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Ancora una volta, i racconti dei formatori ci presentano un contesto popolato di allievi che hanno interiorizzato una sorta di “io non ci riesco” La valutazione al-

lora può assumere un ruolo importante nel far superare questa profezia negativa,

che poi è la classica profezia che si autoavvera (Rosenthal, Jacobson, 1991):

in alcune classi, ho notato ragazzi con ansia e difficoltà a controllare le proprie emo- zioni, soprattutto in prima (IntVr3/5); ...in prima C, c’è per esempio c’è una ragazza, Serafina, che, all’inizio dell’anno, piangeva ogni qual volta si trovava a svolgere degli esercizi in classe; era la paura per la valutazione; se la chiamavo alla lavagna a svol- gere delle espressioni, si bloccava paralizzata; sua mamma era disperata; questo pro- blema se l’è portato dalle elementari fino a tutti e tre gli anni delle medie, ed è stato ri- scontrato anche all’inizio delle superiori, a settembre; adesso è tranquillissima, serena; nella sua presentazione lei lo aveva specificato: “Io ho un problema di controllo del- l’ansia, delle emozioni”; è bastato il primo compito in classe (IntVr3/7); [...] il conte- nuto (della sua autopresentazione) era proprio che era ansiosa, tanto che la mamma, a settembre, mi aveva chiesto se potevo mandarla da uno psicologo, se poteva fare un po’ di training autogeno; io ho detto: “No, aspettiamo un attimo, prima di fare un per- corso di questo genere!”, perché era tutto il percorso scolastico così; lei ha passato le verifiche con un fazzoletto da una parte e la penna dall’altra, cioè non era possibile una cosa di questo genere; alla lavagna i primi mesi non l’ho mai chiamata, perché, dopo la prima volta in cui è scoppiata in pianto, ho detto: “No, questa sarebbe una violenza!”. In prima A, come in prima C, ho ragazzi [...] profondamente demotivati, con poca vo- glia di studiare. Sempre in prima C, trovo un ragazzo – ti dico solo alcuni casi [...], per dire le difficoltà più grosse – con una storia familiare terribile alle spalle; [...] ai primi colloqui, i genitori cercano di raccontare la storia del ragazzo per permetterci anche di capire il presente: questo ragazzo aveva rinunciato completamente a studiare, giustifi- candosi così: “Io non ci riuscirò mai! In matematica non ci riuscirò mai a capire queste cose! Lei può fare quello che vuole, non ci riuscirò mai!”. “Due” alla prima verifica, “due” alla seconda; ha preso “nove più” nell’ultima. Durante una lezione, gli dissi: “Guarda che anch’io alle medie e alle superiori non andavo molto bene in alcune ma- terie! Mi ricordo il mio tre in tedesco. Che paura tornare a casa con un tre, mi ricordo! Presi anche un quattro in ragioneria”. Questo, tornato a casa, ha raccontato tutto alla mamma; la mamma, ai colloqui, mi fa: “Non pensavo che anche lei andasse male in al- cune materie, alle superiori!”. “Guardi che sono umana anch’io, vero!”. Il ragazzo si è un po’ sbloccato, ho capito che con lui bisognava ridurre un poco le distanze: “Guarda che non sono l’insegnante che sa tutto e tu non sei l’alunno che va riempito di informa- zioni – ho detto –; anch’io ho avuto un passato, anch’io ho avuto le mie difficoltà e le ho superate. ‘Io non ci riesco!’ non lo voglio sentire più! Voglio sentire: ‘Io tento, ci posso riuscire, come no!’. Io ci sono!”. Ieri ha preso “nove più”; [...] è un ragazzino che è cambiato e anche sua mamma ha notato il cambiamento (IntVr3/9) [...]. (Un pro- blema è proprio) la demotivazione, il fatto dell’“io non ci riesco!”; questa è una frase (tipica): “Ormai è da anni che io non ci riesco. Non capisco. Lei non può insegnarmi matematica, nessuno ci è mai riuscito!” (IntVr3/230); arrivano dalle medie che danno per scontato che vanno male in matematica (IntVr3/254); sono rassegnati: “Perché lei dovrebbe insegnarmi la matematica? Non c’è riuscita l’insegnante delle medie, figuria- moci lei che adesso ha tutte queste idee!” (IntVr3/256) [...]. (È importante) ridurre le distanze, ammettendo che anche noi (di aver avuto le nostre difficoltà); almeno io, sin- ceramente [...], con ragazzi con eccessivi problemi, ho sempre dichiarato che alle supe- riori avevo i miei brutti voti (IntVr3/262); “Sì, ragazzi, mio padre, adesso che mi vede laureata in Economia e commercio, (quasi non ci crede). Vi assicuro che laurearsi in Economia e commercio a Verona non è stata una cosa semplice. [...] Mio padre addirit- tura, in prima superiore, voleva mandarmi a fare l’estetista, dicendo: ‘Tanto non ri- uscirà mai!’...”. “Cos’è scattato in lei?”. “Mi è scattata la voglia di dimostrare ai miei genitori che potevo farcela anch’io! È scattato un minimo di orgoglio personale; ho ti- rato fuori quelle risorse, ragazzi, che avete anche voi!”. Allora [...] la mamma di quel

