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Come abbiamo ricordato più volte, collegarsi alle materie pratiche non signi fica limitare la matematica a ciò che si può applicare in pratica, ma utilizzare i con-

testi pratici per far nascere autentici problemi matematici e orientare alla ricerca di

soluzioni di cui cogliere non solo l’utilità ma anche l’eleganza e la bellezza:

[...] praticamente si tratta di dare (agli allievi) dei problemi, qualsiasi essi siano, il più vi- cino possibile alla loro realtà, ai loro interessi, e chiedere loro delle proposte di soluzione; dopo di che – questo è un passaggio estremamente difficile – chiedo: “Ora, proviamo a tradurre in linguaggio matematico le parole che voi avete detto in italiano corrente, perché la matematica ha un proprio linguaggio, che ci permette molto spesso di tradurre quelle parole, quelle frasi che noi abbiamo detto, in una serie di segni convenzionali, che ci fanno arrivare allo stesso risultato”; [...] facciamo l’esempio del triplo della somma ini- ziale ecc. ecc.: [...] che cosa vuol dire il triplo di una somma? Intanto dico: “La somma la conosciamo o no? Come indichiamo questa somma?”; ci sarà chi mi dirà x, chi mi dirà y;

allora, il passaggio successivo è questo: “Mettiamoci d’accordo, quando non conosciamo qualcosa, come la indicheremo d’ora in poi?”; allora salta fuori di nuovo x: “Non la cono- sciamo; qual è la parola italiana che indica una cosa sconosciuta? In matematica, la parola ‘sconosciuto’ come viene tradotta?”, fino a che qualcuno arriva a dirmi: “incognita”; al- lora dico: “Abbiamo deciso che, d’ora in poi, le cose che non conosciamo, le nostre inco- gnite, le chiamiamo x. Adesso abbiamo detto il triplo della nostra somma; come lo pos- siamo dire in linguaggio matematico?”. Ci sarà chi mi dirà x+x+x; fino a quando qual- cuno arriverà a dire “3 per x”, a cui io ho aggiunto la quantità ecc., che magari conosco, 10; quindi come lo formalizziamo? Ecco che abbiamo ‘3x+...’; la parola aggiungo l’ab- biamo tradotta nel linguaggio matematico con il +...”. Quindi si costruisce un poco per volta [...] la nostra traduzione delle parole in una serie di simboli e segni; dopo di che: “Bene, che cosa ne vogliamo fare di questa cosa? Vogliamo trovare la x, vogliamo sapere quanto abbiamo in totale?”; quindi si va a vedere che cosa si voleva, si va a vedere, come al solito, quella procedura con i vari passi che ci permettono di arrivare alla soluzione (Int- Roma1/30). [...] Tutto questo permette intanto alla persona che lo dice di chiarirsi mental- mente; seconda cosa, molto spesso non è un’unica metodologia, non è un’unica serie di passaggi che ci permette di arrivare alla soluzione, per cui salta fuori il compagno che in- vece dice: “No, ma io invece ho fatto così!”. A volte lo lascio dire tranquillamente e dico: “Sei arrivato allo stesso risultato? Non sei arrivato allo stesso risultato?... Allora, ragazzi, abbiamo di fronte due risultati diversi, vediamo un attimino di riuscire a capire quale dei due è quello corretto. Tu spieghi che cosa hai fatto, e anche tu spieghi che cosa hai fatto. Adesso voi intervenite e ditemi: secondo voi, chi dei due ha sbagliato e dove ha sba- gliato?”. [...] Oppure faccio vedere come molto spesso ci siano metodologie e sequenze alternative e quindi dico: “Ad esempio, avete visto qui che prima abbiamo moltiplicato e poi abbiamo diviso; lui invece prima ha diviso e poi ha moltiplicato; siamo arrivati allo stesso risultato, quindi cosa possiamo dire?”. Qual è il mio obiettivo, in questo caso? Che gli allievi colgano il fatto che queste operazioni non hanno un ordine definito: [...] “Mentre ad esempio lui prima ha sommato e poi ha moltiplicato, lui ha fatto il contrario; avete visto che i risultati sono diversi? Questa volta si tratta di due operazioni che non possono scambiarsi di posto tra loro” (IntRoma1/36). [...] Mi viene in mente l’esempio di un pezzo meccanico di cui occorreva trovare il volume. A me inizialmente, era sembrato ovvio e semplice, siccome era una parte composta da più figure geometriche che messe insieme facevano quel pezzo complessivo, [...] trovare il volume delle singole parti e som- marle tra loro, mentre un ragazzo mi ha detto: “No, io invece ho deciso di considerarlo un cilindro uniforme, in cui ho scavato il pezzo centrale, quindi mi sono andato a calcolare la parte che asportavo e, dal volume totale, mi sono trovato il volume, considerando il vo- lume iniziale meno la parte asportata”. Questo è il primo esempio che mi viene in mente [...], in cui c’erano dei ragionamenti molto più sottili, che coinvolgevano proprio delle capacità superiori e io dicevo: “Ma guarda quello!”. [...] Questo mi è successo tempo fa, si trattava di un ragazzo fortemente dotato; in quel caso, mi ha detto: “Lei ha proposto, nel problema – era un problema di geometria analitica, e nemmeno tanto semplice [...] –, questa soluzione; la condivido – perché, oltretutto, era molto formale –, la condivido, però per me questa è più veloce” e me l’ha proposta; dopo di che l’ho analizzata e gli ho detto: “Sì, hai ragione, questa è più veloce della mia”. È ovvio che soluzioni così fini si hanno in pochi casi, ma a volte i ragazzi, che hanno un approccio molto più pratico e meno teorico del mio, arrivano più velocemente alla soluzione proprio perché intanto, se è un problema pratico, lo visualizzano molto meglio di me; poi perché, essendo abituati al punto di vista pratico, spesso traducono nella pratica quello che c’è da fare, lo traducono in sequenza logica; mentre io invece, parto dalla sequenza teorica e dai passaggi della teoria che mi permettono di arrivare al risultato (IntRoma1/40).

