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Ancora sulla mutazione antropologica : nostalgia del passato

L’intransigenza pasoliniana tra gli anni Sessanta e Settanta

3.14. Ancora sulla mutazione antropologica : nostalgia del passato

Anche attraverso il tema dell’aborto e del coito, Pasolini ha cercato di porre al centro

dell’attenzione il cambiamento di cui, negli ultimi anni, sono stati investiti gli italiani, diventati intolleranti, infami, rozzi, disposti a dimenticare la loro storia per inseguire

quei modelli di benessere promossi dal nuovo Potere. È lui stesso a ricordare, in risposta

a Moravia, come «il consumismo, in quanto trasformazione antropologica della gente, è

una tragedia, che si manifesta come delusione, rabbia, come rifiuto dello status quo»

[Ivi 131].

È proprio la delusione e la volontà di evadere dalla realtà contingente che spinge Pasolini a guardare al passato, quando ancora l’Italia era una civiltà preindustriale, lontana dal progresso, incline a coltivare principi e valori morali. Come sappiamo, è dall’esperienza corporea e diretta con la realtà che si originano le sue cupe riflessioni, come emerge dall’articolo Ampliamento del bozzetto sulla rivoluzione antropologica. Inizialmente polemizza contro la televisione, come strumento ideale, scelto dal nuovo

Potere, per trasformare e deviare gli uomini attraverso un «bombardamento ideologico

non esplicito [ma] indiretto» [Ivi 70]; in seguito si concentra sui giovani, che vede

essenzialmente infelici a causa dell’uguaglianza nell’esprimersi, nell’atteggiarsi, nel

parlare: «la tristezza fisica è nevrotica; essa dipende da frustrazione sociale. Ora che il

modello da realizzare […] è imposto dal potere, molti non sono più in grado di realizzarlo. E ciò li umilia [Ivi 72]. Così fornisce un esempio concreto di come sia

cambiata la vita dei ragazzi rispetto a qualche anno prima, quando le loro azioni avevano un valore all’interno della propria classe sociale:

Una volta il fornarino era sempre allegro: un’allegria vera, che gli sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito più poveramente di adesso […]. Egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli aveva da opporre un mondo altrettanto valido [ibidem].

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La causa del dilagare della tristezza tra i giovani è l’omologazione interclassista, le false libertà promosse dal potere, quali la libertà sessuale, che, presentandosi come conquiste

della civiltà moderna, in realtà non fanno che abbruttire gli italiani, rendendoli infelici e

nevrotici.

C’è un altro testo in cui lo scrittore si concentra sulla trasformazione fisica, questa

volta del paesaggio italiano. Si tratta della recensione al volume di Sandro Penna, Un

po’ di febbre, articolo che apre la seconda parte degli Scritti corsari e pubblicato su

«Tempo» nel giugno del ’73. Già dall’incipit si scorge il tono nostalgico con cui rievoca i tempi passati: «che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini […]. Le città finivano con grandi viali circondate da villette, […]; poi le distese di grano, i canali con le file dei pioppi» [SC 175]. Intento di Pasolini è dimostrare come, nonostante la dittatura, la vita

fosse migliore in una «civiltà chiusa, segregata nello spazio e immobile nel tempo,

distinta per classi di età, per ceto e per gender»341. Infatti lo scrittore non perde

occasione per sottolineare la distanza e il rispetto che intercorrevano tra genitori e figli,

ognuno dei quali impegnati nello svolgere i propri doveri:

I ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita […], una tale purezza nel loro essere che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo [Ivi 176].

Da quanto emerge, vi erano tutti i presupposti per la creazione di una società non incline

a grandi cambiamenti, basata sull’onestà, la tolleranza, il rispetto altrui. Invece la purezza di una simile civiltà clerico-fascista è stata violata dall’arrivo del

neocapitalismo, che ha reso «i ragazzi brutti, pallidi [indotti a rompere] l’isolamento cui

341 PISCHEDDA 2011, p. 68.

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li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi e presuntuosi nel mondo di cui si

sono impadroniti e costringendo gli adulti al silenzio» [Ivi 177]. È questa situazione

drammatica che impedisce a Pasolini di credere e sperare nel futuro, preferendo

piuttosto abbandonarsi a una «sorta di estasi regressiva, con lo stupore gaudioso di chi

ritorna al passato come si trattasse di un mito appena inverato dalla scoperta»342.

In uno degli articoli corsari più conosciuti, Il vuoto del potere in Italia, apparso nel febbraio del ’75, passato poi nella raccolta con il titolo L’articolo delle lucciole, Pasolini, giunto ormai alla consapevolezza del compimento di quella mutazione che ha

investito gli italiani, facendo di essi degli esseri quasi irriconoscibili, avvia una sorta di analisi sociologica dell’Italia di quegli anni. Sua intenzione è quella di descrivere, semplificando i concetti per mezzo di espedienti retorici, che cosa sia accaduto in Italia

a partire dal secondo dopoguerra. Ricorre così alla metafora della scomparsa delle

lucciole, dovuta a un inquinamento delle acque, per parlare di un qualcosa che è

accaduto in Italia intorno alla metà degli anni Sessanta e che ha sconvolto gli individui,

trasformati in semplici automi privati delle facoltà intellettive. Pasolini sta alludendo

alla tragica situazione politica e sociale in cui verte l’Italia a lui coeva; essa appare vittima di un vuoto di potere dovuto alla diffusione di quel nuovo Potere consumistico

che ha rivoluzionato la società da un punto di vista antropologico, culturale e

produttivo. Si è infatti avviata quella industrializzazione che, pur migliorando le tecniche di produzione, ha posto le basi per una distruzione fisica dell’ambiente, con tutte le conseguenze che l’inquinamento industriale provoca anche alla salute umana. Per semplificare il concetto, suddivide il periodo in tre fasi. Inizia così a descrivere

quale fosse il clima politico italiano prima della scomparsa delle lucciole, ossia quando