ragazzo che nei colloqui individuali mi ha detto: “Questa cosa a mio figlio non gliela aveva detta nessun insegnante!”, perché lui era abituato a vedere l’insegnante sul pie- distallo, come colui che sta sempre in cattedra, che sa tutto; invece “Ragazzi, sono umana anch’io, per carità, posso sbagliare anch’io!” (IntVr3/264) [...]. Fuori, questi ra- gazzi vengono classificati come delle “teste vuote”, degli incapaci; [...] è questo che si vede all’esterno [...]; in realtà, hanno delle potenzialità; bisogna soltanto che loro se ne convincano; arrivano qui demotivati, ma tanto demotivati, li etichettano alla fine della terza media: “Destinati al Centro di Formazione Professionale” (IntVr3/286). In realtà, potrebbero fare il liceo, potrebbero anche andare tranquillamente al liceo. Bisogna tirar via tutta quella demotivazione, quel “Non ci riuscirò mai!”. Io dico: “La matematica è una bestia nera, effettivamente, insomma, è difficile, però bisogna, come dire, mettersi lì, con tranquillità, e tutti ci riescono”. “Non è difficile; io ho fatto solo due anni di ma- tematica alle superiori, sono riuscita a passare gli esami di matematica ad Economia e commercio, vi assicuro che avevo dei professori che, se vedevano che c’era un piccolo errorino, non ti facevano passare agli esami [...]”. Ecco, per questo ho detto: “Ce la po- tete fare tutti tranquillamente!”. Alcuni sono arrivati al sette e mezzo, otto, e sono par- titi da tre, quattro, perché hanno superato il blocco di quel “non ci riesco!” [...]; io sono convinta che ce la possono fare anche loro (IntVr3/288);

il problema principale dei nostri ragazzi è che sono convinti che la matematica non si possa imparare; quindi la frase che mi sento dire soprattutto dai ragazzi di prima è: “Ah, ma io sono sempre andato male in matematica, io non ho la mentalità matema- tica, io la matematica non la capirò mai!”. Lo scoglio principale, per me, è superare questo tipo di convinzione e far capire ai ragazzi che magari non arrivano tutti al 100, però che tutti riescono ad imparare la matematica (IntPd4/10); (cerco di fare questo) dando loro fiducia e facendo vedere che almeno alcune cose semplici riescono a farle. Quindi vado sempre per gradi; di solito, quando affronto un argomento, [...] prima spiego, faccio degli esempi alla lavagna – non solo in un’ora, in più ore – [...], chiamo qualche ragazzo alla lavagna a fare degli esercizi, e dopo lascio delle ore perché ognuno faccia gli esercizi in autonomia, magari chiedendo aiuto; naturalmente, io sono sempre presente con loro [...]; se non lascio un po’ di tempo ad ognuno per riflettere, loro copiano solo alla lavagna e non imparano [...]; dopo, cerco di avvicinarmi molto a loro, nel senso che sono un tipo abbastanza severo, però, [...] quando si capisce che la tensione aumenta, che sono stanchi, cerco di fare anch’io una battuta (IntPd4/12), perché altrimenti è veramente pesante per loro fare matematica, primo perché non piace e poi perché non sono abituati a fare tanto esercizio (IntPd4/14); [...] spesso mi dicono: “Sa che l’ho capito!” [...]. Tante volte si stupiscono di quello che riescono a fare (IntPd4/18), anche perché più di qualcuno è cresciuto, sia frequentando le elemen- tari che le medie, con l’idea di non riuscire a fare, perché qualcuno glielo ha detto; ricevo dei genitori che mi dicono che alcuni insegnanti delle medie dicevano loro: “Ah, ma suo figlio non imparerà mai la matematica. Gli faccia fare qualcos’altro, perché suo figlio non è portato per la matematica!”. Secondo me, ad un ragazzo di 10, 12, 15 anni, non puoi dire: “Non sei portato per la matematica!”, perché già così [...] gli tarpi le ali (IntPd4/20). [...] Cerco di non fare gli errori che alcuni insegnanti hanno fatto con me. Io non ero un gran genio di italiano, per esempio, arrivavo al 6 tiratissimo, però ho sempre subito parecchie umiliazioni dalla mia professoressa di italiano, quindi, sic- come ne ho sofferto veramente tanto, cerco di non fare gli stessi errori con i ragazzi. Quindi anche chi non capisce la matematica cerco sempre di non farlo sentire inferiore agli altri: “Va beh, non ci riesci, non importa, ce la faremo in qualche altro modo!” [...]; cerco sempre di dare fiducia a loro, insomma, proprio perché hanno fatto soffrire tanto me (IntPd4/88).

Sia MR. (IntVr3) che S. (IntPd4) ricavano l’opportunità di incoraggiare, anche

a partire da una riflessione sulla propria personale esperienza di formazione. Si

tratta di aiutare a ridurre l’ansia, agendo con tatto ed aiutando l’allievo ad essere a

suo agio, e di far gradualmente passare dall’atteggiamento dell’“Io non ci riesco!”

a quello dell’“Io tento! Ci posso riuscire, come no!” (IntVr3/9). In questo, decisivo

è l’“Io ci sono!”, pronunciato e fattivamente testimoniato dall’insegnante, e la sua

fiducia nelle potenzialità degli allievi. L’effetto Pigmalione (Rosenthal, Jacobson,

1991) insegna quanto può pesare la profezia negativa, ma anche quanto possa inci-

dere la convinzione che questi ragazzi possano riuscire, alimentata innanzitutto

dagli insegnanti e poi dai ragazzi stessi. Per infondere fiducia in loro stessi, è op-

portuno procedere con gradualità, curando che le prime prove siano relativamente

semplici, e offrire occasioni perché essi stessi possano dimostrare ciò che riescono

a fare, magari stupendosi dei risultati.

7.5.2. Calibrare le prove per far fare esperienze di successo

La verifica viene vista dai nostri formatori come momento in cui far fare espe-

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