M. (IntRoma1), pur partendo da problemi pratici e reali, guida un percorso che

consente di tradurre il problema concreto in un linguaggio matematico, che ha carat-

teristiche sue peculiari, che lo rendono particolarmente preciso e conciso. Proporre ai

ragazzi del CFP problemi matematici subito nel linguaggio specifico della matemati-

ca, senza quest’opera di traduzione, significherebbe metterli a confronto con formule

ermetiche e spesso per loro incomprensibili. Attraverso la traduzione (secondo la qua-

le l’elemento sconosciuto, l’incognita, si può rendere con la lettera x, il termine “ag-

giungo” si può rendere con il segno + ecc.), i ragazzi riescono a vincere la diffidenza

nei confronti della “lingua matematica” ed anzi arrivano ad apprezzarne la capacità di

restituire in modo denso e sintetico una notevole quantità di informazioni. Acquisire

una certa familiarità con il linguaggio matematico consente poi di avviare un processo

– è ciò che cogliamo dall’interazione che il nostro formatore riporta (IntRoma1/36) –

in cui la matematica si fa concretamente (e il docente non si limita a mostrarla), inter-

rogandosi, confrontando le ipotesi di soluzione, esplicitando i procedimenti adottati,

ragionando sugli errori ecc. In alcuni casi, può poi capitare che il docente stesso

rimanga stupito dalla soluzione escogitata da un allievo, che magari utilizza un proce-

dimento di pensiero più pratico e meno formale e arriva a soluzioni inaspettate. Alcuni

studi di etnografia cognitiva (Lave, 1988), hanno infatti dimostrato che il conoscere

che avviene nelle situazioni quotidiane è molto diverso da quello astratto e deconte-

stualizzato che per lo più si realizza nei contesti scolastici e formativi. Bruni e Ghe-

rardi (2007, p. 33) riprendono proprio dagli studi di Lave (Lave et al., 1984) il famoso

“aneddoto del cottage cheese”, che può essere utile riportare qui di seguito perché

utile ad illustrare anche l’esperienza del nostro formatore: «Siamo nell’ambiente dei

Weight Watcher e per ottemperare alle sue richieste dietetiche una persona deve ser-

virsi dei 3/4 di una mezza porzione di cottage cheese. Dopo una prima occhiata per-

plessa al formaggio e alle istruzioni, la persona non ha dubbi: rovescia il contenuto

della vaschetta in un piatto, con un coltello ne sistema la forma a cerchio ben compat-

to, traccia una croce sulla superficie, elimina una prima metà, risistema il cerchio e

poi ne toglie un quarto. Misurare i 3/8 di una vaschetta sarebbe stato non solo più

complicato, ma probabilmente non sarebbe neppure venuto in mente a quella perso-

na, anche perché le frazioni appartengono alle pratiche scolastiche, mentre nella vita

di tutti i giorni il ragionamento pratico per misurare, confrontare, soppesare e via

dicendo utilizza altre risorse che trova nell’ambiente» (Bruni, Gherardi 2007, p. 33).

M. e molti altri formatori intervistati operano in un modo analogo, proponendo ai

propri allievi situazioni ed esperienze che consentano loro di utilizzare processi pra-

tici di pensiero aritmetico o matematico. Ma non si fermano qui. Come ci dice M.

(IntRoma1), li aiutano innanzitutto a verbalizzare i processi di pensiero, a descriverli,

a “dire in italiano” i ragionamenti svolti e poi a tradurre il tutto “in linguaggio mate-

matico”, cioè a passare dalla manipolazione di oggetti e materiali concreti alla “mani-

polazione” di simboli e concetti astratti, da una matematica tutta legata ai sensi ad una

matematica legata anche alla ragione, da una matematica che ha a che fare con le

cose, ad una matematica che si occupa prevalentemente delle relazioni tra le cose.

22Una situazione analoga è quella raccontata da Walter Maraschini alle prese con una sua

alunna: «Risolvendo alla lavagna un esercizio assegnato come compito per casa, scrissi finalmente la soluzione di un’equazione di incognita x e parametro w: “x = 2w”. E leggendo dissi: “Quindi ics uguale a due vu doppio”. E lei commentò: “E quindi è quattro vu!”. Che dire di tale risposta, a suo modo geniale nel mischiare i piani del discorso?» (Maraschini, 2008, p. 23).

Diversi sono i docenti che utilizzano un procedimento di “traduzione” simile a

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