«la continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano era assoluta» [SC 157]; la

civiltà italiana era, fondamentalmente, ancora contadina, costruita su valori che

342 Ibidem.

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corrispondevano a quelli validi durante il fascismo: «la Chiesa, la patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine e la moralità» [Ivi 158]; un paese ancora intatto nel suo aspetto paesaggistico, come ha ricordato Pasolini nella recensione al libro di Sandro

Penna. Della seconda fase, da lui definita durante la scomparsa delle lucciole, denuncia

il fatto che «il grande paese che si stava formando dentro il paese, cioè la massa operaia

e contadina organizzata dal Pci [insieme] agli intellettuali più avanzati, non si erano

accorti della scomparsa delle lucciole» [Ivi 159]; ciò di cui non si erano resi conto era

stata la diffusione di un benessere fittizio che, attraverso l’industrializzazione, l’omologazione totalizzante, avrebbe poi condotto a quel «genocidio di cui parlava Marx nel Manifesto» [ibidem]. La terza fase, dopo la scomparsa delle lucciole, allude

all’imposizione del nuovo Potere e della sua ideologia basata sul consumismo; un potere così forte da privare persino i potenti democristiani della loro autorità:

I miei lettori si saranno accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi essi sono diventati delle maschere funebri […]. Oggi [infatti] in Italia c’è un drammatico vuoto di potere […]. Come ci sono giunti gli uomini di potere a questo vuoto? Semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla fase delle lucciole alla fase della scomparsa delle lucciole senza accorgersene […]. Non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano, non stava semplicemente subendo una normale evoluzione, ma stava cambiando natura [Ivi 161-162].

Pasolini quindi intravede la causa della drammatica situazione italiana nell’indifferenza dei democristiani al governo, che hanno accettato passivamente di sottomettersi ai

voleri di una mente così forte e plasmatrice da esserne assorbiti. È da qui che «nascono

gli attacchi alle istituzioni e ai centri di potere, rei di non aver saputo riconoscere il

nuovo tipo di potere come nuovo modo di produzione totalizzante; la classe dirigente

viene così inquadrata in un’ottica di criminale colpevolezza»343. L’articolo termina con l’amara consapevolezza dello scrittore di una società ormai avviatasi al declino, cui

343 CAPPELLUTI 2014-2015, p. 167.

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nessun potente politico potrebbe trovare rimedio; esplicito è anche il suo rifiuto della

nuova società industriale: «quanto a me sia chiaro: io darei l’intera Montedison per una

lucciola» [Ivi 164]; rifiuto dettato da una sorta di rimpianto nostalgico per il passato, per

una società da lui tanto «amata» [Ivi 160], distinta dai particolarismi culturali,

dall’onestà e dall’altruismo. Tuttavia, Bruno Pischedda tende a sottolineare quanto la visione pasoliniana non sia totalmente antimoderna:

Il suo riferirsi al Pci come partito operaio impedisce una rescissione completa dall’evo industriale […]. Sta qui il nucleo più specificamente passatista del suo dire visionario: per quanto intriso di ruralismo edenico (la campagna rappresentava ai miei occhi lo spettacolo di un mondo perfetto), Pasolini non respinge a priori l’intraprendenza borghese e antifeudale, ne condanna l’esito neocapitalista344

.

Dall’analisi dei testi corsari emerge l’immagine di un uomo che alla rassegnazione

oppone il polemismo civile, un uomo che affida la sua voce alla «saggistica politica d’emergenza [costruita] sull’improvvisazione polemica e su una nitida architettura di concetti, di nervature razionali che sostengono il fragile edificio del discorso con la

forza dell’iterazione»345 .

Spesso Pasolini è stato oggetto di critica anche per il fatto di non aver apportato niente

di nuovo con le sue descrizioni apocalittiche e le sue denunce sociali: «l’idea di una

inclusione uniformante che attenderebbe i ceti subalterni campeggiava sin dal 1947 in

Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer […]; per quanto riguarda il Nuovo

Potere che tutto assorbe, impossibile non rimandare a Marcuse»346.

Anche se alcuni critici hanno intravisto dietro gli articoli pasoliniani «cose risapute,

caricate di enfasi»347, tuttavia si tratta di testi che possono essere definiti memorabili per

il loro valore divulgativo, per il fatto che in essi lo scrittore si sia impegnato a

344 PISCHEDDA 2011, p. 87. 345 BERARDINELLI 1990, p. XII. 346 PISCHEDDA 2011, p. 85. 347 BERARDINELLI 1990, p. X.

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denunciare fenomeni, quali appunti l’industrializzazione, l’omologazione, il potere totalizzante, nel momento in cui si sono presentati e imposti anche in Italia.