dettaglio le ragioni di questa presa di posizione. Una ragione può ritrovarsi nel fatto che le immunità giurisdizionali degli Stati, nella prassi giurisprudenziale statunitense, vengono prevalentemente ricondotte alla caratterizzazione come questioni di cortesia (comity), anziché come un diritto sanzionato da una regola generale consuetudinaria internazionale. I tribunali statunitensi continuano spesso a individuare "grazia e cortesia" come la ragione di base dell'immunità statale; persino la Corte Suprema, nella sua decisione Altmann156 del 2004, ha ribadito che “l'obiettivo principale dell'immunità non è mai stato quello di consentire agli Stati stranieri di modellare il loro comportamento affidandosi alla promessa di una futura immunità dalla giurisdizione dei tribunali degli Stati Uniti. Piuttosto, tale immunità riflette l'attuale politica delle relazioni internazionali, e mira a 155 Corte Internazionale di Giustizia, 3 febbraio 2012, sentenza cit.

156 Corte Suprema degli Stati Uniti, Republic of Austria v. Altmann, 7 giugno 2004, 541 US 677, ILM, vol. 43, 2004, pp. 1425-1428

dare agli Stati una ‘protezione dagli inconvenienti’ come un gesto di cortesia". Questa affermazione ovviamente è in contrasto con la posizione della CIG per cui l'immunità "è disciplinata dal diritto internazionale e non è una mera questione di cortesia", posizione condivisa nella gran parte della prassi degli Stati. La visione dell'immunità di Stato come questione di cortesia viene tradizionalmente fatta risalire all'opinion della Corte Suprema nel caso Schooner Exchange v. McFaddon157 (a cui si è già fatto riferimento nella parte introduttiva della tesi). In questa il Chief Justice non aveva mai in realtà utilizzato il termine comity, ma aveva comunque fatto riferimento all'immunità degli Stati come a una limitazione alla competenza esclusiva territoriale dello Stato del foro, scaturita dal consenso esplicito o implicito di quest'ultimo e da considerazioni politiche: ”La perfetta uguaglianza e l'assoluta indipendenza degli Stati, e un interesse comune che impone di metterli in relazione reciproca e in un interscambio di buoni uffici l'uno con l'altro, fa sorgere una serie di casi in cui ogni Stato intende rinunciare all'esercizio di una parte di quella giurisdizione esclusiva territoriale che è dichiarata come attributo di ciascuna Nazione". La tradizione giurisprudenziale dell’immunità come cortesia è continuata anche dopo il 1976, quando è stato emanato il FSIA con lo scopo dichiarato, tra gli altri, di portare in linea il sistema giuridico americano con il diritto internazionale consuetudinario.

Pavoni, la cui posizione su questo passaggio della sentenza della CIG è fortemente critica (lo giudica una “citazione frammentaria e selettiva della prassi statunitense”, elaborata in una chiave polarizzata e conservatrice, difetti tali da indebolire la persuasività dell’intera sentenza158), non è però convinto che l’interpretazione 157 Corte Suprema degli Stati Uniti, Marshall in Schooner Exchange v. Mc Faddon, 7

Cranch 116 (1812)

158 Riccardo Pavoni, An American Anomaly? On the ICJ's Selective Reading of United States Practice in Jurisdictional Immunities of the State, in Italian Yearbook of

dell’immunità come questione di cortesia sia la ragione del riferimento agli Stati Uniti come “eccezione”. Infatti, se si ritiene che essi non siano consapevoli dell’obbligo legale dell’immunità, la pertinenza della giurisprudenza statunitense per determinare l’opinio iuris verrebbe meno, la Corte avrebbe dovuto semplicemente prendere atto della posizione degli Stati Uniti ma solo per escludere la sua capacità di influenzare lo stato attuale del diritto internazionale. Invece ha proceduto ad esaminare la prassi statunitense, ma in modo secondo l’autore “parziale, sfuggente ed enigmatico” (ad esempio non ha citato le decisioni in cui le corti USA hanno riconosciuto l’immunità anche a fronte di accuse di violazioni dello ius cogens). Una completa disattenzione per la prassi statunitense sarebbe stata in ogni caso insostenibile, visto che avrebbe significato ignorare una delle più voluminose, dinamiche e innovative giurisprudenze nazionali sulle immunità internazionali (si stima che le decisioni in questo settore rappresentino più della metà di tutte le decisioni riportate). Nel prossimo capitolo si esaminerà maggiormente in dettaglio il contenuto di questa giurisprudenza.