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La realtà circostante come maestra di vita

L’intransigenza pasoliniana tra gli anni Sessanta e Settanta

3.16. La realtà circostante come maestra di vita

Nella prima parte della raccolta, Pasolini si pone come educatore di Gennariello, un

giovane napoletano, dunque originario di una delle poche città sopravvissute all’era

consumistica, «l’ultima metropoli plebea» [LL 17].

Si sofferma così sulle fonti educative del ragazzo, rappresentate dagli oggetti, dalla

realtà e dai suoi coetanei. Infatti ciò che al nostro scrittore preme dimostrare è il fatto

che, sin dall’infanzia, la realtà circostante ha un ruolo fondamentale per gli individui.

Gli oggetti che quotidianamente ci circondano hanno la capacità di insegnare molte cose

sull’ambiente in cui un bambino nasce e cresce:

L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica, in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale, rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito. La condizione sociale si riconosce nella carne di un individuo. Perché egli è stato fisicamente plasmato dall’educazione appunto fisica della materia di cui è fatto il suo mondo [LL 36].

Bruno Pischedda ricorda l’interesse pasoliniano per l’antropologia fisica, che lo induce «all’analisi dei corpi [e alla considerazione] di materia, corpo e carne come forme sostanziali dello spirito»352. Nel Paragrafo sesto Pasolini ritorna sul valore educativo

351

SCIUGA 2013, p. 168.

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delle cose, ma in questo caso delle cose nuove, conseguenza dell’avvento dell’evo

capitalistico, che egli considera inutili. Per Gennariello, invece, tutte quelle novità

hanno valore e importanza assoluti in quanto lo informano sul mondo che lo circonda,

in cui egli imparerà ad agire. Pasolini dichiara così la sua inefficacia di fronte alla realtà

dei fatti: «sono impotente contro ciò che ti insegnano le cose. Il loro linguaggio è

inarticolato e rigido: dunque inarticolato e rigido è lo spirito del tuo apprendimento […]. Su questo siamo due estranei, che nulla può avvicinare» [LL 41].

Pasolini prosegue il discorso sulla distanza che separa lui stesso dal giovane napoletano,

una distanza incolmabile, dettata dal diverso insegnamento impartito dalle cose che con

il tempo sono mutate: «ora io non posso insegnare a te le cose che mi hanno educato, e

tu non puoi insegnare a me le cose che ti stanno educando (cioè che stai vivendo)» [LL 42]. È quanto emerge dall’articolo Siamo due estranei: lo dicono le tazze da tè, ossia la trasformazione subita dalla società italiana nel passaggio dal mondo paleoindustriale a

quello neocapitalista. Il diverso modo di produzione degli oggetti, quindi il diverso

insegnamento che essi forniscono ai giovani, non è concepibile da Pasolini, cresciuto in

un mondo nel quale i modelli umani e i valori erano quelli di una civiltà artigianale, in cui «le cose erano fatte o confezionate da mani umane […]. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l’artigianato e il suo spirito è finito di colpo. Proprio mentre hai cominciato a vivere tu» [LL 43].

C’è un altro articolo sull’importanza del linguaggio delle cose, in cui emerge nuovamente il metodo visivo adottato da Pasolini, Com’è mutato il linguaggio delle

cose. Per mezzo di un confronto tra una periferia cittadina degli anni Quaranta e una

degli anni Settanta, egli vuole evidenziare quanto in passato la periferia fosse capace di

fornire informazioni sullo stato sociale dei cittadini che vi vivevano, proletari e

sottoproletari consapevoli che il futuro non avrebbe riservato loro grandi cambiamenti

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quanto sia difficile distinguere i cittadini in base alla classe di appartenenza, ossia i

proletari dai piccolo-borghesi: «i figli sono stati strappati alla somiglianza con i padri e

proiettati verso un domani che, pur conservando i problemi e la miseria dell’oggi, non può che essere qualitativamente diverso» [LL 46].

In riferimento all’educazione di Gennariello, Pasolini volge l’attenzione ai ragazzi, dal

momento che sono a conoscenza di «qualcosa di nuovo [attraverso cui] vanificano il

conformismo pedagogico degli adulti e si impongono come veri maestri» [LL 54].

Ancora una volta, attraverso l’osservazione del loro aspetto fisico e dei loro

atteggiamenti, giunge a definirli «dei mostri, dall’aspetto quasi terrorizzante» [LL 7],

tutti omologati ai modelli imposti dal nuovo Potere. Tra i tanti, Pasolini si sofferma sui

destinati a essere morti, ossia quei ragazzi che, fino a qualche decennio prima,

sarebbero morti se la scienza non fosse intervenuta a salvarli durante l’infanzia. Il loro

tipo di insegnamento è ovviamente diseducativo, in quanto inclini all’infelicità; come ha sottolineato Pischedda,

i sopravvissuti alle malattie natali e agli handicap di natura […] recano con sé un deficit congenito di vitalità, un grumo di nichilismo autodistruttivo destinato a depotenziare anche l’intraprendenza e l’allegria dei coetanei che li attorniano. La nuova leva di adolescenti scaturita dal boom economico e dal nuovo clima di benessere consumista appare più debole, brutta, triste e pallida di tutte le precedenti generazioni che si ricordino. E tra le cause maggiori di un tale fenomeno è giusto la presenza, tra i giovani, di coloro che avrebbero dovuto morire; tutti gli scampati alla morte in forza della medicina […] o sono depressi o sono aggressivi353

.

Con il pretesto di far luce sul tipo di educazione che sarà impartita al giovane

napoletano, Pasolini delinea, in parte, i mutamenti che hanno investito l’Italia dopo il boom economico degli anni Cinquanta, che hanno coinvolto sia la realtà contingente,

sia le persone. Egli giudica responsabili di questo i potenti democristiani al governo,

353 Ivi, p. 55.

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che, di fronte all’avvento del potere capitalistico e consumistico, non si sono pronunciati, bensì lo hanno accettato passivamente; anche gli intellettuali laici e

progressisti sono responsabili, secondo lo scrittore, della situazione disastrosa in cui

volge l’Italia degli anni Settanta.